Dopo Paolo. Ignazio e Clemente, una tradizione che continua, di Andrea Lonardo

- Scritto da Redazione de Gliscritti: 09 /02 /2010 - 19:51 pm | Permalink | Homepage
- Tag usati:
- Segnala questo articolo:
These icons link to social bookmarking sites where readers can share and discover new web pages.
  • email
  • Facebook
  • Google
  • Twitter

Pubblichiamo un articolo scritto da Andrea Lonardo per la rubrica “Paolo a Roma” del sito www.romasette.it.

Il Centro culturale Gli scritti (10/2/2010)

«Tu, figlio mio, attingi sempre forza nella grazia che è in Cristo Gesù e le cose che hai udito da me in presenza di molti testimoni, trasmettile a persone fidate, le quali siano in grado di ammaestrare a loro volta anche altri» (2 Tim 2,1-2).

La seconda Lettera a Timoteo invita già ad immaginare le generazioni che seguono quella apostolica: Paolo ha trasmesso il Vangelo a Timoteo ed ora, confermandolo nel suo incarico di “vescovo” di Efeso, gli chiede di preoccuparsi di una nuova generazione e di curare che questa, a sua volta, faccia sorgere nuovi collaboratori di Dio perché la Parola di Dio continui la sua corsa.

Come è noto, gli studiosi sono concordi nel ritenere con sicurezza che sette lettere dell’epistolario paolino sono state scritte direttamente dall’apostolo – 1 Ts, 1 Cor, 2 Cor, Gal, Rm, Fil, Flm – mentre la discussione è aperta sull’attribuzione delle altre (vedi L'origine apostolica dei vangeli e la loro storicità al Concilio Vaticano II).

Appare ormai certa l’esistenza di una “scuola paolina”, cioè di un seguito di persone formatesi all’insegnamento di Paolo che hanno continuato a scrivere nel suo nome, affrontando alla luce del Vangelo che l’apostolo aveva trasmesso loro i nuovi problemi che via via andavano sorgendo nelle diverse comunità.

Proprio questo fatto è segno della grande fecondità del pensiero paolino e, più in generale, della tradizione cristiana. “Tradizione” vuol dire la “viva trasmissione” di ciò che si è ricevuto; mentre nel linguaggio comune talvolta con questo termine si è soliti indicare qualcosa di stantio e vecchio; ad una riflessione più attenta appare evidente che ciò che si trasmette è esattamente ciò che è vivo, ciò che genera nuova vita, mentre ciò che cessa di essere trasmesso è propriamente ciò che è morto e non può dare più alcun frutto.

Scriveva il grande scrittore cattolico J. R. R. Tolkien, autore de “Il signore degli anelli”, in una lettera al figlio Michael: «La “mia chiesa” non è stata concepita da Nostro Signore perché restasse statica o rimanesse in uno stato di eterna fanciullezza; ma perché fosse un organismo vivente (come una pianta), che si sviluppa e cambia all’esterno in seguito all’interazione fra la vita divina tramandatale e la storia – le particolari circostanze del mondo in cui si trova. Non c’è alcuna somiglianza tra il seme di senape e l’albero quando è completamente cresciuto. Per quelli che vivono all’epoca della sua piena crescita è l’albero che conta, perché la storia di una cosa viva fa parte della vita e la storia di una cosa divina è sacra. I saggi sanno che tutto è cominciato dal seme, ma è inutile cercare di riportarlo alla luce scavando, perché non esiste più e le sue virtù e i suoi poteri ora sono passati all’albero» (sul cattolicesimo di Tolkien, vedi su questo stesso sito J. R. R. Tolkien ed il cattolicesimo, a partire dal suo epistolario).

L’esistenza di una “scuola paolina” significa in questo senso, come ha giustamente sostenuto il professor Romano Penna nei suoi studi sulla pseudoepigrafia neotestamentaria: non l’affermazione di un plagio o di un falso, quanto piuttosto l’ammissione di un debito di chi nasconde il proprio nome perché sia messo in rilevo quello dell’apostolo.

A Roma, dove Paolo dette l’estrema testimonianza del martirio, la trasmissione dell’eredità paolina avviene, senza alcuna discontinuità e se ne ha l’attestazione negli scritti dei cosiddetti “Padri apostolici”; quelle figure, cioè, i cui scritti non sono entrati nel Canone, ma che seguono immediatamente la redazione degli scritti neotestamentari. Solo per toccare con mano l’antichità di questi testi, basti pensare che gli apocrifi più antichi vengono una cinquantina d’anni dopo gli scritti dei Padri apostolici.

Il più antico testo romano della tradizione cristiana che segue gli scritti del Nuovo Testamento è la lettera che Clemente scrive, a nome della Chiesa di Roma, ai Corinti nell’anno 96 d.C. Il testo si colloca dopo la morte di Nerva, che aveva perseguitato i cristiani.

Clemente scrive ai Corinti invitandoli a considerare la testimonianza che Pietro e Paolo avevano offerto a Roma ed a trovare in essa un motivo di concordia per ristabilire l’unità nella chiesa di Corinto che doveva essere molto divisa: «Lasciando gli esempi antichi [dell’Antico Testamento], veniamo agli atleti vicinissimi a noi e prendiamo gli esempi validi della nostra epoca. Per invidia e per gelosia le più grandi e giuste colonne furono perseguitate e lottarono sino alla morte. Prendiamo i buoni apostoli. Pietro per l'ingiusta invidia non una o due, ma molte fatiche sopportò, e così col martirio raggiunse il posto della gloria. Per invidia e discordia Paolo mostrò il premio della pazienza. Per sette volte portando catene, esiliato, lapidato, fattosi araldo nell'oriente e nell'occidente, ebbe la nobile fama della fede. Dopo aver predicato la giustizia a tutto il mondo, giunto al confine dell'occidente e resa testimonianza davanti alle autorità, lasciò il mondo e raggiunse il luogo santo, divenendo il più grande modello di pazienza» (V, 1-7).

Si noti che a Roma i due apostoli sono venerati insieme e, alla memoria dell’uno, subito viene associata quella dell’altro.

Clemente continua ricordando ai Corinti la prima lettera che Paolo aveva scritto loro: «Prendete la lettera del beato Paolo apostolo. Che cosa vi scrisse all'inizio della sua evangelizzazione? Sotto l'ispirazione dello Spirito vi scrisse di sé, di Cefa, e di Apollo per aver voi allora formato dei partiti. Ma quella divisione portò una colpa minore. Parteggiavate per apostoli che avevano ricevuto testimonianza e per un uomo [Apollo] stimato da loro. Ora, invece, considerate chi vi ha pervertito e ha menomato la venerazione della vostra rinomata carità fraterna» (XLVII, 1-5).

E prosegue poi parafrasando l’elogio della carità di 1 Cor 13, perché a distanza di alcuni decenni, ancora i cristiani di Corinto non avevano appreso quella lezione: «Chi può spiegare il vincolo della carità di Dio? Chi è capace di esprimere la grandezza della sua bellezza? L’altezza ove conduce la carità è ineffabile. La carità ci unisce a Dio: "La carità copre la moltitudine dei peccati". La carità tutto soffre, tutto sopporta. Nulla di banale, nulla di superbo nella carità. La carità non ha scisma, la carità non si ribella, la carità tutto compie nella concordia. Nella carità sono perfetti tutti gli eletti di Dio.
Senza carità nulla è accetto a Dio. Nella carità il Signore ci ha presi a sé. Per la carità avuta per noi, Gesù Cristo nostro Signore, nella volontà di Dio, ha dato per noi il suo sangue, la sua carne per la nostra carne e la sua anima per la nostra anima. Vedete, carissimi, come è cosa grande e meravigliosa la carità, e della sua perfezione non c'è commento
» (XLIX, 2-6; L, 1).

E, solo quindici anni dopo, Ignazio vescovo di Antiochia, condotto a Roma per essere punito come cristiano ed essere dato in pasto alle fiere, probabilmente nei giochi del Colosseo, scrive ai cristiani di Roma, intorno all’anno 110 d. C. sotto l’impero di Traiano, per chiedere che non si adoperino per ottenere per lui la grazia dell’imperatore e che non ostacolino il suo martirio per la gloria di Dio.

Nel rivolgere questa richiesta, Ignazio scrive: «Scrivo a tutte le Chiese e annunzio a tutti che io muoio volentieri per Dio, se voi non me lo impedite. Vi prego di non avere per me una benevolenza inopportuna. Lasciate che sia pasto delle belve per mezzo delle quali mi è possibile raggiungere Dio.
Sono frumento di Dio e macinato dai denti delle fiere per diventare pane puro di Cristo. Non vi comando come Pietro e Paolo. Essi erano apostoli, io un condannato; essi erano liberi io a tuttora uno schiavo. Ma se soffro sarò affiancato in Gesù Cristo e risorgerò libero in lui. Ora incatenato imparo a non desiderare nulla
» (Lettera di Ignazio ai Romani, IV,1.3).

La lettera conserva, fra l’altro, la prima affermazione del primato di Roma sulle altre chiese. Ignazio, rivolgendosi alla comunità romana, la chiama «la Chiesa che presiede all’agape» (Lettera di Ignazio ai Romani, I,1), dove è evidente che, nel suo linguaggio, con il termine “agape” si intende la “comunione di tutte le chiese”, il vincolo di carità che tutte le unisce o, forse, la celebrazione eucaristica stessa: ebbene questa “agape”, questo amore che tiene unite tutte le Chiese, ha una presidenza e questa è tenuta proprio dalla Chiesa di Roma, a motivo della testimonianza di fede di Pietro e Paolo che nell’urbe è conservata.

La recente scoperta, proprio al termine dell’Anno paolino, di due clipei con i volti di Pietro e di Paolo nella catacomba di Santa Tecla, non lontano dalla basilica di San Paolo fuori le Mura, databili alla fine del IV secolo, ha richiamato tutti a quella concordia apostolorum, a quella duplice testimonianza di Pietro e Paolo che è custodita, per opera dello Spirito Santo, dalla tradizione della chiesa di Roma.


Torna all'Homepage de Gli scritti. Per altri testi sulla Sacra Scrittura, su questo stesso sito, vedi la sezione Sacra Scrittura.