Ripresentiamo on-line il testo della meditazione tenuta da Jean Vanier nella parrocchia di Santa Chiara in Roma nel 1993, con l’introduzione che l’accompagnava nel testo dattiloscritto che era stato allora curato dopo quell’incontro.
Il Centro culturale Gli scritti (16.3.2007)
Non conosciamo nessun altro che come Jean Vanier sappia intuire come l’esperienza della
debolezza sia rivelativa dell’identità personale.
Da ufficiale di marina aveva imparato che è dall’efficienza che si valuta la statura di un uomo. Ma
che dire di chi non è e non sarà mai in alto in una gerarchia? Che dire, perciò, della
maggioranza degli esseri umani? E’ giusto coltivare in loro sogni che non potranno mai realizzare, anzi contro
cui si spezzeranno le loro vite, sbarrate da altre vite più svelte, più scaltre, ma sempre
terribilmente poche?
Divenuto professore di filosofia aveva incontrato la tesi che l’intelligenza è la realtà
caratterizzante l’uomo. Più c’è intelligenza, più c’è ragione,
più incontriamo l’uomo. La persona si differenzia dall’animale per la sua capacità di
capire. Ma persone la cui ragione è cosi’ debole, come Raphaël, Philippe, Armandino, e poi
Fabrizio, Marina, Filippo, Giovanni, Attilio e tutti gli altri, non sono allora uomini?
Nella relazione con la persona con handicap Jean Vanier ha compreso che è altrove ciò che rende
l’uomo inconfondibile. L’uomo è innanzitutto relazione, desiderio di riuscire ad amare e di
ricevere amore. La sua domanda più originale è: “Mi ami tu?”.
La beatitudine di cui può essere testimone la persona portatrice di handicap è questa. Le interessa
solo questo, solo l’essenziale, solo la relazione.
Ci ha segnato questa rivelazione in cui ognuno di noi riscopre di essere, dietro le proprie difese,
anch’egli, innanzitutto, questa semplicissima domanda in cerca di una risposta: “Mi ami
tu?”.
Ricordarsi di una persona è uno dei tanti modi di vivere la riconoscenza per averla incontrata. E’
anche un tentativo di raccontare ad altri il motivo di questa gratitudine.
Ognuno di noi deve molto, quasi tutto, ai testimoni che ha avuto la fortuna di conoscere. E’ stato segnato,
nel bene, ma anche nel male, da tanti incontri avvenuti o mancati.
L’incontro con Jean Vanier, prima tramite i suoi libri, poi tramite le persone di Fede e Luce e
dell’Arca, poi con lui stesso, ha segnato anche la nostra comunità.
Nello stampare questo testo vogliamo ringraziare in particolare Ilaria Bompiani, Stefano Donà, Chiara
Fasanelli ed Erika Martino che hanno avuto la pazienza di curare la trascrizione della meditazione pronunciata da
Jean Vanier a Roma, nel 1993, nella parrocchia di Santa Chiara.
Il testo, trascritto dal francese, dalla viva voce dell’Autore, non è stato da lui rivisto. I titoli
sono nostri.
d. Andrea Lonardo e la comunità giovanile della parrocchia di S.Chiara
Buona sera. Scusatemi, ma non parlo italiano. Per fortuna c'è Emanuela che può
tradurmi; la sua forza è la mia debolezza, perché io ho bisogno di lei per comunicare con voi. Forse
anche lei ha bisogno di me. Abbiamo bisogno l'uno dell'altra. Questa è la comunità. Allora vorrei che
questa sera vivessimo un po' come una comunità, insieme.
Da trent'anni io vivo con uomini e donne molto deboli, uomini e donne che hanno degli handicap a volte molto
profondi, e ogni giorno scopro una verità: abbiamo bisogno gli uni degli altri. Capirete facilmente che il
debole ha bisogno del forte. Nella nostra comunità c'è Marie Joe che non può mangiare da sola,
non può camminare, non può lavarsi, non può vestirsi, ha bisogno di Jean.
Forse quello che farete più fatica a comprendere è che anche il forte ha bisogno del debole. E' proprio
di questo che vorrei parlarvi, del fatto che noi abbiamo bisogno di chi è piccolo, abbiano bisogno di colui
che è vulnerabile. Forse abbiamo bisogno del povero per scoprire la nostra povertà. Abbiamo bisogno di
lui per poter riuscire a non vivere come un'élite, come gente che si crede migliore degli altri.
Sapete che Gesù è venuto a portare il Vangelo, la Buona Novella, ma noi viviamo in
un mondo dove ci sono molte cattive notizie, voi lo sapete. Lo sappiamo tutti. Siamo in un mondo che si sta
frantumando. Viviamo in un mondo molto spezzato. Ci sono dei luoghi di questo mondo che sono come gli ascessi. La
Bosnia è uno di questi luoghi. Ho avuto il privilegio, quindici giorni fa, di essere a Zagabria, per aiutare
la nascita di FEDE E LUCE e spero fra un mese di essere a Belgrado, con il popolo serbo, per incontrare
dei papà e delle mamme che hanno avuto bambini con handicap. Per molti anni abbiamo avuto una comunità
a Betania nei territori palestinesi occupati. Il nostro mondo è un mondo molto spezzato.
Per questo Gesù è venuto a portare la Buona Novella. Per annunciare questo, Gesù nella sinagoga
a Nazareth prese il libro di Isaia e disse: "Lo spirito del Signore è su di me, mi ha consacrato per
annunciare la Buona Novella ai poveri, la libertà ai prigionieri, la vista ai ciechi, la liberazione agli
oppressi e annunciare un anno di grazia". E' importante scoprire che cosa è questa buona novella in un mondo
in cui ci sono tante cattive notizie. Forse bisogna essere poveri per accoglierla. Forse solo vivendo con uomini e
donne molto impoveriti ho scoperto che cosa è la Buona Novella. Forse perché vivendo con dei poveri
scopriamo la nostra propria povertà. Vivendo con persone ferite scopriamo le nostre ferite. E forse
accogliendo la ferita degli altri impariamo ad accogliere la nostra ferita.
Ero ufficiale di marina, era il mio lavoro. La mia ultima nave era una portaerei; amavo il mare e amavo la marina, ma
non amavo la guerra. Amavo questa vita molto intensa. Ci sono state due cose che mi hanno colpito durante la guerra:
la prima l'essere stato a Parigi poco tempo dopo la sua liberazione ed accogliere uomini e donne che uscivano dai
campi di concentramento di Auschwitz, di Dachau, di Buchenwald, di Ravensbruck. Questi uomini e queste donne che
arrivavano con i volti scheletrici, nelle loro divise a righe bianche e blu. Ecco quello che un essere umano
può fare ad un altro!
L'altro avvenimento risale al 6 Agosto '45, quando la prima bomba atomica è caduta su Hiroshima e dopo
quattro, cinque giorni su Nagasaky.
Non molto tempo fa ero in Polonia e sono stato nel campo 2 di Auschwitz con un gruppo di giovani. Sapete che
lì ci sono tre campi di concentramento: Auschwitz 1, Auschwitz 2 e Auschwitz 3. Ad Auschwitz 2 sono state
uccise numerose centinaia di migliaia di ebrei nelle camere a gas, bruciati poi nei forni crematori. Con quei giovani
abbiamo camminato attraverso questo campo, chiedendo a Gesù di togliere dal nostro cuore tutta la
capacità di fare male ai deboli. Perché siamo tutti capaci di fare male ai deboli, sia perché
rifiutiamo di ascoltarli perché siamo troppo presi dai nostri affari, sia perché apertamente facciamo
loro del male.
Gesù mi ha chiamato a seguirlo e ho lasciato la marina; ho avuto il privilegio di essere
accolto da un padre domenicano che è diventato il mio padre spirituale e intellettuale. Ho studiato, ho
cominciato ad insegnare filosofia in Canada . Nel '63 questo stesso prete era cappellano in un centro per persone che
avevano un handicap mentale. Era stato professore di teologia e filosofia e, vivendo con uomini e donne che avevano
un handicap mentale, ha scoperto il segreto del Vangelo.
Questo segreto è rivelato nella prima lettera ai Corinzi, dove san Paolo dice che Dio ha scelto ciò che
è folle nel mondo per confondere i saggi, ha scelto ciò che è debole per confondere i forti, ha
scelto ciò che è più basso e più disprezzato. Non trovate che sia sconcertante questa
scelta di Dio? La scelta di quelli che sono considerati dei pazzi, dei deboli, la gente disprezzata!
Questo prete aveva un po' toccato con mano questa verità , con questi uomini e donne che avevano molto
sofferto. Nel loro cuore c'era una specie di semplicità. Ha voluto che io incontrassi i suoi nuovi amici.
Allora sono andato. Ero un po’ imbarazzato davanti a questi uomini e queste donne; non sapevo comunicare bene
con persone che non parlavano. Anche se parlavano, di che cosa potevamo parlare? Ero colpito da questi volti deformi,
ma ero toccato da una cosa: ognuno con un gesto, con uno sguardo, con una parola, mi poneva una domanda molto
fondamentale: "Mi ami?".
E' una domanda molto fondamentale. I miei studenti in filosofia non mi ponevano questa domanda. Gli studenti mi
chiedevano piuttosto quello che c'era nella mia testa, per poi lasciarmi e continuare la loro vita. Questi uomini
invece ponevano questa domanda: "Mi ami?". Ed è la stessa domanda che Gesù ci pone; la domanda che ha
posto a Pietro, dopo la Risurrezione: "Simone, mi ami tu?". Ed è la stessa domanda che pone ad ognuno di noi:
“Mi ami veramente?”.
Queste persone mi hanno posto anche un' altra domanda, più complessa, a cui è difficile dare una
risposta. Non la ponevano con delle parole, ma attraverso gli occhi, il loro corpo: “Perché?
Perché sono così come sono, perché i miei genitori mi hanno messo qui, perché non posso
vivere con mamma e papà , perché non posso essere come mio fratello e mia sorella, perché non
posso sposarmi, perché cado a terra con le crisi epilettiche, perché?".
Non hanno chiesto di nascere, ancora meno hanno chiesto di avere una malattia. E’ una domanda complessa. Noi
certo possiamo riflettere sul perché della sofferenza nel mondo, ma questa domanda non era una domanda teorica
per questi uomini, era una domanda molto esistenziale. "Perché sono così , perché sono stato
abbandonato?". Ed è la stessa domanda di Gesù, quando dice: "Dio mio, Dio mio, perché mi hai
abbandonato?". Dobbiamo cercare di non spiritualizzare troppo questa domanda di Gesù: è il grido della
sofferenza ed è il grido della sofferenza umana.
A quell'epoca ho cominciato a visitare degli ospedali psichiatrici, degli istituti, ed in una di
queste istituzioni dolorose ho incontrato due uomini, Raphael e Philippe. Raphael ed io abbiamo la stessa età
ma il viaggio della nostra vita è stato molto diverso. Quando aveva tre anni lui ha avuto la meningite,
così ha perso la parola, cammina con difficoltà. Quando la mamma e il papà sono morti è
stato messo in questa istituzione, senza chiedergli che cosa ne pensasse. Cosi’ ho condotto entrambi, Raphael e
Philippe, in una piccola casa un po' diroccata che avevo comprato.
All'inizio non c'erano servizi igienici, non c'era riscaldamento e non c'era nemmeno la luce. Le leggi sociali erano
un po' diverse a quell'epoca e così abbiamo cominciato a vivere insieme. Io cucinavo e mangiavamo molto male.
Come tutta la gente, passavamo la metà del nostro tempo a sporcare e l' altra metà a pulire.
Facevamo tutto insieme e, come sapete, quando due o tre persone stanno insieme cominciano a litigare. Poi abbiamo
iniziato a perdonare, a perdonarci gli uni gli altri. Così poco a poco, ho scoperto un piccolo comandamento di
Gesù che a prima vista sembra sconcertante. Gesù dice: "Quando date una cena, non invitate i membri
della vostra famiglia, non i vostri ricchi vicini, non i vostri amici, perché rischiate di fare questo
soltanto per essere invitati a vostra volta. Quando date un banchetto invitate i poveri, i ciechi, gli storpi, le
persone che hanno un handicap, così sarete felici, sarete molto felici".
Non trovate questo stupefacente? Se voi mangiaste con i poveri, entrereste nella beatitudine; una delle beatitudini.
E sapete cosa vuol dire: "Beati i poveri di spirito"? E' molto semplice: vuol dire che Dio si avvicina a te; Dio
sarebbe con te. Se tu mangi alla tavola con i poveri, Dio sarà con te. E così ho cominciato a scoprire
che questo era uno dei testi fondamentali dell’ARCA.
Vivendo con Raphael e Philippe, progressivamente ho scoperto la profondità della sofferenza e della loro
sofferenza, la profondità del loro cuore ferito. Sapete non è facile sentire per tutta la vita che sei
una delusione per i tuoi genitori; non è facile per un genitore portare il lutto del sogno che aveva per il
figlio. Tutte queste domande delle persone che hanno un handicap toccano delle immense sofferenze umane.
Ho incontrato anche dei papà e delle mamme con un cuore profondamente ferito; anche loro ponevano queste
domande: "Perché? Perché ci è successo questo?". E' la stessa domanda che i discepoli ponevano a
Gesù. Quando hanno visto quell'uomo nato cieco, hanno detto a Gesù: "Perché? E' a causa dei suoi
peccati o dei peccati dei suoi genitori? Chi è il colpevole?". E Gesù ha rifiutato con forza questa
prospettiva: "Non è questione di peccato, ma è perché l' opera di Dio possa realizzarsi".
Sapete che cosa è l'opera di Dio? Non soltanto che quest'uomo sia guarito. Voi sapete bene cosa è
l'opera di Dio. L'opera di Dio è dare la pace, l'opera di Dio è riunire nell'unità, l'opera di
Dio è l'amore, l'opera di Dio è riunire persone molto diverse nell'unità.
L'opera dell’anti-Dio è quella di separare, di dividere. E' mettere delle persone, da sole, nel mondo
dell'angoscia, risvegliare l'odio, creare la guerra; l'opera di Dio è quella di riunire delle persone insieme
in comunità perché così possano amarsi. Questo è tutto il Vangelo: "Come il Padre ha
amato me, così ho amato voi. Rimanete nel mio amore. Il mio comandamento è che vi amiate gli uni gli
altri, come io vi ho amato". Questa è l'opera di Dio.
Così ho cominciato a scoprire le profondità della sofferenza nel cuore delle mamme e dei papà e
dei loro figli e delle loro figlie. La comunità dell'ARCA e FEDE E LUCE si fondano sulla
sofferenza. Se l'ARCA esiste, se FEDE E LUCE esiste è perché ci sono molti papà e
molte mamme che si sono sentiti soli ed è perché ci sono molte persone con handicap mentale che si
sentono sole in un mondo d'angoscia.
Poi, ben presto, ho scoperto che Raphael e Philippe non volevano assolutamente vivere con un
ufficiale di marina che credeva di poter comandare tutti quanti. Non avevano nemmeno voglia di vivere con un ex
professore di filosofia che credeva di saper qualcosa. Ciò che volevano era vivere con degli amici, come
ognuno di noi.
Vogliamo vivere con degli amici. E sapete cosa è un amico? L'amico è colui che mi accoglie così
come sono e non mi giudica e non mi condanna quando vede i miei limiti, la mia vulnerabilità , la mia
fragilità , il mio handicap. E' molto semplice l'amicizia: amare l'altro così com'è' , con tutto
ciò che è brutto e che è bello in lui.
Amicizia è anche vedere il potenziale dell'altro. E' vedere i suoi doni, le sue capacità di crescita,
aiutare l'altro a sbocciare. L'amico è colui che è felice di vivere col suo amico.
Ben presto ho scoperto che la pedagogia essenziale dell'ARCA è quella di essere felici. Accogliere le
persone che hanno sofferto e dire loro attraverso gli occhi, i gesti, la parola: "Sono contento che tu esista".
Perché questa è la Buona Novella: "Sono felice che tu esista".
Progressivamente ho scoperto anche una visione di Gesù per il nostro mondo; ho scoperto che Raphael e Philippe
mi chiedevano semplicemente di diventare loro amico, ma per questo occorreva che io cambiassi. Sapete sono un figlio
della mia cultura e nella mia cultura bisognava essere il primo della classe. A scuola bisognava lottare nello sport,
in classe lottare per essere sempre primi, bisognava sempre vincere i premi. Nella marina mi hanno insegnato a salire
di grado, sempre salire, per avere più privilegi, più potere. Era nel mio sangue, nel mio spirito.
Viviamo in una società competitiva. In questa società c’è qualcuno che vince, che si sente
in alto e poi una massa di persone che perdono, che hanno fame, che non hanno lavoro, che sono ferite, che sono
emarginate, sia che siano gli emarginati della nostra società , sia che siano quelli del mondo intero. Ci sono
gli emarginati nei paesi del nord che hanno molte ricchezze, come nei paesi del sud che sono nella povertà. Ma
questa è la realtà di un mondo competitivo.
Progressivamente ho scoperto che Gesù voleva un' altra cosa: non voleva creare un mondo competitivo, come in
una gerarchia piramidale. Voleva creare un corpo. Sapete, è molto bella la visione di Gesù riguardo al
nostro mondo. San Paolo lo dice ancora una volta nella prima lettera ai Corinzi, dove descrive la chiesa come un
corpo, dove ogni persona è differente dall'altra. Paolo dice: "Come nel corpo l'occhio è diverso dal
dito, l'occhio e il dito sono diversi dal piede. L'occhio non può dire: sono meglio di te. L'orecchio non
può' dire: sono meglio del naso. Il naso non può dire: sono meglio dei piedi”. No!
Paolo dice che abbiamo bisogno gli uni degli altri. Ognuno è radicalmente diverso, ognuno unico, ognuno ha
bisogno dell'altro. Non ci sono migliori o peggiori, siamo parti di un corpo e ognuno è chiamato a far parte
di questo corpo.
E Paolo aggiunge: "Quelle parti del corpo che sono le più deboli, le meno presentabili, quelle parti del corpo
che nascondiamo, sono necessarie al corpo e devono essere onorate". Questa è la visione di Gesù: una
società in cui il forte ed il debole hanno bisogno gli uni degli altri. C'è un teologo tedesco che dice
questo: "Una comunità senza nessuna persona handicappata è una comunità handicappata
perché hanno separato dalla comunità una parte del corpo". Tutta la visione di Gesù è che
ogni persona è importante, ognuno ha un dono, ognuno ha qualcosa da portare all'insieme, ognuno ha la sua
bellezza, ognuno ha il suo valore. Questa è la visione di Gesù.
Progressivamente ho cominciato a capire questa visione comunitaria di Gesù: creare un luogo
dove le persone che non hanno voce possono essere ascoltate e scoprire nella loro fragilità , nella loro
debolezza, la parola che sgorga da loro. Ieri sera ho passato la notte al CHICCO. Il CHICCO è
una piccola comunità dell'ARCA a Ciampino. Ho avuto la gioia di ritrovare Armando.
Armando è molto piccolo, estremamente fragile, ha un corpo molto piccolo, non può parlare, non
può mangiare da solo e da due anni non può mangiare con la bocca. Ha una sonda che conduce il
nutrimento direttamente nello stomaco. Sono sempre emozionato, quando vedo Armando. Ha uno sguardo di una tale
bellezza. Quando gli andiamo vicino e gli si dice: "Armando!", i suoi occhi piccoli, il suo viso scoppiano in un
sorriso. Mi tocca sempre molto profondamente. Armando non chiede soldi, non chiede sapere, non chiede potere, non
chiede un posto una funzione; tutto ciò che chiede è molto semplice: "Mi ami?". Questo ci raggiunge nel
profondo del cuore, un cuore fatto di tenerezza e vulnerabilità . Questo cuore di cui forse ho un po' paura,
perché abbiamo un po' tutti paura di amare. Forse nascondiamo la nostra vulnerabilità , è forse
proprio tutto questo che ho scoperto.
In marina e negli studi avevo alzato attorno al mio cuore tutto un sistema di difesa. Dovevo apparire forte, non
sapevo diventare vulnerabile e lasciarmi toccare nella profondità del mio essere. E' qui che Armando mi ha
toccato, perché Armando dice: "Lascia cadere le tue difese, tira via la maschera, sii te stesso ed entra in
una relazione di comunione!". E' questo quello che ho scoperto vivendo con uomini e donne fragili: la comunione.
La comunione è molto diversa dalla generosità; la generosità è fare delle cose buone,
essere generosi, fare delle cose per le persone, ma senza avere mai il tempo per ricevere dagli altri. La comunione
è un vai e vieni dell' amore attraverso lo sguardo, il gesto, la parola. La comunione è molto
diversa dalla cooperazione. Armando ed io non necessariamente cooperiamo insieme. La comunione è questo
sguardo reciproco, basato sulla fiducia dove Armando può dire: "Ho fiducia in te" ed io posso dire a lui:
“Ho fiducia in te, tu sei un tempio dello Spirito Santo, tu sei presenza di Dio".
Ed è vero che con Raphael e Philippe e persone come Armando ho cominciato a penetrare molto più nel
Vangelo. Gesù dice: "Chi accoglie uno di questi piccoli, nel mio nome, accoglie me". Se accogliete qualcuno
che non può sbrigarsela da solo, voi accogliete Gesù. Non trovate tutto questo molto semplice? Se
accogliete qualcuno che non può farcela da solo, accogliete Gesù. E' così che scopriamo come
Armando ci guarisce, ci aiuta a far cadere le maschere, a non essere in un mondo competitivo. Ho il diritto di essere
me stesso, con il mio cuore vulnerabile, con il mio cuore che ha bisogno di amare e di essere amato. La comunione non
è possedere l' altro (quando si vive insieme a persone che hanno un handicap mentale, si può sentire
dentro di sè questa tentazione), la comunione è donare libertà all' altro. Non possederlo, non
conservarlo, ma aiutarlo a crescere. La comunione è una liberazione.
Vivendo con persone che hanno un handicap ho scoperto tutto un pozzo di tenerezza dentro di me. E' stupendo questo
pozzo di tenerezza dentro di noi. Ho scoperto cosa significa amare: amare non è necessariamente fare delle
cose per gli altri e allo stesso tempo schiacciarli e fargli capire che non sono in grado di fare niente. Amare
l'altro è dargli fiducia, aiutare l'altro a scoprire la sua bellezza, aiutarlo a scoprire il suo valore,
rivelare all'altro che è prezioso ed importante.
Per amare così non servono molte conoscenze, ma una qualità di ascolto, un modo di guardare, un modo di
essere di fronte all' altro. Non lo si schiaccia con la nostra potenza, non gli si dice di fare questo o quello, ma
piuttosto lo si aiuta a scoprire che lui è un tempio in cui abita Dio. Questo non vuol dire che non esista
quella cosa che si chiama educazione e pedagogia, non vuol dire che non esista l'insegnamento, ma vuol dire che il
fondamento delle relazioni umane è una qualità di sguardo e di comunione che aiuta l'altro a diventare
se stesso, alla luce dello sguardo di Dio.
Vivendo con persone con handicap ho scoperto anche le mie ferite, un mondo di tenebre dentro di
me. Non si può vivere con persone che soffrono tanto, senza che esse rivelino la nostra sofferenza. Non si
può vivere con persone molto angosciate senza che questo provochi le nostre angosce. Queste persone con
handicap risvegliano in me angosce molto grandi. Ho visto dentro di me delle forze di durezza, ho visto dentro di me
delle capacità di violenza, anche di un certo odio psicologico; è duro scoprire dentro di sé la
capacità di volere il male. Non si tratta di credere di essere superiore agli altri. La vita stessa è
lo scoprire progressivamente chi sono io, con tutto ciò che è tenebroso, ferito dentro di me e scoprire
anche tutto ciò che è dono, scoprire che sono amato da Dio, così come sono.
Quando ho vissuto una certa esperienza particolarmente dolorosa, ho scoperto una lettera di Carl Jung ad una donna
cristiana. Jung diceva così: "Io ammiro voi cristiani: quando vedete qualcuno che ha fame e sete, voi vedete
Gesù. Quando visitate qualcuno che è in prigione o che è malato voi fate visita a Gesù.
Quando accogliete uno straniero o vestite quelli che sono nudi, voi vedete Gesù". Poi aggiungeva: "Io trovo
tutto questo molto bello, ma quello che non capisco è che voi non vedete Gesù nella vostra stessa
povertà. Perché Gesù è sempre nel povero al di fuori di voi, mentre lo negate nella
povertà che è dentro di voi? Perché passate il vostro tempo a negare le vostre tenebre?".
Così ho capito anche questa frase di Gesù: "Non cercare di togliere la pagliuzza nell'occhio
dell'altro, quando c'è una trave nel tuo. Insensato! accetta di togliere la trave dal tuo occhio e poi ci
vedrai chiaro per levare la pagliuzza nell'occhio dell'altro” . Così ho scoperto, dentro di
me, tutte le potenze di negazione della mia povertà. La povertà delle persone con le quali vivevo mi
portava a vivere la verità. Spesso dico che la gente viene all'ARCA o a FEDE E LUCE per servire
i poveri, ma resta solo se si scopre povera. In quel momento si scopre una cosa importante: la buona novella non
è per quelli che servono i poveri. La buona novella è per quelli che sono poveri, che hanno toccato le
loro ferite, la loro fragilità , la loro vulnerabilità , che hanno lasciato cadere il loro sistema di
difesa, con la certezza che Dio li difende. E' quello che Gesù diceva a Paolo: "La mia grazia ti basta, la mia
potenza si rivela nella tua debolezza". E' questo che sono FEDE E LUCE e l'ARCA: comunità molto
povere e molto vulnerabili.
All'ARCA viviamo tutti insieme, con gli Armando, i Raphael, i Philippe, in case piccole, inserite nei
quartieri; è una vita molto umana e molto semplice. Non facciamo nulla di grande, ma impariamo a vivere
umanamente. Non siamo persone che corrono a destra e a sinistra, in questo mondo di tecnologia e di lavoro; cerchiamo
di scoprire che cosa significa vivere come esseri umani. Vivere il pranzo, vivere il perdono, vivere la celebrazione,
scoprire che per essere pienamente umani dobbiamo lasciare scendere lo Spirito Santo nella nostra umanità ,
perché vivere umanamente è amare, accogliere la differenza, lasciare un mondo di competizione per
entrare nel corpo e dare voce a chi non ha voce. FEDE E LUCE e l'ARCA sono delle comunità dove
si riuniscono occasionalmente, le persone con handicap, con i loro genitori, con i loro amici, sono comunità
dove fare quest'incontro nel nome di Gesù.
Io spero che ognuno di voi possa scoprire il segreto del Vangelo che è significato anche in questa piccola
storia che uno dei responsabili dell'ARCA mi ha raccontato non molto tempo fa. Mi ha detto questo: "Mia madre
è stata colpita dal morbo di Alzheimer ed è diventata molto povera e molto piccola. Lei non può
neppure lavarsi i denti da sola, non può mangiare da sola. E' così piccola e bella nella sua
piccolezza. Ma vorrei parlarvi del mio papà . Mio padre era un uomo molto potente, era un uomo d'affari e
faceva molti affari, era molto efficace ed efficiente, ma, quando mia madre si è ammalata, si è
rifiutato di metterla in ospedale. Ora è lui che si occupa della mamma. Ma quello che è straordinario
è che mio padre si è trasformato: è lui che lava i denti alla mamma, è lui che le
dà da mangiare. Invece di un uomo potente ed efficace, di un uomo pieno di progetti, lui è diventato un
uomo di una tenerezza straordinaria". E' evidente che Dio era presente nel mistero di questa coppia. Il povero ci
disturba, ci disturba profondamente, ma il povero ci trasforma e ci rivela il cuore di Cristo.
Domanda: Lei ha fatto una scelta che ha implicato tutta la sua vita, dal momento in cui ha
lasciato il suo lavoro e si è dedicato a tempo pieno al mondo dell'handicap. Molte persone tra di noi si
trovano in situazioni di lavoro e di vita che non possono lasciare, che possono portare a contatto con persone con
handicap o no. Ma l'impegno è limitato da tante persone che non vogliono cambiare e che non cambieranno. Lei
che ne pensa?
Jean Vanier: Credo che nel mondo del lavoro ci sono persone deboli e persone forti, forse ci sono delle
segretarie che ci aggrediscono. Credo che quello che Gesù vuole non è che tutti lascino il loro lavoro.
Vuole che cambiamo il nostro sguardo sulle persone, che apprezziamo ciascuno per quello che è. Vivendo con
persone che hanno un handicap, ho scoperto che ogni persona è una persona, qualunque sia la sua debolezza,
qualunque sia il suo limite, qualunque sia il suo handicap.
Vi confesso che qualche volta ho più difficoltà con degli assistenti o con delle persone della nostra
società , cosiddetta normale, che con persone che hanno un handicap. Credo di accogliere le persone con
un handicap e di accettare la loro fragilità e trovo che a volte sono meno tollerante e meno aperto con gli
assistenti. Ho ancora troppi progetti su di loro e qualche volta vedo dentro di me una certa collera nei confronti di
certe persone che vengono a visitare la nostra comunità e che dicono a noi assistenti che siamo meravigliosi e
che portano una certa nota di disprezzo nei confronti delle persone con handicap. Loro non si accorgono che è
un privilegio per noi essere con Armando. Qualche volta vedo dentro di me una certa intolleranza nei confronti delle
persone che rifiutano persone come Armando. Allora c’è ancora del lavoro da fare.
Io credo che quello che Gesù vuole è che il nostro sguardo sulle persone cambi, all'interno della
nostra azienda, del quartiere, della famiglia. Non giudicare, non condannare. Forse se saremo meno efficienti, faremo
meno carriera. Siamo pronti a cercare di fare delle nostre aziende un luogo veramente umano? Forse in questo modo non
saliremo la scala della promozione umana.
Io credo che il Signore voglia che proviamo a creare comunità là dove siamo, attraverso un
atteggiamento di bontà , di comprensione, di apertura alle persone che ci sono accanto. Questo richiede che
noi troviamo questa forza all'interno, perché io non sia più questo uomo efficace che marcia sui deboli
ma al contrario divenga un uomo che si preoccupa degli altri nel lavoro, nel quartiere, nella famiglia e nella
parrocchia. L'opera di Gesù non è lasciare il lavoro, ma essere presenti come il lievito nella
pasta.
Domanda: Nelle case dell'istituto Don Orione dove vivono persone con handicap vengono spesso dei giovani a
fare esperienza di volontariato. Spesso mi capita di parlare con loro e molte volte mi dicono: "Ecco, io all'inizio
provo molta difficoltà ad avvicinarmi a questi ragazzi". Lei che consigli darebbe ad un giovane che vuole
avvicinarsi ad una esperienza di volontariato?
Jean Vanier: Ho sempre molta difficoltà a dare una risposta generale. Quello che, credo, abbia
importanza è che le persone di cui parli vedano la bellezza delle persone con handicap. Qualche volta non si
vede subito. Bisogna prenderli per mano e dirgli: "Vedi quel ragazzo lì. Ha sofferto molto", e poi raccontare
loro la sua storia perché i volontari siano toccati dalla sofferenza di quest' uomo. Poi mostrare loro qualche
cosa di questa persona handicappata, dove c’è luce.
Sono stato molto aiutato in un centro che ho visitato dove c'erano molti bambini handicappati. Quando visito dei
centri che hanno dei bambini con handicap, spesso apro la mia giacca e stringo il bambino contro il mio corpo. Quando
faccio questo, spesso c'è come un cambiamento radicale nel viso del bambino; quando lo metto contro il mio
corpo, lui comincia a sussultare e a ridere. E' come del cibo per una persona che ha fame. Sono andato da un bambino
malato di idrocefalia che aveva un corpo piccolo piccolo ed una testa molto grande. Mi sono sentito imbarazzato
davanti a questo bambino. Non sapevo come prenderlo, come toccarlo.
C'era un'infermiera che era lì e che ha visto che io ero imbarazzato. Ha preso la mia mano e l'ha messa sulla
testa del bambino e poi mi ha guardato dicendo: "Non trovi che sia bello?". Allora le scaglie che avevo sugli occhi
sono cadute. Avevo bisogno di questa infermiera. Non ero riuscito a vedere immediatamente la bellezza, avevo bisogno
della tenerezza di questa donna che non mi ha giudicato e mi ha fatto capire la bellezza di questo bambino.
Credo che spesso abbiamo bisogno di una guida e tu sei chiamato ad essere una di queste guide. Tu prendi la mano di
un volontario e lo introduci nel mondo di una di queste persone. Gli parli della sua sofferenza e poi gli mostri la
sua bellezza, perché spesso i volontari seguono ciò che tu sei. Bisogna che tu per primo scopra questa
bellezza per potervi introdurre l'altro. E' un mistero che si comunica gli uni agli altri. Se non ci fosse stato
questo padre domenicano non lo avrei mai scoperto. Lui ha voluto rivelarmi ciò che aveva scoperto. Bisogna che
ora io riveli ciò che poi ho scoperto. Tu devi rivelare ciò che tu hai scoperto, perché i nostri
occhi sono più abituati a giudicare che a meravigliarsi.
Allora c’è bisogno che ci aiutiamo, perché i nostri occhi cambino, per vedere l' opera di Dio in
qualcuno. A volte ci sono situazioni molto difficili. Mi ricordo che visitando una prigione, mi è stato
chiesto di visitare un uomo affetto da una grave malattia mentale che aveva ucciso sette persone. E' vero che lui
aveva talmente tante maschere e talmente tanti sacchi di paura intorno a sè che, con i miei occhi soli, non
potevo vedere la bellezza. Vedevo un uomo pieno di odio e di violenza e, vedendolo, mi sono reso conto di come, di
settimana in settimana, nella sua prima infanzia è stato obbligato a chiudersi dentro questa corazza.
Un uomo non diventa uno psicopatico senza ragione, ma sicuramente è uno che stato molto ferito, molto colpito
quando era piccolo piccolo. E fin da piccolo ha dovuto creare queste barriere e questi sistemi di difesa. A volte non
si vede la bellezza, allora si comincia a capire da dove viene tutta questa violenza che è in questa persona:
ha troppo sofferto quando era bambino.
Domanda: Faccio parte di un gruppo di ragazzi che vogliono essere amici di ragazzi handicappati per capire i
loro bisogni. Prima viene dunque l'amicizia e poi l' aiuto. Io penso che sia importante rendere più umana la
società in cui viviamo e non creare dei centri separati dal resto della società . Dal momento che lei
ha parlato di una società che non era pronta ad accogliere i deboli, volevo sapere se nella sua esperienza ha
potuto osservare qualche cambiamento della società .
Jean Vanier: Credo che certe cose cambiano e certe cose no. Credo che non bisogna farsi delle illusioni. E'
chiaro che, dopo il 1964, ci sono state delle grosse evoluzioni in molti Paesi: si è cercato di creare delle
case inserite nei quartieri,si è cercato di sostenere le famiglie, si è cercato di creare delle piccole
scuole, di fare delle scuole integrate. Certamente c’è molto più rispetto per le persone
portatrici di handicap mentali, sono molto più integrati nella Chiesa. Dunque ci sono molte cose positive, ma
ci sono ancora molte cose negative.
Oggi quando parlo, nelle scuole, ai giovani di 14, 15 e 16 anni vedo giovani molto angosciati al pensiero di poter
attendere un giorno nel proprio corpo un figlio con handicap. Dicono con violenza che se aspettassero un bambino
così abortirebbero. Allora sotto un aspetto c’è un accoglienza più grande e sotto un altro
aspetto c’è un rifiuto più grande. Non penso che si debbano fare troppe statistiche. Quello che
serve è che tu ed io ed ognuno di noi cerchiamo di creare luoghi profondamente umani e dare il massimo
sostegno alle famiglie, provare ad aiutare la società , i vicini, la Chiesa, a scoprire che questi uomini e
queste donne hanno un dono da fare. Forse sono più fragili, ma hanno dei doni straordinari da fare. Se ognuno
di noi cercasse di creare delle isole di vita, senza pensare di essere con questo i salvatori del mondo nè i
salvatori della società!
Credo molto nella persona umana e nella capacità di ognuno di creare intorno a sè con gli altri una
rete d'amore che implica un rispetto profondo dell'altro, così com'è'. So anche che ci sono delle forze
del male, so che ci sono delle forze di odio che uccidono le persone con handicap. Occorre che ognuno di noi entri in
questa lotta, che sia fedele, là dove si trova, cercando di creare un mondo più umano, più vero,
sperando che altri facciano la stessa cosa.
Domanda: Molte volte la gente che sta bene, che ha avuto molto dalla vita, che viene da una parrocchia,
è gente infelice. Nonostante abbia molti valori, non sembra avere piacere intenso delle cose della vita: come
se sparisse quello che è sufficiente ad accendere l'amore che e' in noi.
Prima, mentre lei parlava, notavo che certe parole del Vangelo che costituiscono la beatitudine possono veramente
dare una chiava di lettura. Molte parole del Vangelo che lei prima citava, tante altre volte sono state sentite e
sono passate inosservate mentre, mediate in un certo modo, diventano come una chiave di apertura verso delle risposte
di pienezza. Ecco, cosa è che ci manca per imparare ad amare? Forse amare se stesso, forse amare e accettare
profondamente l'altro?
Jean Vanier: Scopro ogni giorno di più che noi esseri umani portiamo molte ferite in noi, molte paure e
sensi di colpa molto profondi. Sono stupito dalle tante persone che, incontrate ai ritiri spirituali che faccio, sono
convinte di non poter essere amati da Gesù. Allora come liberare queste persone da questo senso di colpa che
le paralizza? Come aiutare le persone a rischiare d'amare? Ho avuto molta fortuna perché ero in una
società competitiva, ho sentito la chiamata di Gesù e sono stato profondamente aiutato da un padre
spirituale che mi ha amato e mi ha introdotto nel mondo dei valori del Vangelo. Ho l'impressione che noi abbiamo
bisogno di trovare dei padri spirituali, abbiamo bisogno di queste comunità che ci permetterebbero di cambiare
il nostro sistema di valori per riscoprire i valori del Vangelo.
Perché è vero ciò che dici: spesso la gente della nostra società è triste. Ho
scoperto che le persone normali sono molto handicappate. Voglio raccontarvi la storia di un uomo normale e voi
scoprirete che non credo alla normalità e alla anormalità. Le persone normali sono piene di problemi:
familiari, lavorativi, economici, con la chiesa.
Una volta, un uomo molto normale mi è venuto a trovare ed era pieno di tristezza. Ad un certo punto bussano
alla porta e senza che io abbia il tempo di dire "Avanti" , entra Jean Claude. Jean Claude è un ragazzo che la
gente chiama down, noi lo chiamiamo semplicemente Jean Claude. A Jean Claude piace molto ridere: ti prende la
mano, ti dice "Buongiorno" e ride. Così prende la mano del signor normale e ride; poi se ne va,
sbattendo la porta. Il signor normale si gira verso di me e dice: "Com'è triste che ci siano dei
bambini così!". Credo che il solo problema era che il signor normale era cieco. Era incapace di vedere
che Jean Claude era felice. Guardava la realtà attraverso le sue teorie e la sua ideologia. Jean Claude era
molto più felice di lui.
Noi abbiamo delle ideologie, noi condanniamo le persone prima ancora di averle ascoltate, abbiamo fabbricato dei
pregiudizi, diventiamo sempre più incapaci di guardare la realtà così com'è', guardiamo
la realtà attraverso le nostre teorie e così abbiamo perso lo sguardo del bambino che è capace
di meravigliarsi. Così quest'incontro con Gesù ci aiuta a ritrovare lo sguardo del bambino, ma a volte
abbiamo paura di Gesù, abbiamo paura che Lui ci domandi di lasciare delle cose che noi vorremmo conservare.
Bisogna ritrovare il senso profondo del Vangelo, di Gesù che ci chiama all' amore e che ci dà l'amore,
e l'amore è un rischio. Siamo pronti a rischiare?
Domanda: Lei ci ha parlato della sua bella esperienza, della sua vita molto bella e di com'è' possibile
per i cosiddetti normali riuscire ad abbattere questa barriera della diversità ed andare oltre,
avvicinarsi alla sofferenza e cambiare la nostra vita, riavvicinarsi al mistero di Dio. Io volevo chiederle se, per
coloro che hanno dei problemi che portano loro sofferenza, basta la loro vita per andare oltre la loro
diversità e la loro sofferenza e capire il mistero di Dio.
Jean Vanier: E' ancora una volta molto difficile rispondere ad una domanda generale. E' vero che ognuno di noi
porta dentro di sè delle grandi sofferenze e, poichè abbiamo sofferto, abbiamo paura della sofferenza.
Stiamo meglio nei nostri progetti, nei nostri sogni. Non molto tempo fa parlavo con una ragazza a proposito del sogno
e della realtà , e lei diceva: "Preferisco vivere nei miei sogni, perché la realtà è
troppo dolorosa". Io le ho detto: "Lo capisco, capisco che tu fugga dalla realtà perché la
realtà è troppo dolorosa, ma forse un giorno avrai una forza che nascerà in te, che ti
farà venire voglia di essere in comunione con la realtà . Stai attenta all'ora di Dio, perché
chiudersi nei sogni può essere altrettanto pericoloso, perché sarai sola". Ognuno di noi porta dentro
di sè questo. Quale sarà il cammino per ognuno di noi?
Il mio cammino è passato per un certo numero di cose: la chiamata di Gesù, l'incontro con un padre
spirituale, l'introduzione in una vita di preghiera, la scoperta della vita comunitaria con le persone handicappate
ed è tutto un cammino che è ancora lontano da finire. So che ci sono dentro di me cose che devono
essere purificate. A volte vedo giovani che vogliono venire nelle nostre comunità, ma non sono pronti. Stanno
cercando troppo un rifugio per loro, non hanno abbastanza forza interiore e libertà interiore per portare un
altro. Allora abbiamo tutti un nostro cammino, ma ciò di cui sono certo sempre di più è che il
povero, il piccolo, il debole, il vulnerabile, ha un potere di guarigione. A questo bisogna essere attenti, chi
potrebbe essere per noi questo povero? E' forse l'uomo della strada? Oppure una persona handicappata? O magari un
anziano?
Ma sono sempre più convinto che sono tre gli elementi della nostra guarigione. Il primo elemento è
l’interiorizzazione che viene dalla preghiera e dall'unione con Dio, il silenzio interiore. Poi la
comunità, che può essere qualcosa di molto elastico, possono essere degli amici a cui mi sono legato,
forse un gruppo di preghiera, degli amici all'interno di un palazzo, dei fratelli e delle sorelle che ci incoraggiano
sulla strada della liberazione interiore. Ed infine il povero, con il suo potere di liberazione, di guarigione.
Sono necessari per la nostra liberazione interiore, per accogliere il nostro essere con tutto ciò che è
tenebre e luce dentro di noi, e per accogliere le diversità, la differenza dell'altro.
Domanda: Sono una suora e nella nostra casa viviamo, come opera di noviziato, l'accoglienza di alcune bambine
con situazioni familiari molto particolari. Una delle difficoltà grosse che alcune di loro presentano è
la difficoltà ad amare e ad accettare di essere amate. Volevo chiederle allora, quale sarebbe secondo lei
concretamente l'atteggiamento più giusto? Alcune giovani, alcune di queste bambine portano dentro il segno di
una sofferenza molto grande che è carenza affettiva. Io chiedo: queste ferite si possono rimarginare
completamente?
Jean Vanier: A volte le ferite dell'infanzia sono talmente profonde ed hanno portato alla creazione di sistemi
di difesa talmente potenti, un po' come quell'uomo che vi dicevo prima, quello della prigione, dove c'erano strati e
strati di protezione! E' un lungo, lungo, lungo cammino perché possano credere di essere amati. Per qualcuna
di queste persone è pericoloso essere amati, troppo pericoloso essere amati. Allora ci vogliono degli anni.
Bisogna sapere come avvicinarsi, non troppo vicino nè troppo lontano, bisogna, come sempre, essere veri,
parlare delle proprie difficoltà .
C'è tutto un modo di avvicinare una persona che è molto ferita ed è evidente che ci sono persone
che non saranno mai totalmente guarite, porteranno queste ferite per tutta la loro vita. C’è troppa
violenza, ci sono troppe ferite dentro di noi ed è evidente che non possiamo essere i salvatori di tutto il
mondo. E' Gesù che è il salvatore. Noi possiamo aiutare alcune persone a far cadere le loro barriere ed
entrare in questo mondo di relazione. Per altri non possiamo.
Non molto tempo fa ero in ospedale in Romania, ed ho vissuto un'esperienza molto dolorosa. Era un ospedale con molti
bambini handicappati e, come dicevo prima, spesso mi piace prendere un bambino, toccarlo, metterlo contro il mio
corpo e vedere il bambino che si trasforma. Poi è doloroso rimetterlo giù e vedere questo velo che cade
di nuovo. Mi sono avvicinato ad un bambino e, quando l'ho toccato, è stato come se gli avessi dato una scarica
elettrica. E' saltato indietro. E' la prima volta che mi è successo, e allora, con ancor più
delicatezza, ho cercato di toccare questo bambino. E' saltato indietro come se gli avessi dato una seconda scarica
elettrica. Era un bambino piccolo piccolo, qualche mese soltanto, ed è chiaro che era entrato in un mondo
psicotico grave. Quando un bambino fa così e salta indietro perché lo si tocca, è perché
la psicosi è già grave; che cosa ci vorrebbe, perché possa ritrovare una relazione più
accettabile? E' difficile credere che questo sia possibile. Anche se fosse possibile, non ci sarà mai una
guarigione.
Vivo con uomini e donne che hanno delle psicosi abbastanza gravi, bambini profondamente autistici, che porteranno
questa ferita per tutta la vita. Potranno trovare una certa pace e dobbiamo scoprire come comunicare con loro, nelle
psicosi, nelle ferite profonde, non esigere che si crei una comunicazione subito facile. Loro devono poter scoprire
che li accettiamo così come sono e che comunichiamo con loro, secondo il loro modo e non secondo il nostro.
Non possiamo credere che tutti quanti guariscano, ma tutti quanti, se sono ben accolti, possono trovare una certa
pace. Dobbiamo cercare le condizioni e l'ambiente necessario, perché questo avvenga.
Penso di non poter dire più di quanto ho detto.