Mettiamo a disposizione on-line due testi datati (hanno visto, infatti, la luce nell’autunno del 1990 ed il 2/12/1995) che d.Andrea Lonardo, allora vice-parroco della parrocchia di Santa Chiara in Roma, scrisse dopo 2 anni e dopo 7 anni di cammino della comunità giovanile di quella parrocchia. Possano offrire un piccolo contributo a fare memoria di quegli anni ed invitare semplicemente a riflettere oggi sulla realtà dei gruppi giovanili.
Il Centro culturale Gli scritti (6/6/2007)
Ho pensato quest'anno, dopo due anni di cammino comune a Santa Chiara, di scrivervi queste poche pagine per dirvi come giudico quello che stiamo facendo insieme, perché ne sono felice, cosa ritengo punto fermo irrinunciabile, cosa mi fa ancora problema. Ve le offro come un tentativo di essere sempre più chiaro, trasparente e come un aiuto perché ognuno possa confrontarsi col cammino di tutti.
Le riunioni sono state il nostro punto di partenza e credo siamo tutti convinti dell'importanza di
un cammino formativo. E' sicuramente cresciuto il desiderio di essere costanti nella partecipazione ad esse, per la
nostra crescita e perché la nostra presenza è dono, ricchezza, di cui non dobbiamo essere avari col
gruppo.
Premessa sempre più chiara di questo cammino è il rapporto che il vangelo istituisce fra l'umano e il
cristiano. L'uomo è creatura che deve tutto a Dio, è fatto da Dio. Da Dio è costitutivamente
fatto per amare. Tutto gli parla di questo, la sua sessualità, il suo desiderio di amicizia, di costruire il
mondo. Ogni passo fatto per volere più bene, per essere più trasparente in modo che gli altri possano
vedere cosa abbiamo nel cuore, per essere più sereni e aperti in un rapporto di coppia, per relativizzare la
centralità della propria persona, è realmente cammino che avvicina a Cristo (così come il non
toccare queste cose è vero ostacolo al cammino). Per questo l'uomo che impara ad amare, cresce in
serenità, smette di avercela col mondo e con tutti, sa porsi, umilmente al suo posto a servire.
Questo è realmente cammino. Ma non è la totalità di esso.
Quando l'uomo incontra Cristo scopre che Lui è il maestro. Non si può arrivare a Cristo partendo dalla
propria religiosità. Quante volte l’affermazione che si crede in Dio, convive con la paura di Dio oppure
con il fidarsi fino a che Dio non ci chiede qualcosa di più. Il Dio del vangelo, il nostro Dio, è il
Padre di cui noi, i figli, impariamo a fidarci, perché ci sappiamo amati.
Ma anche questo è cammino dell'uomo. Noi scopriamo che il bene, il vangelo, non sono optionals, che possono
esserci o meno (o addirittura che non sono vivibili o sono anti-umani). Noi scopriamo che siamo fatti, nella nostra
umanità, per essere come Cristo, il vero uomo. Per tutto questo il nostro confrontarci nelle riunioni vuole
essere un contributo per la nostra crescita di uomini e di cristiani.
E' il secondo punto. Il gruppo non come puro strumento transitorio, come mezzo, come luogo da cui
prendere sia idee, concetti, per la propria ricerca, sia affetti, amicizie per la nostra vita. Una concezione
siffatta del gruppo lascia ancora noi stessi saldamente al centro della nostra vita. Vedo, invece, in tanti veramente
una crescita nella comprensione che il gruppo (e le sue persone) sono una realtà da servire. E' l'occasione
d'oro che Dio ci dà per amare qualcosa e qualcuno che non siamo noi stessi e di farlo per anni, nella costanza
e nella fatica, e non solo per un momento. non scegliendoci le persone, ma accogliendo tutti coloro che, per quanto
diversi da noi, piccoli in età, o deboli siano, incontriamo sulla nostra strada.
Realmente i nostri gruppi sono la chiesa, certo non la totalità di essa, ma, lo stesso, la chiesa. Cercare Dio
e la sua volontà, vuol dire che tu sei disponibile ad amare quelle persone che, non per caso, Lui ti pone sul
tuo cammino. Non le persone che tu ti peschi, quelle che sono tue, il tuo ragazzo, la tua ragazza, i tuoi amici (e
tutto continuerebbe a girarti intorno), ma tutte, tutte quelle che il Signore, nel suo disegno, nella sua
bontà, ti ha posto al fianco.
In questa centralità dell'uomo, della persona e, quindi, dei rapporti umani (che é l'esperienza del
vangelo) crescere nella fede vuol dire imparare ad amare col cuore di Dio, ad avere tempo, spazio, attenzione per
ognuno, all'altro non per quel tanto di cristiano che già c’è in lui, ma all'altro in quanto
altro. E’ criterio per discernere se stiamo crescendo nella fede, il verificare se vogliamo più bene, se
amiamo di più il gruppo e le sue persone!
Abbiamo posto al centro della nostra comunità, dopo il primo Marymount[1], la celebrazione comune alla preghiera più importante,
la preghiera per eccellenza della chiesa: l'eucarestia. Crescere nella fede è, certamente, educarsi alla
liturgia e, come servizio, offrire alla comunità più ampia la testimonianza di questo. Vi ho proposto
di porre l’eucarestia al centro della domenica, non come l'impegno da mettere nell'ora libera, ma come il
momento più importante del giorno del Signore.
Con d.Gianni[2] e con il consiglio pastorale tante
volte è riaffiorato il problema di tanti che, come in un cinema, guardano all'altare o all’omelia come
le uniche realtà della messa, da "prendere" o da "ascoltare". I cristiani riconoscono nel gesto delle spezzare
il pane la presenza dei Signore, lo riconoscono risorto, e perciò vivo, vivente ed imparano da Lui a fare
questo, a dare la propria vita in memoria di Lui. E' il Signore che ci parla nella Parola che viene proclamata nella
liturgia, ci parla come il maestro, con quella parola che è per noi, non per altri, perché noi possiamo
imparare a vivere (ed è lì la prima fonte della nostra preghiera personale, come alcuni già
fanno, che è rileggere, meditare nella settimana la liturgia della parola domenicale, facendosi mettere in
questione da essa).
Con gioia vedo che qualcuno comincia a farsi carico, almeno col pensiero della liturgia di tutti. Domande come "Ma
perché continuano ad arrivare in ritardo? Come aiutare i piccoli e gli adulti a celebrare bene? Perché
il nostro canto è così fiacco? Possibile che tanti celebrino insieme la messa e poi non si fermino
neanche per salutarsi?" sono sempre più frequenti, e ne ringrazio il Signore.
Qualcuno dì voi si è già incamminato su questa strada, in un atteggiamento di
vera obbedienza a Dio, nella quotidianità, o nella verifica del suo servizio ecclesiale o prima dì
importanti scelte affettive o di lavoro. Io ve l'ho proposta come impegno per l'anno a venire (e per la vita!) alla
fine dei campi di questa estate. Più uno cresce nella fede e più la vive e la vivrà (anche un
prete). Ve la propongo non perché la facciate con me, ma perché nel rapporto con un prete o con un
laico maestro nella fede (ed è importante che sia la stessa persona per un periodo lungo di tempo) cerchiate
di essere veramente disponibili a capire la volontà del Signore, cerchiate la garanzia che non state facendo
la vostra volontà, il vostro capriccio, ma veramente la Sua volontà.
Abbiamo parlato insieme, quest'estate di come spesso ciò che "sentiamo" che ci viene "spontaneo", non è
né il nostro vero desiderio, né il disegno di Dio, ma il nostro bambino viziato, il nostro bisogno, la
nostra centralità che ci fa tenere ben strette in mano le redini della nostra vita. Aprirsi alla direzione
spirituale, con cuore libero, vuol dire invece riconoscere, nella carne della propria vita, che vogliamo che sia lo
Spirito a guidare la nostra vita e che sappiamo che lo Spirito è Spirito ecclesiale, che parla nella
chiesa.
Crescere nella fede, comprendendo la gratuità di Dio, è crescere nella
disponibilità a servire, è scoprire che si vive per servire, per "lavorare nella vigna del Signore",
perché l'uomo è fatto per donare e per donarsi. E’ il cammino della carità e della
povertà che il vangelo propone per tutta la vita ad ogni uomo, perché non ponga al centro il proprio
bisogno, la propria gratificazione, il proprio sentirsi utile, ma la presenza dell'altro, con le sue attese ed i suoi
desideri. E' solo quando si è fatto attenzione al più piccolo di età, al più timido, al
più povero, all'ultimo arrivato, che si è sicuri di aver fatto attenzione a tutti.
Credo che, su questo, tutti abbiamo molta strada da fare, cominciando proprio dalla quotidianità della nostra
vita, dai criteri con cui ci invitiamo alle feste, alle persone a cui prestiamo attenzione prima e dopo i momenti
comuni, ecc. ecc. Per educarci e questo spirito di servizio, la comunità si è strutturata, negli anni,
non solo in gruppi formativi, ma anche in gruppi di servizio.
La catechesi è vocazione al servizio importantissima e preziosa nella chiesa. Il cammino che stiamo facendo sta aiutando me ed i catechisti, animatori, capi scout a scoprire sempre più quanto la catechesi è rivolta non alla testa, ma alla globalità della educazione di una persona. Si educa il cuore, innanzitutto, si educa alla costruzione della chiesa (e non di una chiesa astratta, ma di quella comunità concreta che il Signore ci mette tra i piedi), si educa alla limpidezza di rapporti umani, si educa alla partecipazione attiva alla liturgia, ad usare della cultura per servire, ecc. Per questo ai catechisti è chiesto di essere sempre più animatori della comunità, di non curarsi solo della riunione, ma di creare e sostenere tutta la vita del gruppo. Credo di poter dire che catechista è, innanzitutto, chi ha un cuore largo, chi vuole bene a tutti, chi quanto più va avanti nel suo servizio, tanto più si lascia mettere in crisi sulla sua disponibilità a dare più spazio, più tempo, più attenzione alle persone, comprendendo che i loro veri bisogni sono per lui chiamate di Dio (ed é colui che sa che la sua prima parola è la testimonianza della sua vita, il suo buttarsi in tutte quelle cose che propone agli altri come cammino).
Da anni, ormai, esiste ed è cresciuto un legame col quartiere delle case popolari di viale delle Galline Bianche. Intorno alla difficile situazione di ragazzi di quel quartiere, con difficoltà ad arrivare alla licenza media inferiore, è sorto un dopo-scuola, animato dai giovani dei gruppi (e aumenta il numero dei ragazzi promossi agli esami). E’ una occasione di incontro con persone con situazioni familiari e sociali ben diverse da quelle del nostro quartiere. Per molti comincia a prolungarsi in veri rapporti di amicizia con alcuni dei ragazzi, non più limitati alle sole ore dei compiti fatti insieme, o, ancor più, stimolo ad interrogarsi sul proprio presente e futuro stile di vita.
Nato dalla conoscenza di una laica missionaria in quel paese, è un gruppo che cerca di sostenere la missione cattolica di Rugabano, raccogliendo fondi e medicinali da inviare lì e facendo nascere nella comunità parrocchiale una attenzione alle povertà dei paesi in via di sviluppo ed ai problemi della presenza cristiana in culture diverse dalla nostra. Quest’anno Elena e Maurizio, dopo il mese passato in visita alla missione, ci aiuteranno ad avere una presa di contatto più diretta con questi enormi problemi.
Periodicamente la nostra parrocchia si impegna ad essere presente con dei volontari per il servizio che la Caritas gestisce per immigrati e persone bisognose. E’ momento semplice, ma reale di servizio e di conoscenza della realtà della nostra Roma. Per qualcuno questo sta divenendo stile più continuo di vita nella scelta del volontariato, come disponibilità continuata a legarsi ad una comunità che accoglie ragazzi in situazioni difficili o come volontariato annuale, conseguente all’obiezione di coscienza.
Il centro culturale[3] è il gruppo di servizio che lavora per animare la comunità e il quartiere, sui temi della dimensione laicale della vita, dell’incontro col mondo, della cultura, dell’aspetto della ragionevolezza della fede e della sua conoscenza. La fede coinvolge tutto l’uomo, anche la sua intelligenza, la sua capacità di capire. Credo che da una comunità grande come la nostra debbano nascere tutte le vocazioni ecclesiali, debbano nascere vere figure laicali, nei campi della politica, dell’economia, della scienza, del diritto, ecc. ecc. Una nuova organizzazione del cineforum, delle settimane della mondialità e, forse, quest’anno, della biblioteca e di alcuni dibattiti, con l’aiuto delle compagnie teatrali, sono gli strumenti di questo servizio.
Animare e celebrare insieme la liturgia è testimonianza e servizio importantissimo che rendiamo a tutti coloro che partecipano alle nostre liturgie domenicali. Questo gruppo, esistente da un anno, vuole approfondire il senso ed i motivi della liturgia cristiana, per aiutarci a celebrarla sempre meglio. A loro dobbiamo, tutti, il lento, ma reale crescere dell’animazione del canto, segno di festa nella liturgia. Il consiglio pastorale, già da maggio, ha proposto che i momenti forti dell’anno liturgico siano animati, in collaborazione, dal coro e da questo gruppo (come per la veglia pasquale dell’anno scorso).
Credo sia innegabile il constatare che siamo cresciuti nella scoperta che è possibile, anzi
che è ricchezza, gioia (e verifica di un cammino) l’apertura agli altri, l’unità. Dal primo
Marymount a cui è seguito l’inizio dell’animazione della messa, al primo campo comune dei gruppi
universitari, dalla presenza del clan prima e del noviziato poi ai Marymount, alla presenza di tutti al torneo
dell’amicizia ed alla maratonina, dal campo comune di universitari e postuniversitari a
Gressoney[4] al campo comune dei gruppi liceali
(insieme anche ai gruppi delle medie) a Poppi, di strada ne abbiamo fatta, grazie alla fatica di tutti. Che
differenza rispetto a quando neanche conoscevamo i nomi di tutti, quando momenti importanti come
l’ordinazione sacerdotale di un giovane dei gruppi era festa per uno solo dei gruppi o l’accoglienza
dei nuovi gruppi cresime era problema di preti e catechisti, e non di tutta la comunità! Ritengo questa
unità della comunità veramente importante. In primo luogo è un’unità basata su
di un affetto ed un’amicizia sempre più sinceri (ritorniamo ai rapporti umani). In secondo luogo
è basata su di una condivisione crescente di alcuni punti fermi, nel cammino educativo (a partire dai quali
poi è possibile un vero pluralismo). In terzo luogo è il segno di una maturazione degli
atteggiamenti di accoglienza e di testimonianza, tipici di un cammino ecclesiale.
Iniziamo così un nuovo anno. Non ne sento né il peso, né la preoccupazione, ma la gioia di fare,
insieme, dei passi ulteriori nella nostra crescita. Vi auguro di esser sempre più disponibili a crescere.
E’ questa la meta che ci proponiamo: crescere, poter dire che stiamo amando di più, che ci fidiamo di
più, che teniamo meno per noi la vita, giocandola per Dio e per ogni uomo. Sarà questo “di
più”, “di meno” la verifica del nostro crescere.
d.Andrea Lonardo
Metto per iscritto ciò che penso dell’evoluzione della nostra comunità.
Considero questo testo come una bozza. Vorrei che lo leggeste tutti e che diceste se vi ci ritrovate. Desidero avere
le vostre correzioni perché arriviamo a riscriverlo insieme[5].
Penso potremmo arrivare ad un lavoro comunitario in cui insieme mettiamo per iscritto ciò che condividiamo e
mettendo nero su bianco lo chiariamo a noi stessi.
Oltre a servire da riferimento per noi, può servire a presentare ad altri il nostro cammino e la nostra
proposta.
1/ Chiariamo subito un possibile equivoco di termini.
Per comunità non intendiamo una forma di vita simile ad una comunità monastica.
Può darsi che qualcuno di noi abbia questo dono e questa vocazione. Anzi, ascoltandoci è evidente che
qualcuno si sente di essere chiamato dal Signore ad approfondire questa scelta di vita. Può darsi che in
futuro sorgano delle comunità di famiglie, con figli in affidamento oppure delle comunità di
servizio.
Avevamo cercato di farla con gli obiettori di coscienza un anno fa. L’idea era di fare servizio civile
insieme ad una esperienza di vita comune, affittando una casa in cui potessero vivere insieme per un anno gli
obiettori. Purtroppo la Caritas, dopo tante promesse, non ci ha aiutato e non se ne è fatto niente.
Esiste anche la comunità del Tetto, nata dagli scout di s.Chiara. L’anno scorso 6 famiglie ed un
single hanno acquistato un casale, per vivere insieme ed aiutarsi nell’accogliere ragazzi in affidamento,
insieme ai propri figli.
Forse ai futuri obiettori gioverebbe riprendere il progetto ed inoltre alcune persone potrebbero scegliere di
affittare un appartamento in comune.
Ma non è questo che intendiamo, per tutti noi, quando parliamo di comunità.
2/ In passato abbiamo usato il termine gruppo per indicare una fascia di età (gruppo dei
postuniversitari[6], del mercoledì, del
giovedì, del venerdì o del venerdì bis) e la parola comunità per indicare
l’insieme dei gruppi o meglio tutta la comunità parrocchiale.
Questo resta senz’altro vero, ma, in più, vorremmo aggiungere un altro significato, che si impone per la
nostra età e per una fede ormai più matura.
Il gruppo, che è una tipica, importantissima esperienza adolescenziale, si caratterizza per un forte
coinvolgimento delle persone in termini di tempo e di rapporti. L’appartenenza al gruppo è data dallo
stare, dall’esserci, dal condividere spazio e tempo. Lo abbiamo fatto. Ci è servito ad imparare ad amare
non solo i nostri amici, a non mollare quando le cose non vanno, ma anzi a metterci ancora più impegno e
creatività. E’ stata una grande occasione che Dio ci ha dato per non amare solo noi stessi e quelli che
sono simili a noi e con cui ci saremmo trovati comunque.
La nostra comunità, che nasce da questa esperienza di gruppo, si basa ora molto più sulla fiducia che
abbiamo scelto lo stesso Signore, che siamo impegnati nella stessa missione e che questo ci unisce ancor più
che la nostra amicizia.
Sappiamo di appartenere oramai gli uni agli altri e tutti alla chiesa, anche se le occasioni di vederci sono
più rare.
L’unità, insomma, non è più data dal rapporto orizzontale fra di noi, ma molto più
dal tendere tutti nella stessa direzione
Se anche ad una occasione di preghiera saremo in pochi, siamo però sicuri che gli altri, nelle loro case,
stanno portando avanti lo stesso la preghiera.
Se ad un incontro di servizio o ad un incontro culturale o ad una festa non potremo esserci tutti, non avremo
però dubbi che ognuno ha maturato la scelta di servire e ricorda con affetto gli altri.
In una comunità alcuni valori, alcune scelte sono oramai così radicate che ognuno li porta avanti da
solo.
A questo proposito vorrei dire, con affetto, ma anche con chiarezza, che mi sono sembrate affermazioni di
retroguardia, quando qualcuno ha detto che non sarebbe più venuto a gruppo.
Non è questo il problema. La domanda è, invece, se, dopo tanti anni di cammino, ti sbilanci al punto da
essere un cristiano adulto che ha un diverso rapporto con i suoi fratelli nella fede.
3/ Questo non vuol dire che non desideriamo più vederci o che non ne abbiamo bisogno. Sopratutto non
vuol dire che l’amicizia sia un problema secondario.
Stiamo, invece, cercando di individuare alcuni momenti che siano dei segni di unità, in una condizione oramai
diversa da quando eravamo più liberi.
E’ diverso non sentire più il desiderio di incontrarsi da non poterlo e volerlo più fare nelle
vecchie forme. Noi continuiamo a sentirne l’esigenza. Talvolta dolorosamente chi vive fuori Roma avverte ancor
più la mancanza dell’incontro con gli altri.
In una comunità ognuno conserva la gioia di condividere con gli altri quelle scelte che oramai lo
caratterizzano. Desidera partecipare delle cose belle degli altri come vuole che gli altri siano interessati alla
propria vita.
Come segni di unità abbiamo, per il momento, scelto di incontrarci 4 o 5 volte l’anno per un periodo
prolungato, cioè per un giorno intero oppure addirittura per l’intero week-end. Questo permette non solo
di avere un incontro programmato, ma anche di avere nell’arco della giornata il tempo per gli incontri
personali, per vivere più distesamente i rapporti. Questo permette, anche a chi vive lontano o a chi ha
già famiglia, di organizzarsi in modo da essere libero e poter incontrare tutti gli altri.
Per questo, anche, proponiamo ancora l’esperienza del campo estivo, ma vogliamo che sia più facilmente
raggiungibile da Roma, perché nessuno sia impedito dal parteciparvi.
L’altro segno di unità che abbiamo scelto di conservare è quello della
partecipazione comune all’eucarestia.
Dice una antica preghiera mozarabica: Signore Dio, noi dovremmo onorarti in ogni tempo e lodarti senza
interruzione, ma poiché la nostra debolezza ci impedisce di renderti sempre questo culto, concedici almeno di
celebrare con più cura la festa della Domenica
Con l’animazione della messa delle 20.00[7]
siamo riusciti, insieme, ad offrire a tutti un segno di cosa è la chiesa. Tante persone si sono accostate alla
fede, solo perché sono venute qualche volta a messa con noi.
Per alcuni di noi, che vivono fuori Roma, una delle cause di amarezza è il non aver trovato delle
comunità cristiane capaci di accoglierti e di farti sentire a casa tua, a messa, solo perché sei
cristiano o perché stai cercando Dio.
La messa è stata, in questi anni, il momento di incontro di tutti noi, ma, sopratutto, il momento in cui
scoprire che è Dio che ci dona di essere comunità. Tutti ci nutriamo dell’eucarestia e della
parola, tutti riscopriamo che è il Signore a chiamarci, tutti sappiamo che l’unità (anche quella
ecumenica, con le chiese separate da Roma) non dipende solo dall’andare l’uno incontro all’altro,
ma dall’andare tutti più vicino al Signore, come dei raggi che tanto più sono attratti da un
unico centro, tanto più sono vicini fra loro.
Mi è sempre più evidente che il modo di celebrare la domenica deciderà della qualità
della fede nostra e degli altri. I vescovi italiani hanno scritto un importante documento su questo tema e
così affermano in esso: “Se la domenica è detta giustamente giorno del Signore (dies
Domini), ciò non è innanzitutto perché essa è il giorno che l’uomo dedica al
culto del suo Signore, ma perché essa è il dono prezioso che Dio fa al suo popolo” (nota
pastorale della CEI, Il giorno del Signore, 2).
La domenica è il primo dei giorni, il giorno che ricorda la creazione.
E’ anche l’ottavo dei giorni, il primo giorno dopo il sabato, memoriale della resurrezione del
Signore.
Anche il dono dello Spirito Santo avvenne in questo giorno.
Per questo, noi cristiani non vogliamo che sia il fine settimana, il week-end, ma la celebrazione della novità
di Dio, che sempre inizia e che sempre porta a compimento.
Abbiamo ricevuto il comando di santificare le feste. Sappiamo che ciò non significa semplicemente
andare a messa.
Significa piuttosto vivere il giorno della festa come segno che il Signore è signore del tempo e che lo
libera, perché non sia un tempo dominato dalla fretta, dallo stress, dalla incomunicabilità. Per questo
la domenica è giorno di riposo, di festa, di preghiera, di incontro della famiglia e della
comunità.
Ha scritto un maestro ebreo: “Non è stato Israele a custodire il sabato, ma è stato il sabato a
custodire Israele”.
Il senso del riposo settimanale nel sabato e poi nella domenica è un dono dell’ebraismo e del
cristianesimo alla civiltà greco-romana che non lo conosceva.
Credo che questo diventerà ancora più vero man mano che cresciamo. Il tempo ci aiuterà a
scoprire come abbiamo bisogno della domenica (per un universitario, che non lavora, i giorni sono ancora tutti
uguali).
Tanti adulti, tanti colleghi, tante famiglie non hanno ancora chi li aiuti a capire che un certo modo di vivere la
messa e la domenica li aiuterebbe a vivere l’amicizia, la fede, la chiesa. E’ un dono che noi abbiamo
ricevuto anche per loro, per insegnarlo e per condividerlo con loro.
I week-end ed i ritiri che viviamo insieme sono anche un modo di celebrare la domenica.
Abbiamo specificato meglio i due tipi di riunione che possiamo avere. Da un lato possiamo avere
bisogno ancora di formazione. Occorre allora che qualcuno studi per spiegare ad altri ciò che ancora
non sanno. Io sono convinto che abbiamo ancora molto bisogno di nutrirci della conoscenza della Parola di Dio, di
saper comprendere meglio la nostra fede. Ne abbiamo anche bisogno per essere sempre “pronti a rendere ragione a
chiunque ci domandi conto della speranza che è in noi” (prima lettera di Pietro). Siamo in una Italia in
cui tutti si dicono cristiani ma molto pochi sanno veramente che cosa sia la fede cristiana.
Dall’altro lato desideriamo la condivisione dell’esperienza che stiamo vivendo. Desideriamo
raccontare ciò che facciamo, le cose belle come le cose faticose, i passi di fede compiuti come le scelte di
vita.
Una via di mezzo, che non sia né vera formazione né vera condivisione ci sembra ormai insufficiente.
Non vogliamo più una riunione in cui si parli tutti, senza che qualcuno abbia preparato qualcosa di nuovo o
abbia voglia di condividere ciò che è nuovo, per eccellenza, cioè la sua vita.
Da qui lo sdoppiarsi in incontri con due finalità.
1/ Le riunioni dei week-end in cui finora abbiamo raccontato gli uni gli altri le nostre esperienze di
servizio e di obiezione di coscienza, i nostri problemi sul lavoro, i nostri rapporti con le famiglie di origine,
alcune esperienze di coppie già sposate.
2/ Gli incontri di catechesi in cui ci ritroviamo per imparare. Per ora sono stati incentrati sulla conoscenza
della Bibbia e sullo studio dei documenti del magistero della chiesa cattolica. Questo secondo tipo di incontri
è, per ora, aperto a tutta la comunità parrocchiale e può divenire un occasione di unità
e di approfondimento dei rapporti con le altre fasce di età.
Entrambi potrebbero essere più sfruttati per invitare, per un primo incontro, chi desidera avvicinarsi alla
fede cristiana, pur sentendosi ancora lontano.
In questi anni le persone della comunità hanno dato vita a tanti gruppi di servizio e ne
hanno proseguito altri, che già esistevano.
Lo stile che li accomuna tutti è quello di rifiutare un modo paternalistico di vivere il servizio, dando
continuamente cose o tempo, senza creare amicizia.
In questo ci è stato maestro Jean Vanier, nella visita che ci ha fatto nel novembre 1993[8]: La comunione è molto diversa dalla
generosità; la generosità è fare delle cose buone, essere generosi, fare delle cose per le
persone, ma senza avere mai il tempo di ricevere dagli altri...amare non è necessariamente fare delle cose per
gli altri e allo stesso tempo schiacciarli e fargli capire che non sono in grado di fare niente. Amare l’altro
è dargli fiducia, aiutare l’altro a scoprire la sua bellezza, aiutarlo a scoprire il suo valore,
rivelare all’altro che è prezioso e importante.
Così il gruppo missionario vuole proseguire l’amicizia con Jean-Paul ed Adalberto[9], continuare i legami che sono stati creati da Maurizio ed Elena
e da Gemma in Rwanda, i legami nati dai campi di lavoro in Albania. L’invio di aiuti economici è oramai
legato a questa importante comunione di chiese che si sentono sorelle.
Le persone del dopo-scuola di Prima Porta stanno cercando di non limitarsi ad aiutare i ragazzi singolarmente,
ma anche di aiutarli a divenire un gruppo, che si riunisca stabilmente a s.Crispino, in accordo con i sacerdoti di
quella comunità. Un primo passo in questa direzione è stato fatto organizzando una gita di due giorni
con i ragazzi, fuori Roma.
Anche il gruppo Eta Beta[10] ha scelto la via
di un gruppo di amici che si ritrovino, innanzitutto, a partire dallo star bene insieme. La centralità della
festa mensile privilegia la creazione di un momento in cui tutti, animatori del gruppo e ragazzi portatori di
handicap, possano vivere su di un piano di parità e di valorizzazione delle proprie potenzialità.
Anche l’inserimento sempre più naturale dei ragazzi nell’amicizia della comunità giovanile
e nella partecipazione alla messa diviene un momento importante dell’integrazione a pieno titolo ed abitua ogni
persona che non fa parte del gruppo ad accogliere la presenza ed il ruolo delle persone portatrici di handicap.
Chi insegna italiano al gruppo Tra Noi[11]
sta cercando di creare contatti più duraturi che permettano un maggiore inserimento degli extra-comunitari nel
tessuto della nostra parrocchia.
I catechisti e gli animatori sono sempre più coscienti dell’importanza di educare non solo
tramite la parola, ma anche attraverso la testimonianza della vita ed il segno dell’amore per la costruzione
della comunità in cui i ragazzi hanno il dono di potersi inserire.
Anche il Centro Culturale Due Pini vuole sempre più essere espressione e stimolo di una comunità
che sia sempre meno ripiegata su se stessa e sempre più preoccupata e appassionata del dialogo con ogni uomo,
sempre più rivolta a creare cultura, a portare un contributo perché ogni uomo si senta pienamente
cittadino responsabile del suo Paese.
L’esperienza dilagante degli obiettori di coscienza è un altro elemento che ha caratterizzato
questi anni, da quando, in un lontano Gressoney, per la prima volta facemmo un dibattito su obiezione, servizio
civile e servizio militare. E’ stato un fattore importantissimo di apertura alle realtà più
disagiate della nostra città. A volte è stata anche l’amara scoperta della non
affidabilità di servizi sbandierati invece pubblicamente. Crediamo ancora che un’esperienza di vita
comune, unita al servizio, nell’anno di obiezione, sia da proporre, per la ricchezza formativa che
aprirebbe.
L’esperienza del servizio è legata al carisma, al dono individuale che ciascuno ha. Per questo abbiamo
preferito non chiedere ad un gruppo formativo di impegnarsi tutto nello stesso servizio. Abbiamo preferito in questi
anni un cammino in cui la formazione avvenisse per gruppi di età, mentre le stesse persone si dividessero nel
servizio a seconda dei desideri e delle capacità.
Questo ci ha educato ad intravedere ormai la vita come un servire, a cercare, nei mille ambiti in cui viviamo, di
realizzare personalmente, anche senza la presenza degli altri, questa scelta.
E’ il grande tema che avremo da approfondire negli anni a venire. La maggior parte delle
persone della comunità sente di avere una vocazione laicale, sente che il Signore la chiama a vivere come
cristiani nei luoghi di studio e di lavoro del nostro Paese.
1/ Il papa ci ha ricordato che la chiesa di Roma deve ritrovare se stessa fuori di se stessa. La
chiesa esiste per evangelizzare, è la sua vocazione e la sua grazia. Sentiamo tutti più forte in noi il
desiderio che altri possano essere aiutati a divenire cristiani, per averci incontrato.
Sappiamo molto chiaramente che molti non sono cristiani non per averlo rifiutato, ma perché il modo in cui
hanno visto parlare della fede o più ancora viverla era assai banale. Sappiamo anche che, in Italia, è
sempre più alto il numero delle persone che mai hanno incontrato persone o comunità significativamente
cristiane.
Questo rende anche più liberi. Ci fa scoprire di essere possessori di un bene nuovo, di un vangelo non
conosciuto, di qualcosa che saremo i primi a portare in alcune situazioni.
Sappiamo anche che la grazia di Dio viene prima di noi, che Dio opera meraviglie anche in chi ancora non ha la fede.
Sappiamo che molto abbiamo da imparare nel dialogo con gli altri, perché la verità non la abbiamo in
tasca, ma è sempre più grande di noi.
Nonostante questo non dobbiamo nasconderci che il dono della fede è stato fatto a noi ed in essa
c’è salvezza, c’è pienezza di vita. Condividerla vuol dire permettere ad altre vite di
fiorire, di scoprire la figliolanza del Padre, di aprirsi ad un amore più grande.
La nuova forma di rapporti comunitari che abbiamo scelto continua a permetterci di accogliere persone che cerchino la
fede. Infatti sappiamo, per esperienza nostra e per l’insegnamento perenne di Dio, che non si diventa cristiani
in pienezza se non partecipando alla comunione ecclesiale.
Un collega di lavoro ci chiederà della nostra fede, ma, ad un certo punto, ci domanderà dove e con chi
poter fare un cammino di fede, dove e con chi celebrare l’eucarestia, dove e con chi approfondire il desiderio
ed i motivi della fede. Anche per questo è un dono poter continuare ad incontrarci. Chi vive, per ragioni di
lavoro, fuori Roma si è reso ben conto di cosa cambi per sé e per gli altri l’essere o il non
essere legati ad una comunità di fratelli. Stanno cercando di inserirsi in chiese locali per trovare nuove
forme di vita comunitaria fuori Roma.
2/ Sentiamo sempre più anche di esser chiamati ad una presenza competente e significativa nelle
realtà pubbliche del lavoro e della cultura.
Mentre parliamo molto del tema della coppia, abbiamo ancora difficoltà a parlare di quale contributo possiamo
dare nei campi lavorativi in cui diveniamo sempre più competenti per studio e per esperienza.
Siamo in tanti ad essere avvocati o bancari, futuri insegnanti o medici, studiosi di scienze o ingegneri delle varie
branche, colf o giornalisti.
Non sono in tanti a Roma ad avere la fortuna di così tante conoscenze. In alcuni ambiti lavorativi è
impossibile fare qualcosa da soli, ma è diverso se alcune persone, insieme, cercano di appoggiarsi
nell’organizzare iniziative. Ci sono molti più uomini di buona volontà di quello che ci
vorrebbero far credere. Come creare amicizia e legami, come invitare persone nelle proprie case o permettergli di
entrare in contatto con le nostre relazioni comunitarie?
Ricordiamo che Aquila e Priscilla, una coppia di cui ci parlano gli Atti degli Apostoli e s.Paolo, accoglievano la
comunità, per l’eucarestia nella loro casa, ed, in essa, spiegavano ai non cristiani la fede.
Come arrivare ad un dialogo più stretto fra credenti e fra credenti e non credenti sui temi della competenza,
della giustizia, della burocrazia?
Come accogliere suggerimenti o darli in tutti quegli ambiti che non toccano direttamente la fede, ma la vita in cui
tutti viviamo? Noi siamo mondo ed in questo mondo vogliamo vivere, finché il Signore non ci
chiamerà!
Le richieste di avere momenti di preghiera più prolungati sono anch’esse un segno. Se
all’inizio poteva sembrare un problema lontano, ora sappiamo di più che è una grazia
l’essere uomini di preghiera.
Sappiamo che la civiltà occidentale cerca di occupare tutto il tempo lavorativo dell’uomo e di
organizzare il più possibile il residuo tempo libero rimasto.
La sensazione della fretta ci accompagna.
Dare il primato alla preghiera è una scelta semplice, ma decisiva.
Non sarà più la presenza degli altri di s.Chiara a farci vivere questo.
Nelle forme più diverse (dalla preghiera solitaria del mattino e della sera, all’unirci alla preghiera
della chiesa intera nella liturgia delle ore, dalla lettura della Bibbia alla benedizione del cibo, dalla preghiera
fatta insieme da chi è sposato all’invocazione dello Spirito prima di fare una riunione o di prendere
una decisione) vogliamo che la nostra vita sia alla presenza di Dio.
Nel gruppo di adolescenti si fa un ritiro perché i responsabili lo organizzano. In una comunità, anche
se sarebbe bello trovarsi ancora insieme per fare questo, spesso lo si può organizzare a seconda delle
esigenze.
La nostra comunità vuole ricordare a tutti che è salutare andare un giorno in ritiro in Avvento e in
Quaresima, in tutte le età della vita. Vuole anche suggerire ad ogni persona adulta l’esperienza di
alcuni giorni di esercizi spirituali da trascorrere nella preghiera, una volta all’anno.
Vuole, insomma, annunciare che più una persona cresce, più è capace di preghiera e di rapporto
con Dio. Più una persona cresce e più è capace di amare. Vogliamo sfatare il mito che le cose
belle sono solo per gli adolescenti e, finita l’epoca delle illusioni, comincia poi la “vita
vera”.
Chi già c’era, ricorda che avevo scritto nell’autunno del 1990 un testo analogo
a questo. Ve lo fotocopio in appendice perché non era fatto poi tanto male e perché può mostrare
il cammino fatto insieme da allora.
Ho fotocopiato anche un articolo di Franco Garelli, professore di sociologia
a Torino, apparso su Note di pastorale giovanile (è l’articolo
già messo a disposizione su questo stesso sito dal titolo Le
diverse forme dell’associazionismo ecclesiale: gruppi di appartenenza
e gruppi di riferimento. A me piace molto e può essere un utilissimo
schema per capire meglio ciò che stiamo vivendo.
Roma, 02/12/95
don Andrea Lonardo
[1] (N.d.R.) Erano allora così chiamati gli incontri annuali che vedevano riuniti per una domenica di maggio tutti i gruppi giovanili della parrocchia, sui pratoni della scuola del Marymount).
[2] (N.d.R.) D.Gianni Todescato, allora parroco di Santa Chiara.
[3] (N.d.R.) Centro culturale Due Pini era il nome che aveva appena assunto il gruppo di servizio dei giovani che avevano scelto l’impegno di animare le attività culturali dell’Auditorium Due Pini della stessa parrocchia.
[4] (N.d.R.) Gressoney St.Jean è la località della Val d’Aosta dove si fece il primo campo comune dei diversi gruppi degli universitari e dei postuniversitari.
[5] (N.d.R.) Questo testo rivisto non fu mai scritto, perché nella primavera d.Andrea ricevette la notizia del nuovo incarico di parroco della parrocchia di Santa Melania.
[6] (N.d.R.) La scelta di quegli anni fu sempre quella di rifiutare un nome ai gruppi, che li avrebbe caratterizzati solamente per coloro che vi fossero appartenuti in senso stretto. Indicare solo la fascia di età (es.postuniversitari), oppure il giorno delle riunioni formative (suddivisione che era comunque anche questa per età, mercoledì gli universitari degli ultimi anni, giovedì gli universitari dei primi anni, venerdì i giovani delle superiori e venerdì bis quelli appena cresimati) voleva indicare che per una persona nuova che avesse voluto aggiungersi al cammino di fede sarebbe stato sufficiente avere quella fascia di età e nessun altro requisito.
[7] (N.d.R.) La messa domenicale delle ore 20.00, che era divenuta pian piano l’eucarestia animata dai giovani della parrocchia ed un punto di riferimento per tanti giovani anche dei quartieri vicini.
[8] (N.d.R.) La riflessione che Jean Vanier tenne in quell’occasione nella parrocchia di Santa Chiara è disponibile integralmente su questo sito con il titolo Un mondo di tenebre ed un pozzo di tenerezza dentro di noi
[9] (N.d.R.) Due sacerdoti del Congo, che divennero amici del gruppo in quegli anni.
[10] (N.d.R.) Il gruppo degli amici di giovani portatori di handicap che nacque dopo l’esperienza della morte di Mara, una giovane ragazza che era divenuta disabile in seguito ad una malattia.
[11] (N.d.R.) Il movimento Tra Noi si preoccupava dell’accoglienza degli stranieri in parrocchia ed alcuni giovani dei gruppi collaboravano nell’accoglienza e nell’insegnamento dell’italiano a chi ne faceva richiesta.