Legge naturale, della sua evidenza (da Clive Staples Lewis)
Da C.S.Lewis, Il cristianesimo così com’è, Adelphi, 1997, pp.25-31.
A tutti è accaduto di sentire due persone che litigano. L'effetto a volte è un po' comico, a volte soltanto sgradevole; ma a parte l'effetto, credo ci sia molto da imparare ascoltando ciò che dicono queste persone. Dicono, per esempio: «Ti piacerebbe che qualcuno facesse lo stesso a te?»; «Questo è il mio posto, sono arrivato prima io»; «Lascialo in pace, non ti fa niente di male»; «Perché dovresti passarmi avanti?»; «Dammi uno spicchio della tua arancia, io ti ho dato uno spicchio della mia»; «Su, hai promesso»... La gente - persone colte e incolte, bambini e adulti - dice cose del genere ogni giorno.
Ora, ciò che mi interessa in queste frasi è che chi le usa non dice soltanto che il comportamento dell'altro non gli piace, ma si richiama a certe norme di comportamento di cui presume che anche l'altro sia a conoscenza. Ed è molto raro che questi ribatta: «Al diavolo le tue norme». Quasi sempre cerca di dimostrare che quanto ha fatto non è in realtà contrario alle norme, o se lo è, lo è per un motivo particolare. Sostiene che vi è una buona ragione, in quel caso specifico, perché la persona che ha preso il posto per prima non debba tenerselo; o che la situazione era tutt'altra quando gli è stato dato lo spicchio d'arancia; o che un evento imprevisto lo esime dal mantenere la promessa.
Si direbbe, insomma, che entrambe le parti abbiano in mente una sorta di legge o regola di correttezza, di buon comportamento, di morale, o chiamatela come vi pare, sulla quale in realtà sono d'accordo. E così è, in effetti. Se non avessero in mente qualcosa del genere, due persone potrebbero azzuffarsi come animali, ma non litigare nel senso umano del termine. Litigare vuol dire tentare di dimostrare che il tuo avversario ha torto. E il tentativo non avrebbe senso se fra te e lui non esistesse un qualche genere di accordo su che cosa è ragione e torto, giusto e ingiusto; così come non avrebbe senso dire che un calciatore ha commesso un fallo se non ci fosse accordo sulle regole del calcio.
Tale legge o regola del Giusto e dell'Ingiusto si chiamava una volta « legge naturale». Oggi quando parliamo di « leggi naturali» intendiamo di solito cose come la gravitazione, l'ereditarietà, i princìpi della chimica. I pensatori di un tempo, invece, definendo «legge naturale» la legge del giusto e dell'ingiusto, intendevano in realtà la «legge della natura umana». Volevano dire, cioè, che così come tutti i corpi sono soggetti alla legge di gravitazione, e gli organismi alle leggi biologiche, la creatura chiamata uomo ha anch'essa la sua legge. Con questa grande differenza: che un corpo non può scegliere se obbedire o no alla legge di gravitazione, mentre un uomo può scegliere tra obbedire e disobbedire alla legge della natura umana.
In altri termini: ogni uomo è costantemente soggetto a leggi di vario genere, ma c'è una sola legge a cui è libero di disobbedire. In quanto corpo è soggetto alla gravitazione e non può disobbedirle: se lo abbandoni a mezz'aria senza sostegno, non può far altro che cadere né più né meno di un sasso. In quanto organismo è soggetto a leggi biologiche cui non può disobbedire, tale e quale agli animali. L'uomo, cioè, non può disobbedire alle leggi che ha in comune con altre entità.
Ma la legge propria della sua natura umana, la legge che egli non ha in comune con gli animali, i vegetali o le sostanze inorganiche, è l'unica a cui, se vuole, può disobbedire. Questa legge fu chiamata «naturale» perché si riteneva che ognuno la conoscesse naturalmente, senza bisogno che gli fosse insegnata. Non si voleva dire, con questo, che non potessero esistere qua e là singoli individui che la ignoravano, così come ci sono persone che non distinguono i colori o che non hanno orecchio musicale.
Si riteneva però che il genere umano nel suo insieme condividesse come ovvia una certa idea di comportamento. E io credo che chi pensava così avesse ragione. In caso contrario, tutto quello che è stato detto riguardo all'ultima guerra sarebbe assurdo. Che senso avrebbe avuto dire che il nemico era in torto, se la ragione, la giustizia, non fosse una cosa reale, che i nazisti in fondo conoscevano quanto noi e sarebbero stati tenuti a praticare? Se i nazisti non avessero avuto nozione alcuna di ciò che noi intendiamo per giustizia, avremmo pur sempre dovuto combatterli, ma accusarli di iniquità sarebbe stato come incolparli per il colore dei capelli.
So che alcuni giudicano errata l'idea di una «legge naturale», di una norma di comportamento nota a tutti gli uomini, perché, dicono, civiltà ed età differenti hanno avuto morali affatto diverse. Ma questo non è vero. Tra una morale e l'altra ci sono differenze, ma mai una diversità totale. Se ci prendiamo la briga di confrontare, per esempio, le dottrine morali degli antichi egizi, babilonesi, indù, cinesi, greci e romani, ciò che ci colpisce è quanto esse siano simili tra loro, e alle nostre.
Ho raccolto alcune prove in proposito nell'appendice di un altro libro, The Abolition of Man; ma ai nostri fini mi basta qui chiedere al lettore di pensare che cosa vorrebbe dire una morale totalmente diversa. Provate a immaginare un paese dove si ammiri chi fugge in battaglia, o dove ci si senta fieri di ingannare chiunque ci ha fatto del bene. Tanto varrebbe immaginare un luogo dove due più due fa cinque. Gli uomini hanno avuto opinioni differenti su chi siano coloro verso i quali bisogna comportarsi in modo non egoistico: soltanto i familiari, oppure i compatrioti, oppure gli altri in generale; ma hanno sempre convenuto che non bisogna mettere se stessi avanti a tutti. L'egoismo non è mai stato ammirato. Hanno avuto opinioni differenti sul numero delle mogli, se sia lecito averne una oppure quattro; ma hanno sempre convenuto che non è lecito avere tutte le donne che vuoi.
Ma la cosa più singolare è questa. Quando troviamo qualcuno che dichiara di non credere alla realtà di ragione e torto, di giusto e ingiusto, lo vedremo sempre contraddirsi un attimo dopo. Costui, magari, mancherà a una promessa fatta a te, ma se tu non mantieni una promessa fatta a lui protesterà all'istante che “non è giusto”. Una nazione dirà che i trattati non contano nulla; ma un momento dopo eccola smentirsi, dicendo che quel certo trattato che essa intende violare è iniquo. Ma se i trattati non contano, se giusto e ingiusto non esistono - se, in altre parole, non esiste una legge naturale -, che differenza c'è fra un trattato equo e uno iniquo? Quella nazione non si dà la zappa sui piedi, e non dimostra, checché ne dica, di conoscere la legge naturale come tutti quanti?
Sembra, dunque, che siamo costretti a credere che giusto e ingiusto, ragione e torto sono cose reali. A volte ci possiamo sbagliare nell'interpretarle, come a volte ci sbagliamo nel fare i conti; ma esse non sono una pura questione di gusto e di opinione più di quanto lo sia la tavola pitagorica.
Se siamo d'accordo su questo punto, passerò al successivo. Che è questo: nessuno osserva realmente la legge naturale. Se c'è tra voi qualcuno che fa eccezione, mi scuso con lui. Farebbe meglio a leggere un altro libro, perché niente di ciò che dirò lo riguarda.
E adesso, rivolgendomi ai comuni mortali che restano: spero che non fraintenderete quello che dirò. Io non sto predicando, e sa il cielo se pretendo di essere migliore di chicchessia. Voglio solo richiamare l'attenzione su un fatto: quest'anno, o questo mese, o più probabilmente oggi stesso, abbiamo mancato tutti di praticare il tipo di comportamento che ci attendiamo dagli altri.
Possiamo avere ogni sorta di scusanti. La volta che sei stato così ingiusto con i figlioli è perché eri molto stanco. Quella faccenda di soldi un po' scabrosa - quella che hai quasi dimenticato - è capitata quando eri con l'acqua alla gola. E la promessa fatta all'amico Tal dei Tali, e mai mantenuta... be', quando l'hai fatta non potevi sapere che saresti stato occupatissimo! E quanto al tuo comportamento verso tua moglie (o marito) o tua sorella (o fratello), se io sapessi come lei o lui possono essere irritanti, non me ne meraviglierei. E io, poi, chi diamine sono? Io faccio esattamente lo stesso.
Non riesco, cioè, a osservare sempre la legge naturale, e appena qualcuno mi fa notare che non la osservo, nella mia mente nasce una sfilza di scuse lunga da qui a lì. La questione non è se siano o meno scuse valide: è che queste scuse sono la riprova di quanto profondamente, ci piaccia o no, crediamo alla legge naturale. Se non crediamo che bisogna comportarsi bene, perché ci affanniamo tanto a scusarci per non averlo fatto?
La verità è che ne siamo talmente convinti, sentiamo talmente il pungolo della regola, o legge che dir si voglia, che non sopportiamo l'idea di averla violata, e quindi cerchiamo di scaricare la responsabilità su qualcos'altro. Noterete, infatti, che tutte queste spiegazioni le tiriamo in ballo soltanto per la nostra cattiva condotta. Solo le nostre mancanze le attribuiamo alla stanchezza, alle preoccupazioni o alla fame: se agiamo bene, il merito è tutto nostro.
Questi, dunque, sono i due punti che volevo mettere in luce. Primo: gli esseri umani, in tutta la terra, hanno questa curiosa idea di doversi comportare in un certo modo, e non riescono a liberarsene. Secondo: all'atto pratico si comportano diversamente. Conoscono la legge naturale, e la violano. Questi due fatti sono la base di ogni chiara riflessione su noi stessi e sull'universo in cui viviamo.