Celebrare l’Avvento non significa altro che parlare con Dio come ha fatto Giobbe (da J. Ratzinger)
da J. Ratzinger, Tempo di Avvento, Queriniana, Brescia, 2005, pp. 7-14
In queste settimane la chiesa, e noi con essa, celebriamo l’Avvento. Se cerchiamo di ripensare a quanto nella nostra infanzia abbiamo imparato a proposito dell’Avvento e del suo senso, ci ricorderemo che ci fu detto che la corona dell’Avvento e le sue luci ci rammentano i millenni [forse le centinaia di millenni] della storia dell’umanità prima di Gesù Cristo. Tale corona rammenterebbe a noi e alla chiesa il tempo in cui un’umanità irredenta aspettava la redenzione. Ci rammenterebbe le tenebre di una storia ancora irredenta, in cui solo lentamente si accesero le luci della speranza, finché alla fine Cristo, la luce del mondo, venne e liberò il mondo dalle tenebre della mancanza di redenzione.
Inoltre ci ricorderemo d’aver imparato che questi millenni prima di Cristo sarebbero stati i tempi della perdizione provocata dalla caduta nel peccato, mentre abbiamo imparato a chiamare i secoli successivi alla nascita del Signore “anni salutis reparatae”, anni della salvezza ristabilita. Infine ricorderemo che ci fu detto che durante l’Avvento la chiesa non riflette soltanto sul passato, nel quale per l’umanità l’Avvento fu un tempo di mancanza di redenzione e di attesa, bensì guarda contemporaneamente al di là di sé alla schiera di coloro che non sono ancora battezzati, di quelli per i quali e ancor sempre tempo di ‘avvento’, perché essi attendono e vivono ancor sempre nell’oscurità della mancanza di redenzione.
Quando, come uomini del nostro secolo e forti delle esperienze del nostro secolo, ripensiamo a queste affermazioni imparate da bambini, ben difficilmente riusciamo ancora ad accettarle in misura piena. Le parole che parlano degli anni della salvezza successivi a Cristo, contrapposti a quelli antecedenti la sua nascita, non ci muoiono sulle labbra, anzi, non suonano come un’amara ironia, se pensiamo a date come quelle del 1914, 1918, 1933, 1939, 1945, a date che delimitano il periodo di guerre mondiali in cui milioni di uomini persero la vita spesso in circostanze terribili, a date che risvegliano il ricordo di atrocità, di cui l’umanità prima non sarebbe stata capace già per motivi puramente tecnici? Inoltre tra di esse c’è anche la data che ricorda l’inizio di un regime, che aveva portato a una feroce perfezione lo sterminio di massa, nonché la data che ricorda l’anno in cui la prima bomba atomica fu fatta brillare su una città popolata da creature umane e che con la sua luminosità accecante aveva dato inizio a una possibilità del tutto nuova di tenebre per il mondo.
Quando riflettiamo su queste cose, non riusciamo semplicemente più a suddividere la storia in tempi della perdizione e in tempi della salvezza. Se poi allarghiamo il nostro sguardo e prendiamo in considerazione i disastri e i guai che i cristiani [quindi persone che diciamo uomini ‘redenti’] hanno combinato nel nostro secolo e nei secoli precedenti, non siamo più capaci di suddividere i popoli del mondo in popoli che vivono nella salvezza e in popoli che vivono nella mancanza di salvezza. Se siamo onesti, non dipingiamo più un quadro in bianco e nero, che divide la storia e la cartina geografica in zone della salvezza e in zone della perdizione. Tutta la storia e tutta l’umanità ci appaiono piuttosto come una massa grigia, in cui brillano in continuazione lampi di un bene mai del tutto sopprimibile, in cui gli uomini cercano in continuazione di migliorarsi, ma in cui si verificano anche in continuazione cadute in tutte le forme spaventose del male.
E così nel corso di tale riflessione vediamo che l’Avvento non è [come forse si poteva dire in tempi passati] una sacra rappresentazione della liturgia, nella quale questa ci fa, per così dire, ripercorrere ancora una volta le vie del passato e ci mostra ancora una volta in maniera plastica com’era una volta la situazione, affinché possiamo adesso gustare con tanta maggior gioia e felicità la salvezza odierna.
Forse dovremo piuttosto ammettere che l’Avvento non è soltanto un ricordo e una rappresentazione del passato, bensì anche un nostro presente e una nostra realtà: nel corso di queste settimane la chiesa non tiene una sacra rappresentazione, ma ci indica quel che costituisce la verità anche della nostra esistenza cristiana. Il senso del tempo dell’Avvento nell’anno liturgico è anche quello di risvegliare in noi questa coscienza. Esso ci deve spingere a prendere posizione di fronte a questi dati di fatto, ad ammettere la grande mancanza di redenzione che non aleggiava solo una volta e che forse non aleggia ancora soltanto da qualche parte sul mondo, ma che è una realtà pure tra di noi e in mezzo alla chiesa.
Mi sembra che qui siamo non di rado vittime di un certo pericolo: non vogliamo vedere queste cose; viviamo per così dire con le luci abbassate, perché temiamo che la nostra fede non sia in grado di sopportare la luce accecante della realtà. Perciò ci schermiamo nei suoi confronti e la espelliamo dalla coscienza, per non cadere.
Ma una fede, che riconosce solo una metà della realtà o non la riconosce affatto più, è in fondo già una forma di rifiuto della fede o perlomeno una forma molto profonda di pusillanimità, la quale teme che la fede non sia in grado di guardare in faccia la realtà. Essa non ha il coraggio di ammettere di essere la forza che vince il mondo. Credere veramente significa invece guardare senza timore e a viso aperto tutta la realtà, anche se tale tutto depone contro l’immagine che per qualche motivo ci siamo fatti della fede. L’esistenza cristiana comporta perciò anche che osiamo parlare, nel bel mezzo della tentazione della nostra oscurità, come l’uomo Giobbe con Dio. Comporta che non pensiamo di poter presentare a Dio soltanto la metà della nostra esistenza e di dovergli risparmiare il resto, perché forse lo potremmo così infastidire.
No, proprio davanti a lui possiamo e dobbiamo presentare molto sinceramente tutto il peso della nostra esistenza. Dimentichiamo un po’ troppo che nel libro di Giobbe, tramandatoci nella Sacra Scrittura, alla fine del dramma Dio dichiara giusto Giobbe, che gli aveva mosso le accuse più gravi, mentre disapprova i suoi amici come gente che parla in maniera sbagliata, quegli amici che avevano difeso Dio e che avevano trovato una qualche bella risposta e spiegazione a tutto.
Celebrare l’Avvento non significa altro che parlare con Dio come ha fatto Giobbe. Significa guardare francamente in faccia tutta la realtà e tutto il peso della nostra esistenza cristiana e presentarli davanti al volto giudicante e salvante di Dio, e ciò anche quando non abbiamo come Giobbe alcuna risposta da dare a essi, bensì non ci rimane altro che lasciare che sia Dio stesso a dare la risposta e dirgli come siamo senza risposte nella nostra oscurità.