Capodanno: meditazione per la sera di san Silvestro (da Joseph Ratzinger)
(di Joseph Ratzinger, da Dogma e predicazione, Queriniana, Brescia 1974, 325-330)
Si conclude un anno. Questo comporta sempre un momento di riflessione. Vengono fatti i bilanci, si tenta una previsione per il futuro. Per un istante ci accorgiamo di questa strana realtà ‘tempo’, che altre volte usiamo semplicemente senza accorgercene, proviamo la malinconia e il conforto della transitorietà delle cose.
Molto di ciò che ci oppresse, di ciò che fu pesante per noi e sembrò renderci impossibile proseguire, è passato ed è divenuto singolarmente insignificante. A uno sguardo retrospettivo, i giorni duri appaiono piuttosto trasfigurati e l’affanno, ormai quasi dimenticato, ci permette di essere più tranquilli e più fiduciosi, più calmi di fronte a ciò che ci sovrasta: anch’esso passerà. Conforto della transitorietà: nulla dura, per quanto sembri importante; ma questa parola consolatrice, che dà alla speranza la sua grande promessa, possiede in sé anche qualcosa di scoraggiante e di mesto. Nulla dura: con l'anno vecchio non sono solamente passati molti affanni, ma anche alcune cose belle e, quanto più una persona supera il mezzo del cammino di sua vita, tanto più fortemente esperimenta il trasformarsi in passato di ciò che per lei una volta era futuro e presente. Non può dire all'attimo che fugge: «Fermati, sei tanto bello»; ciò che è tempo se ne va, come è venuto.
Nei confronti dell'anno nuovo, proviamo gli stessi differenti sentimenti come verso quello vecchio: vi sono la preziosità del nuovo inizio, la sua speranza, le sue intatte possibilità. «In ogni inizio si trova, infatti, un incanto che ci protegge e ci aiuta a vivere», fa dire Hermann Hesse al protagonista del suo Das Glasperlenspiel [Il giuoco delle perle di vetro], nell'Istante in cui egli, in età avanzata, fugge dal mondo abituale del gioco spirituale, per provare ancora una volta la carica di promessa, l'eccitazione e la grandezza di un nuovo inizio. Ma, contemporaneamente, esiste anche l'inquietudine di un futuro, del quale non conosciamo le strade, e vi è l'incessante venir meno della nostra partecipazione al futuro.
Che si deve dire come cristiani in quest'ora di passaggio? Compiere, almeno adesso, qualcosa di veramente umano, a cui ci spinge appunto quest'ora: sfruttare questo momento di riflessione per prendere le distanze, per farsi un'idea generale, per acquistare libertà interiore e paziente disponibilità a proseguire. Un antico filosofo ha fatto notare un giorno che l'uomo si differenzia essenzialmente dall'animale perché egli, per così dire, sporge con la sua testa fuori dall'acqua del tempo. Le bestie sono in essa come pesci natanti trasportati dal tempo; soltanto l'uomo può uscirne col suo sguardo e dominare così il tempo. Ma facciamo realmente così? Non siamo forse anche noi dei semplici pesci, immersi nel mare del tempo, che vengono trasportati dalle sue correnti, senza poter scorgere i termini di questo andare? Non siamo forse sempre presi dagli impegni particolari di ogni giorno, dai suoi costanti bisogni e necessità? Non passiamo forse da appuntamento ad appuntamento, da dovere a dovere, al punto che non riusciamo più ad accorgerci di noi stessi?
Ma, allora, dovrebbe essere questo il momento di venire a galla e cercare di guardare, per un istante, il cielo che sta sopra il mare e le stelle che stanno sopra di noi, per cogliere contemporaneamente noi stessi. Dovremmo cercare di esaminare il cammino che abbiamo percorso e trovare delle valutazioni. Dovremmo cercare di conoscere ciò che c'è stato di errato, quello che ha impedito l'accesso a noi stessi e agli altri. Dovremmo conoscerlo, per tenercene interiormente lontani, affinché il cammino dell'anno nuovo sia realmente per noi un progresso, un andare avanti. Un giorno, Agostino ebbe a dire ai suoi contemporanei, che si lamentavano dei loro brutti tempi: siamo noi stessi i tempi. Infatti, quando parliamo dello stile Biedermeier o del Barocco, oppure della rivoluzione francese, ci riferiamo sempre agli uomini che insieme hanno fatto di quegli anni un'epoca ben determinata. Gli uomini sono il tempo, nella mutevole natura del loro essere.
Ma può il tempo andare veramente avanti, se gli uomini non camminano? E vanno essi avanti, se solo le loro comodità progrediscono, ma il loro cuore resta fermo o, addirittura, avvizzisce? E può l'uomo progredire quando non conosce affatto se stesso, quando ha tempo solo per ciò che possiede e mai per ciò che egli è, se egli stesso quindi rimane al di fuori del tempo? Come può imparare a distinguere ciò che è prezioso da ciò che è falso, a tutelare il primo e tralasciare l'altro? Come trovare un orientamento, se rimane solo pesce nell'acqua del tempo e non si fa vero uomo con la testa rivolta verso l'alto?
Siamo noi uomini il tempo! Proseguiamo nella considerazione di questa memorabile espressione. Scopriamo allora che lo stesso essere uomo vive in flussi diversissimi: fanciullezza, giovinezza, periodo della maturità, vecchiaia. Oggi, però, questi flussi si scompongono più che in passato. È come se i più vecchi vivessero in un tempo diverso da quello in cui vivono i giovani, e gli uni e gli altri si contendono reciprocamente il tempo. A un esame più attento, il quadro diviene ancora più sconvolgente.
Da una parte, ciò che l'uomo si aspetta dalla vita è aumentato: egli ha più tempo che in passato o, meglio, la spanna di tempo che gli è data per la vita è diventata più lunga. D'altra parte, la vita dell'uomo muta sempre più rapidamente, egli si logora sempre più in fretta, così che la differenza tra passato e presente aumenta costantemente, il presente s'abbrevia sempre più e ciò che è trascorso si distanzia sempre più in fretta e chiaramente dal presente. Ma ciò vuol dire che l'uomo è sempre più respinto nel passato e vi appartiene. Significa, inoltre, che in un solo tempo devono coesistere tempi sempre più diversi e che vi dovranno essere tensioni sempre crescenti in un medesimo tempo, il quale, pertanto, è costituito da una contraddittoria coesistenza di tempi.
L'uomo ha rapporti sempre più difficili con se stesso e gli diventa più difficile accettare la sua temporalità, perché deve avvertirla sempre più acutamente come transitorietà, come uno scivolare nel passato e, quindi, come disperazione.
La conseguenza di tutto ciò non è solamente il conflitto di generazioni, che sperimenta quotidianamente; si fa sentire anche nel fatto che l'uomo rinnega il suo tempo e vuol ammettere una sola età: la giovinezza. In un'epoca il cui sostegno interiore e la cui forza normativa era la tradizione, l'età privilegiata era quella del vecchio. Nel linguaggio della chiesa, questa verità è conservata ancora dal termine 'prete', che deriva dal greco presbyteros e sta a significare propriamente l’ ‘anziano’. Gli uomini, che hanno sperimentato la continuità del tempo, portano in se stessi i segni del tempo. Oggi, invece, a partire da un determinato momento, l'uomo vuol vivere, per così dire, con l'orologio fermo; i trucchi e i cosmetici l'aiutano, con alterno successo, a camuffarsi ai propri occhi e agli occhi degli altri. Nell'uno come nell'altro caso è disconosciuta l'interezza della vita, è negato il tempo e l'uomo inganna se stesso.
Non dovrebbe quest'ora indurci a diventare attenti una buona volta anche a questo riguardo? Non dovremmo forse conoscere e riconoscere di nuovo reciprocamente che l'uomo non deve vergognarsi di nessuna età, se sa accettarla e viverla interiormente? Non dovremmo, forse, in quest'ora di intersezione del tempo che trascorre e si rinnova, riconoscere che l'uomo, per essere giusto, ha bisogno della sua totalità, dall'età del bambino fino a quella del vecchio? Non dovremmo cercare di accettare meglio tutto il tempo dell'uomo e trovare ciascuno tolleranza o, meglio, riconoscenza per il modo di vita dell'altro, convinti che tutti abbiamo qualcosa da darci a vicenda?
Per esprimerci in termini più concreti: che sarebbero un mondo e una chiesa senza la fede serena, leale e schietta dei bambini, il cui essere-bambini non va estinto in una maturità precoce, come oggi da molte parti avviene? Che sarebbero un mondo e una chiesa senza l'inquietudine sollecitante, le domande progressiste con cui ci assalgono i giovani? Che sarebbero senza la forza e la decisione di coloro che sono al culmine della loro vita? Che sarebbero senza la maturità dell'esperienza, senza la tranquilla pazienza e la remissiva serenità degli anziani? E che cosa saremmo noi tutti senza la fiducia degli uni verso gli altri, la disponibilità a guardarci e accettarci a vicenda? Forse, in quest'epoca in cui domina il futuro e, appunto per questo, a partire da un determinato momento gli orologi vengono per così dire bloccati, la cosa più importante è forse imparare ad accettare interiormente la persona più anziana e il proprio invecchiare, e accettare in ciò tempo e futuro.
Siamo noi uomini il tempo. Con questa constatazione Agostino ha voluto opporsi non solo al pessimismo dei criticoni, ma, prima ancora, a un'antichissima tradizione della religione pagana. Presso i Greci Chronos, il Tempo, è la divinità originaria che divora crudelmente i propri figli. Pensieri analoghi si trovano nel mito indiano, che formula così la sua pessimistica concezione del mondo visibile: il tempo è identico alla morte; esso genera tutto e poi tutto di nuovo inghiotte; in realtà, la vita non è altro che il gioco della morte con se stessa. La divinizzazione del tempo genera disperazione, non speranza.
Solo in apparenza questi miti sono molto lontani da noi; si deve dar ragione a C.G.Jung: essi rivelano ciò che vi è di archetipo nell'anima umana, le sue perenni possibilità. Queste si realizzano in molteplici maniere, ma possono anche mascherarsi fino alla inconoscibilità, senza perdere per questo la loro identità. Nella sua opera sullo stato, il filosofo di Monaco Helmuth Kuhn osserva che, con il trionfo dell'hegelismo in Germania, all'etica è subentrata la filosofia della storia e il bene è stato equiparato alle esigenze del tempo. Verissimo.
Prescindendo da quanta responsabilità Hegel stesso possa avere o non avere avuto in tal senso, mi pare qui descritta con molta esattezza la ripercussione di una corrente di pensiero, avviata essenzialmente da lui. Il bene è ciò che risponde alle esigenze del tempo: quest'opinione non è forse oggi penetrata fin dentro la chiesa e non ha pervaso gli uomini di chiesa? E non si deve dire che dopo la morte del Dio cristiano, ovunque proclamata, il vecchio Chronos ha ripreso il suo posto di divinità suprema? Ed egli è un dio crudele, in passato come oggi. Che cosa non ha dovuto adorare e bruciare in breve lasso di tempo chi venera il gusto e il bisogno del tempo come il bene? Soltanto la smemorataggine, che Chronos regala ai suoi adoratori, impedisce loro di capire la piena contraddittorietà del suo gioco crudele. Per vedere quanto sia crudele, basta guardare tutto ciò che, nel nome dell'esigenza del tempo, è capitato all'uomo in questo secolo. Dove il tempo diviene signore dell'uomo, questi diviene schiavo, anche se Chronos si presenta nel nome del progresso e del futuro.
Nella chiesa di san Cuniberto a Colonia si trova una singolare pala d'altare del IX secolo. Il dio Chronos vi è raffigurato sotto il titolo di Annus, l'Anno, circondato dai simboli del tempo: il giorno e la notte, le stagioni, i dodici segni dello zodiaco. Ma a ciò sono aggiunti i simboli cristiani dell'alfa e dell'omega, dell'inizio e della fine, e Annus, visto come pontefice, come colui che getta un ponte, come sacerdote, è posto sullo stesso piano della figura di Gesù Cristo. Questo può essere grave indice di un cristianesimo troppo adeguato ai tempi, che interpreta Cristo in conformità con i gusti e le esigenze dei tempi, lo pone sullo stesso piano del tempo e, al posto di Cristo, costituisce Chronos come Dio.
Di fatto, nella storia della chiesa, questo pericolo non incombe ora per la prima volta: la sottomissione alla dittatura dell'opportunismo fu sempre la tentazione dei cristiani, a cominciare dall'idea ecclesiastico-imperiale di Costantino fino ai cristiani tedeschi del 1933.
Ma l'idea della pala di Colonia può essere anche un richiamo a quella vittoria sul Chronos che è avvenuta appunto in Gesù Cristo: un uomo che ha avuto tempo per Dio e ha quindi liberato l'uomo dalla dittatura del tempo. Molto ci sarebbe da dire e da riflettere a questo proposito. Ma questa sera non deve assolutamente chiudersi con formule chiare e tonde; il suo senso è piuttosto quello di farci meditare e, quindi, è certamente molto più opportuno riprendere, dal quadro delle riflessioni svolte, alcuni interrogativi che ci assalgono con particolare intensità, soprattutto in questa ora.
La medicina ha prolungato il tempo dell'uomo. Egli ha più tempo. Ma abbiamo davvero tempo? O è il tempo che possiede noi? La maggior parte non ha comunque tempo per Dio, adopera il suo tempo per sé, come crede. Ma abbiamo realmente tempo per noi stessi? O non ci manca proprio? Non viviamo forse senza pensare a noi stessi? Eppure, il vero tempo dell'uomo non è quello che egli ha per Dio? Gesù Cristo ha avuto tempo per Dio e in lui ora Dio ha tempo. Non dovremmo quindi cercare di disporre di tempo per Dio, di renderlo tempo suo? Fin troppi argomenti, infatti, ci dicono che quel tempo, che non è più disponibile per lui, diventa Chronos che inghiotte noi stessi. Solo l’aver tempo per Dio ci dà tempo per l’uomo, ci libera dalla dittatura del Chronos. Una simile realtà e un felice anno nuovo in questo senso vogliamo augurare a noi tutti.
Si conclude un anno. Questo comporta sempre un momento di riflessione. Vengono fatti i bilanci, si tenta una previsione per il futuro. Per un istante ci accorgiamo di questa strana realtà ‘tempo’, che altre volte usiamo semplicemente senza accorgercene, proviamo la malinconia e il conforto della transitorietà delle cose.
Molto di ciò che ci oppresse, di ciò che fu pesante per noi e sembrò renderci impossibile proseguire, è passato ed è divenuto singolarmente insignificante. A uno sguardo retrospettivo, i giorni duri appaiono piuttosto trasfigurati e l’affanno, ormai quasi dimenticato, ci permette di essere più tranquilli e più fiduciosi, più calmi di fronte a ciò che ci sovrasta: anch’esso passerà. Conforto della transitorietà: nulla dura, per quanto sembri importante; ma questa parola consolatrice, che dà alla speranza la sua grande promessa, possiede in sé anche qualcosa di scoraggiante e di mesto. Nulla dura: con l'anno vecchio non sono solamente passati molti affanni, ma anche alcune cose belle e, quanto più una persona supera il mezzo del cammino di sua vita, tanto più fortemente esperimenta il trasformarsi in passato di ciò che per lei una volta era futuro e presente. Non può dire all'attimo che fugge: «Fermati, sei tanto bello»; ciò che è tempo se ne va, come è venuto.
Nei confronti dell'anno nuovo, proviamo gli stessi differenti sentimenti come verso quello vecchio: vi sono la preziosità del nuovo inizio, la sua speranza, le sue intatte possibilità. «In ogni inizio si trova, infatti, un incanto che ci protegge e ci aiuta a vivere», fa dire Hermann Hesse al protagonista del suo Das Glasperlenspiel [Il giuoco delle perle di vetro], nell'Istante in cui egli, in età avanzata, fugge dal mondo abituale del gioco spirituale, per provare ancora una volta la carica di promessa, l'eccitazione e la grandezza di un nuovo inizio. Ma, contemporaneamente, esiste anche l'inquietudine di un futuro, del quale non conosciamo le strade, e vi è l'incessante venir meno della nostra partecipazione al futuro.
Che si deve dire come cristiani in quest'ora di passaggio? Compiere, almeno adesso, qualcosa di veramente umano, a cui ci spinge appunto quest'ora: sfruttare questo momento di riflessione per prendere le distanze, per farsi un'idea generale, per acquistare libertà interiore e paziente disponibilità a proseguire. Un antico filosofo ha fatto notare un giorno che l'uomo si differenzia essenzialmente dall'animale perché egli, per così dire, sporge con la sua testa fuori dall'acqua del tempo. Le bestie sono in essa come pesci natanti trasportati dal tempo; soltanto l'uomo può uscirne col suo sguardo e dominare così il tempo. Ma facciamo realmente così? Non siamo forse anche noi dei semplici pesci, immersi nel mare del tempo, che vengono trasportati dalle sue correnti, senza poter scorgere i termini di questo andare? Non siamo forse sempre presi dagli impegni particolari di ogni giorno, dai suoi costanti bisogni e necessità? Non passiamo forse da appuntamento ad appuntamento, da dovere a dovere, al punto che non riusciamo più ad accorgerci di noi stessi?
Ma, allora, dovrebbe essere questo il momento di venire a galla e cercare di guardare, per un istante, il cielo che sta sopra il mare e le stelle che stanno sopra di noi, per cogliere contemporaneamente noi stessi. Dovremmo cercare di esaminare il cammino che abbiamo percorso e trovare delle valutazioni. Dovremmo cercare di conoscere ciò che c'è stato di errato, quello che ha impedito l'accesso a noi stessi e agli altri. Dovremmo conoscerlo, per tenercene interiormente lontani, affinché il cammino dell'anno nuovo sia realmente per noi un progresso, un andare avanti. Un giorno, Agostino ebbe a dire ai suoi contemporanei, che si lamentavano dei loro brutti tempi: siamo noi stessi i tempi. Infatti, quando parliamo dello stile Biedermeier o del Barocco, oppure della rivoluzione francese, ci riferiamo sempre agli uomini che insieme hanno fatto di quegli anni un'epoca ben determinata. Gli uomini sono il tempo, nella mutevole natura del loro essere.
Ma può il tempo andare veramente avanti, se gli uomini non camminano? E vanno essi avanti, se solo le loro comodità progrediscono, ma il loro cuore resta fermo o, addirittura, avvizzisce? E può l'uomo progredire quando non conosce affatto se stesso, quando ha tempo solo per ciò che possiede e mai per ciò che egli è, se egli stesso quindi rimane al di fuori del tempo? Come può imparare a distinguere ciò che è prezioso da ciò che è falso, a tutelare il primo e tralasciare l'altro? Come trovare un orientamento, se rimane solo pesce nell'acqua del tempo e non si fa vero uomo con la testa rivolta verso l'alto?
Siamo noi uomini il tempo! Proseguiamo nella considerazione di questa memorabile espressione. Scopriamo allora che lo stesso essere uomo vive in flussi diversissimi: fanciullezza, giovinezza, periodo della maturità, vecchiaia. Oggi, però, questi flussi si scompongono più che in passato. È come se i più vecchi vivessero in un tempo diverso da quello in cui vivono i giovani, e gli uni e gli altri si contendono reciprocamente il tempo. A un esame più attento, il quadro diviene ancora più sconvolgente.
Da una parte, ciò che l'uomo si aspetta dalla vita è aumentato: egli ha più tempo che in passato o, meglio, la spanna di tempo che gli è data per la vita è diventata più lunga. D'altra parte, la vita dell'uomo muta sempre più rapidamente, egli si logora sempre più in fretta, così che la differenza tra passato e presente aumenta costantemente, il presente s'abbrevia sempre più e ciò che è trascorso si distanzia sempre più in fretta e chiaramente dal presente. Ma ciò vuol dire che l'uomo è sempre più respinto nel passato e vi appartiene. Significa, inoltre, che in un solo tempo devono coesistere tempi sempre più diversi e che vi dovranno essere tensioni sempre crescenti in un medesimo tempo, il quale, pertanto, è costituito da una contraddittoria coesistenza di tempi.
L'uomo ha rapporti sempre più difficili con se stesso e gli diventa più difficile accettare la sua temporalità, perché deve avvertirla sempre più acutamente come transitorietà, come uno scivolare nel passato e, quindi, come disperazione.
La conseguenza di tutto ciò non è solamente il conflitto di generazioni, che sperimenta quotidianamente; si fa sentire anche nel fatto che l'uomo rinnega il suo tempo e vuol ammettere una sola età: la giovinezza. In un'epoca il cui sostegno interiore e la cui forza normativa era la tradizione, l'età privilegiata era quella del vecchio. Nel linguaggio della chiesa, questa verità è conservata ancora dal termine 'prete', che deriva dal greco presbyteros e sta a significare propriamente l’ ‘anziano’. Gli uomini, che hanno sperimentato la continuità del tempo, portano in se stessi i segni del tempo. Oggi, invece, a partire da un determinato momento, l'uomo vuol vivere, per così dire, con l'orologio fermo; i trucchi e i cosmetici l'aiutano, con alterno successo, a camuffarsi ai propri occhi e agli occhi degli altri. Nell'uno come nell'altro caso è disconosciuta l'interezza della vita, è negato il tempo e l'uomo inganna se stesso.
Non dovrebbe quest'ora indurci a diventare attenti una buona volta anche a questo riguardo? Non dovremmo forse conoscere e riconoscere di nuovo reciprocamente che l'uomo non deve vergognarsi di nessuna età, se sa accettarla e viverla interiormente? Non dovremmo, forse, in quest'ora di intersezione del tempo che trascorre e si rinnova, riconoscere che l'uomo, per essere giusto, ha bisogno della sua totalità, dall'età del bambino fino a quella del vecchio? Non dovremmo cercare di accettare meglio tutto il tempo dell'uomo e trovare ciascuno tolleranza o, meglio, riconoscenza per il modo di vita dell'altro, convinti che tutti abbiamo qualcosa da darci a vicenda?
Per esprimerci in termini più concreti: che sarebbero un mondo e una chiesa senza la fede serena, leale e schietta dei bambini, il cui essere-bambini non va estinto in una maturità precoce, come oggi da molte parti avviene? Che sarebbero un mondo e una chiesa senza l'inquietudine sollecitante, le domande progressiste con cui ci assalgono i giovani? Che sarebbero senza la forza e la decisione di coloro che sono al culmine della loro vita? Che sarebbero senza la maturità dell'esperienza, senza la tranquilla pazienza e la remissiva serenità degli anziani? E che cosa saremmo noi tutti senza la fiducia degli uni verso gli altri, la disponibilità a guardarci e accettarci a vicenda? Forse, in quest'epoca in cui domina il futuro e, appunto per questo, a partire da un determinato momento gli orologi vengono per così dire bloccati, la cosa più importante è forse imparare ad accettare interiormente la persona più anziana e il proprio invecchiare, e accettare in ciò tempo e futuro.
Siamo noi uomini il tempo. Con questa constatazione Agostino ha voluto opporsi non solo al pessimismo dei criticoni, ma, prima ancora, a un'antichissima tradizione della religione pagana. Presso i Greci Chronos, il Tempo, è la divinità originaria che divora crudelmente i propri figli. Pensieri analoghi si trovano nel mito indiano, che formula così la sua pessimistica concezione del mondo visibile: il tempo è identico alla morte; esso genera tutto e poi tutto di nuovo inghiotte; in realtà, la vita non è altro che il gioco della morte con se stessa. La divinizzazione del tempo genera disperazione, non speranza.
Solo in apparenza questi miti sono molto lontani da noi; si deve dar ragione a C.G.Jung: essi rivelano ciò che vi è di archetipo nell'anima umana, le sue perenni possibilità. Queste si realizzano in molteplici maniere, ma possono anche mascherarsi fino alla inconoscibilità, senza perdere per questo la loro identità. Nella sua opera sullo stato, il filosofo di Monaco Helmuth Kuhn osserva che, con il trionfo dell'hegelismo in Germania, all'etica è subentrata la filosofia della storia e il bene è stato equiparato alle esigenze del tempo. Verissimo.
Prescindendo da quanta responsabilità Hegel stesso possa avere o non avere avuto in tal senso, mi pare qui descritta con molta esattezza la ripercussione di una corrente di pensiero, avviata essenzialmente da lui. Il bene è ciò che risponde alle esigenze del tempo: quest'opinione non è forse oggi penetrata fin dentro la chiesa e non ha pervaso gli uomini di chiesa? E non si deve dire che dopo la morte del Dio cristiano, ovunque proclamata, il vecchio Chronos ha ripreso il suo posto di divinità suprema? Ed egli è un dio crudele, in passato come oggi. Che cosa non ha dovuto adorare e bruciare in breve lasso di tempo chi venera il gusto e il bisogno del tempo come il bene? Soltanto la smemorataggine, che Chronos regala ai suoi adoratori, impedisce loro di capire la piena contraddittorietà del suo gioco crudele. Per vedere quanto sia crudele, basta guardare tutto ciò che, nel nome dell'esigenza del tempo, è capitato all'uomo in questo secolo. Dove il tempo diviene signore dell'uomo, questi diviene schiavo, anche se Chronos si presenta nel nome del progresso e del futuro.
Nella chiesa di san Cuniberto a Colonia si trova una singolare pala d'altare del IX secolo. Il dio Chronos vi è raffigurato sotto il titolo di Annus, l'Anno, circondato dai simboli del tempo: il giorno e la notte, le stagioni, i dodici segni dello zodiaco. Ma a ciò sono aggiunti i simboli cristiani dell'alfa e dell'omega, dell'inizio e della fine, e Annus, visto come pontefice, come colui che getta un ponte, come sacerdote, è posto sullo stesso piano della figura di Gesù Cristo. Questo può essere grave indice di un cristianesimo troppo adeguato ai tempi, che interpreta Cristo in conformità con i gusti e le esigenze dei tempi, lo pone sullo stesso piano del tempo e, al posto di Cristo, costituisce Chronos come Dio.
Di fatto, nella storia della chiesa, questo pericolo non incombe ora per la prima volta: la sottomissione alla dittatura dell'opportunismo fu sempre la tentazione dei cristiani, a cominciare dall'idea ecclesiastico-imperiale di Costantino fino ai cristiani tedeschi del 1933.
Ma l'idea della pala di Colonia può essere anche un richiamo a quella vittoria sul Chronos che è avvenuta appunto in Gesù Cristo: un uomo che ha avuto tempo per Dio e ha quindi liberato l'uomo dalla dittatura del tempo. Molto ci sarebbe da dire e da riflettere a questo proposito. Ma questa sera non deve assolutamente chiudersi con formule chiare e tonde; il suo senso è piuttosto quello di farci meditare e, quindi, è certamente molto più opportuno riprendere, dal quadro delle riflessioni svolte, alcuni interrogativi che ci assalgono con particolare intensità, soprattutto in questa ora.
La medicina ha prolungato il tempo dell'uomo. Egli ha più tempo. Ma abbiamo davvero tempo? O è il tempo che possiede noi? La maggior parte non ha comunque tempo per Dio, adopera il suo tempo per sé, come crede. Ma abbiamo realmente tempo per noi stessi? O non ci manca proprio? Non viviamo forse senza pensare a noi stessi? Eppure, il vero tempo dell'uomo non è quello che egli ha per Dio? Gesù Cristo ha avuto tempo per Dio e in lui ora Dio ha tempo. Non dovremmo quindi cercare di disporre di tempo per Dio, di renderlo tempo suo? Fin troppi argomenti, infatti, ci dicono che quel tempo, che non è più disponibile per lui, diventa Chronos che inghiotte noi stessi. Solo l’aver tempo per Dio ci dà tempo per l’uomo, ci libera dalla dittatura del Chronos. Una simile realtà e un felice anno nuovo in questo senso vogliamo augurare a noi tutti.