S. Pietro in Montorio in Roma: S. Ireneo di Lione, dinanzi a Marcione ed alla gnosi. II incontro del II anno del corso sulla storia della chiesa di Roma, di Andrea Lonardo
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Mettiamo a disposizione la trascrizione del II incontro del corso di formazione sulla storia della chiesa di Roma proposto dall’Ufficio catechistico di Roma, tenutosi il sabato 22/11/2008, presso la basilica di San Pietro in Montorio.
Il calendario dei successivi incontri del corso è on-line sul sito dell’Ufficio catechistico della diocesi di Roma www.ucroma.it. Il testo è stato sbobinato dalla viva voce dell’autore e conserva uno stile informale. Alla relazione sono stati aggiunti alcuni passaggi chiarificatori.
Le trascrizioni degli altri incontri, dedicati il I anno al Nuovo Testamento (chiese di S. Prisca, di S. Maria in Aracoeli, di S. Marco, di S. Pietro in Vincoli, di S. Clemente, di S. Lorenzo de’ Speziali in Miranda, di S. Prassede, villa dei Quintili e, rispettivamente, Atti degli Apostoli, Lettera di Paolo ai Romani, vangelo di Marco, lettere di Pietro, padri apostolici Clemente ed Ignazio, Lettera agli Ebrei, Apocalisse e Lettere pastorali) ed il II ai padri da Giustino ad Agostino (basiliche di S. Pudenziana, S. Lorenzo fuori le mura, S. Agostino, Battistero di S. Giovanni in Laterano, Musei Vaticani e scavi di Ostia antica e, rispettivamente, a S. Giustino, S. Lorenzo e S. Cipriano, S. Agostino, Costantino e l’iconografia paleocristiana) sono on-line nelle sezioni Nuovi testi del sito www.gliscritti.it e nella sezione Roma e le sue basiliche. Le foto che illustrano l’itinerario descritto in questo testo sono on-line nella Gallery S. Pietro in Montorio.
Il Centro culturale Gli scritti 21/9/2009
Indice
- 1/ Marcione, Valentino e gli gnostici, Ireneo ed i loro legami con Roma
- 2/ Marcione
- 3/ Valentino e gli gnostici
- 4/ Lo gnosticismo presuppone e sviluppa il Logos di Giovanni
- 5/ Lo gnosticismo rifiuta l’importanza della creazione e della storia
- 6/ Le conseguenze dei sistemi gnostici
- 7/ Ireneo di Lione
- 8/ L’Adversus haereses: «la vittoria contro le eresie consiste nel manifestare le loro dottrine»
- 9/ La Tradizione della chiesa è pubblica e deriva dagli apostoli
- 10/ I quattro vangeli ed il Credo
- 11/ La creazione come opera di Dio e la conseguente visione dell’uomo
- 12/ La comunione della chiesa nelle legittime diversità: la questione della datazione della Pasqua
- 13/ Visita della basilica di S. Pietro in Montorio: la facciata
- 14/ Gli affreschi di Sebastiano Del Piombo nella cappella Borgherini
- 15/ S. Pietro in Montorio: le altre cappelle
- 16/ Il Tempietto del Bramante
- 17/ Il Gianicolo e la Fontana dell’Acqua Paola (Fontanone)
- NOTE AL TESTO
In questa chiesa di S. Pietro in Montorio, vogliamo presentare alcune grandi personalità del II secolo d.C. che cercheranno di trasformare la chiesa con le loro dottrine, in particolare Marcione ed i maestri gnostici. Successivamente ci soffermeremo sulla risposta teologica che darà loro la comunità cristiana, soprattutto attraverso la riflessione di Ireneo di Lione.
1/ Marcione, Valentino e gli gnostici, Ireneo ed i loro legami con Roma
Perché in questa chiesa? Questa volta non per una ragione archeologico-storica, perché le fonti non ci hanno tramandato in quale luogo di Roma abbia abitato Marcione, che fu membro della comunità romana prima di esserne espulso e fondare una propria chiesa.
Non sappiamo nemmeno dove abitò il grande maestro gnostico Valentino che venne a Roma verso il 140 d.C., né gli altri della cosiddetta scuola italica del movimento gnostico, fra cui Tolomeo che visse a Roma nella seconda metà del II secolo d.C.
Non conosciamo neppure dove risiedeva nel II secolo Eleuterio, vescovo di Roma, quando ricevette personalmente Ireneo di Lione inviato dalla sua comunità nel 177 a portare al pontefice la cosiddetta Lettera dei martiri di Lione, né dove risiedeva papa Vittore che ricevette a Roma una lettera di Ireneo, divenuto vescovo, sulla questione della data della Pasqua.
Probabilmente i pontefici abitavano allora nelle abitazioni nelle quali si riunivano i cristiani – abbiamo più volte parlato delle diverse domus ecclesiae – ed in qualcuna di queste domus fu ospitato anche Ireneo e successivamente fu letta la lettera che egli aveva inviato.
Perché allora questo nostro appuntamento in S. Pietro in Montorio? Innanzitutto per il suo panorama. Vedendo la città dal Gianicolo noi abbracciamo con lo sguardo la città e siamo sicuri che, in un qualche posto dinanzi a noi, Marcione e Valentino ed Ireneo sono passati ed hanno abitato. Non dimentichiamo l’atteggiamento che abbiamo scelto per questi nostri incontri, quando abbiamo dichiarato che non è così decisivo sapere esattamente in quale punto della città è avvenuto un certo fatto, quanto imparare a visualizzarlo, sapendo che si è svolto da qualche parte in Roma, dove tutti giorni si svolge la nostra vita.
Al panorama che da qui ammiriamo, si può aggiungere un motivo simbolico per la scelta di S. Pietro in Montorio, per parlare di Ireneo: il legame con S. Pietro a cui questa chiesa è dedicata. La tradizione che pone il martirio di Pietro qui sul mons Aureus (da cui viene Montorio) è tardiva e molto meno solida di quella del Circo di Gaio e Nerone presso il colle Vaticano. Deriva da un’antica espressione che poneva il luogo della morte di Pietro “inter duas metas”, cioè le due estremità del campo di corsa del circo, ma che fu interpretata come facente riferimento alle due “mete” rappresentate dalla piramide di Caio Cestio, già presunta tomba di Remo, e dalla meta Romuli, la piramide in Borgo distrutta nel 1496 e presunta tomba di Romolo.
A noi interessa, però, ricordare che proprio a Pietro Ireneo farà riferimento, collegando la fede della chiesa di Roma alla tradizione apostolica, come vedremo. Sicuramente il vescovo di Lione, nel corso della sua permanenza a Roma, si sarà recato a pregare sul Colle Vaticano dove i cristiani già allora veneravano la sepoltura di Pietro e, forse, si sarà soffermato anche qui dove ora sorge la basilica di S. Pietro in Montorio.
2/ Marcione
Cerchiamo allora di conoscere questi grandissimi protagonisti del II secolo d.C., innanzitutto Marcione. Vi accorgerete, pian piano, che, se all’inizio sembrano figure lontanissime da noi, ad una analisi più attenta si arrovellano già sulle grandi questioni che anche noi oggi dobbiamo affrontare e che la chiesa, fin da allora, ha illuminato con la saggezza del vangelo.
Marcione visse intorno alla metà del II secolo d.C. (la sua morte viene posta al 160 circa); originario di Sinope sul Mar Nero, fu poi membro della comunità di Roma, cui donò un consistente patrimonio. Nel 144 fu escluso dalla comunità romana, per le sue posizioni che fra poco analizzeremo e Marcione fondò allora una propria chiesa. La chiesa gli restituì per questo la sua donazione.
Non ci sono pervenuti scritti completi di Marcione, ma solo sue citazioni nelle opere di autori cristiani che volevano confutare le sue tesi, dalle quali, però, si può ricostruire a grandi linee il suo pensiero.
Marcione partiva dalla constatazione della radicale diversità dell’AT e del NT. Egli, affascinato dal Nuovo, vi scorgeva un dissidio insanabile ed era convinto che l’At ed il NT fossero la testimonianza di due diverse divinità. Per Marcione, il Dio dell’AT non poteva essere il Padre di Gesù Cristo. Probabilmente era proprio la straordinaria novità di Cristo che lo colpiva: la realtà nuova di Cristo gli faceva vedere l’AT come una realtà non da superare e da compiere, ma da contrapporre esplicitamente a Gesù. Potrebbe aver pesato, in questa sua posizione, anche una formazione che lo portava a disprezzare la creazione materiale, proiettando questo suo rifiuto della corporeità nell’interpretazione della Scrittura. Potrebbero ancora aver agito le due cose insieme.
Già il titolo dell’opera che egli scrisse manifesta questo: Antitesi. Sembra che quest’opera iniziasse, secondo un anonimo autore siriano che ha conservato questo frammento, «con un grido di gioia: “O meraviglia delle meraviglie, estasi, forza e stupore che non si possa dire nulla sul Vangelo, nemmeno dire qualcosa su di esso, nemmeno paragonarlo a nulla!” (l’unica frase che abbiamo dalla penna di Marcione)» [1].
Marcione era così colpito dalla novità cristiana – vedremo che lo stesso si potrà dire, in maniera diversa, degli gnostici – che tutto il resto perdeva significato. Von Harnack, un teologo protestante liberale che nella prima metà del novecento ha studiato a lungo Marcione, afferma che «in tutte le Antitesi non [...] sembra ci fosse un termine più ricorrente di “nuovo”» [2]: un Dio nuovo, una nuova divinità, un nuovo e inaudito regno, Cristo che porta il nuovo perché porta se stesso, Cristo nuovo dominatore e nuovo signore degli elementi del creatore, nuove dottrine di un nuovo Cristo, nuove virtù di Cristo, nuovo documento della potenza e del bene di Cristo, nuovo precetto che è quello di perdonare sempre i peccati, nuova istituzione di Cristo con la soppressione del sabato, nuova bontà di Cristo, diversa pazienza di Cristo, Paolo nuovo garante, lo spirito novità del Testamento, nuova creatura.
Questo portava Marcione a vedere una opposizione, una antitesi appunto, con tutto ciò che era precedente e al di fuori di Cristo, compreso l’Antico Testamento. Marcione non leggeva così la Bibbia secondo la fede della comunità cristiana che affermava l’esistenza di un unico Dio e che leggeva nella Bibbia un unico piano salvifico, che iniziava con la creazione e, attraverso la preparazione dell’AT, giungeva alla sua pienezza nel NT. Per Marcione non c’era un unico Dio dietro la rivelazione attestata dalle Scritture, bensì due opposte visioni di Dio, due divinità in contrasto fra di loro all’opera, una nell’At ed una nel NT.
Già Giustino, contemporaneo di Marcione, si era accorto di questo quando, parlando di Marcione nella Prima Apologia, afferma:
«Vi è un certo Marcione del Ponto, il quale tuttora insegna ai suoi seguaci a credere che esiste un altro Dio superiore al creatore. Costui, in mezzo ad ogni genere di uomini, con l'aiuto dei demoni, è riuscito a far sì che molti pronuncino bestemmie e neghino che Dio sia creatore dell'universo, e ammettano che un altro, il quale sarebbe superiore a Lui, ha compiuto cose maggiori di lui» (da Giustino, I Apologia, XXVI, 5).
Che cosa ci fa capire questo testo di Giustino su Marcione? Che Marcione affermava sì che il Dio dell’AT era il Dio creatore, ma che proprio questo Dio era da disprezzare. Un altro Dio “superiore” al Dio creatore aveva fatto cose maggiori del creatore: questi era il Dio misericordioso e salvatore, il Dio rivelatosi in Gesù. Marcione “bestemmiava” contro Dio, perché affermava che questo Dio salvatore non aveva niente a che fare con il creatore. Il Dio rivelatosi in Gesù non aveva creato il mondo, ma l’universo era stato fatto da un altro.
Ancora Harnack afferma nel suo studio che «secondo Marcione, si deve leggere il Vangelo, le Lettere e l’Antico Testamento esclusivamente sotto un solo punto di vista: quanto nuovo sia il messaggio del Dio Redentore di amore e quanto spaventoso e miserevole sia il Dio crudelmente giusto del mondo e della Legge» [3]. L’opposizione riguardava così la creazione e la salvezza, ma anche la giustizia e la misericordia, le opere e la grazia.
Nella visione di Marcione, proprio per il rifiuto della creazione come opera dell’unico Dio, il Figlio di Dio non poteva essersi fatto pienamente uomo: Dio aveva semplicemente preso l’apparenza di un uomo, non la realtà della vita umana in quanto tale. È interessante notare qui che le prime eresie, a differenza di quello che abitualmente si attribuisce loro, non negavano affatto la divinità di Gesù, anzi i loro sostenitori erano talmente abbagliati dalla sua natura divina che non riuscivano a capire come egli potesse essere veramente uomo. Gli storici, per indicare la cristologia di Marcione e di altri autori simili hanno coniato il termine “docetismo” (dal greco dokeo=”appaio”), per indicare che in queste cristologie Gesù “appare” come uomo, si presenta come essere umano, ma non lo è in realtà, poiché la natura divina non può che essere contrapposta alla natura umana.
C’è un passo straordinario di Tertulliano, un cristiano vissuto nella regione che è l’odierna Tunisia, a cavallo fra il II ed il III secolo, che testimonia questa cristologia docetista di Marcione:
«[Marcione] è insofferente dell’attesa, ed il suo Cristo discende dal cielo in un batter d’occhio. ‘Toglimi di mezzo’ dice ‘questi censimenti di Cesare che ci disturbano sempre, questi alberghi disagevoli, questi panni sporchi, queste mangiatoie non certo confortevoli [dura praesepia]: se la schiera degli angeli ha intenzione di onorare il suo Dio di notte, faccia pure! I pastori farebbero meglio a badare alle pecore, e i Magi si risparmino pure la fatica del lungo viaggio: possono tenersi il loro oro!’» (da Tertulliano, De carne Christi, II, 1).
La testimonianza di Tertulliano mostra che Marcione aveva in disprezzo gli aspetti umani del Natale che rifiutava decisamente, si pensi solo al riferimento ai panni sporchi del bambino Gesù! Non erano degni di Dio quei pannolini, Dio non poteva sporcare come un qualsiasi bambino. Evidentemente per Marcione i tratti della carne umana del Cristo erano solo apparenti, non reali. Egli credeva in un Cristo “disincarnato”, potremmo dire, in un Cristo solo Dio e non uomo.
Questo rifiuto del Dio creatore e della reale incarnazione del Figlio comportava come conseguenza – o anche come premessa – il rifiuto delle Scritture ebraiche. Per Marcione, l’AT era da rifiutare. Diceva cose indegne del Dio di Gesù Cristo.
Marcione, inoltre, rifiutava quelle parti del NT che sostenevano un legame fra l’At ed il NT e che accentuavano la realtà della “carne” di Cristo: le riteneva non ispirate, non fedeli al vero. Per Marcione, solo Paolo e Luca appartenevano agli scritti ispirati, proprio per il tipico contrasto paolino fra Legge e grazia, ed addirittura egli sottraeva a questi scritti quelle parti che erano contrarie alle sue tesi teologiche.
È proprio Ireneo a testimoniarci queste sue posizioni:
«Un certo Cerdone prese le mosse dai discepoli di Simone, venne a Roma al tempo di Igino, che aveva l'ottavo posto della successione episcopale a partire dagli apostoli, ed insegnò che il Dio annunciato dalla Legge e dai profeti non è il Padre del Signore nostro Gesù Cristo: perché quello è stato conosciuto, questo è ignoto; quello è giusto, mentre questo è buono. Marcione del Ponto, che fu suo successore, ampliò l'insegnamento bestemmiando senza pudore il Dio che fu annunciato dalla Legge e dai profeti: dice che è autore dei mali, che desidera le guerre, è anche incostante nelle sue decisioni e in contraddizione con se stesso. Dice poi che Gesù, inviato dal Padre, che è al di sopra del Dio creatore del mondo, venne in Giudea al tempo del governatore Ponzio Pilato, che era procuratore di Tiberio Cesare, si manifestò in forma umana a quelli che erano in Giudea, abolì i profeti e la Legge e tutte le opere del Dio che ha creato il mondo, che egli chiama Kosmokrator. Inoltre, mutilando il Vangelo secondo Luca e togliendo tutto ciò che è stato scritto sulla generazione del Signore e molti parti dell’insegnamento che si ricava dai discorsi del Signore – quelle in cui è scritto con la massima chiarezza che il Signore riconosce come suo Padre il creatore di questo mondo – ha persuaso i suoi discepoli che lui è più veritiero degli apostoli che hanno trasmesso il Vangelo. Egli però non trasmette loro il Vangelo, ma una piccola parte del Vangelo. Similmente ha mutilato anche le lettere dell’apostolo Paolo, togliendo tutti i passi in cui l’Apostolo ha insegnato citando i passi profetici che preannunciano la venuta del Signore» (da Ireneo, Adversus haereses, III, 27, 2-3).
Non possiamo soffermarci ulteriormente sulle dottrine di Marcione [4]; è più importante che in questo breve spazio di tempo che abbiamo ci soffermiamo a capire meglio qual è stata l’importanza che hanno avuto le tesi marcionite nel processo di chiarificazione della fede della chiesa.
Marcione ha creduto in Cristo, ma ha dimenticato il Dio creatore; ha affermato che la Scrittura è ispirata, ma ha spezzato la sua unità, affermando che l’AT è radicalmente diverso dal NT, al punto da ritenere impossibile riconoscere nella Bibbia un’unica storia di salvezza. Egli non riconosceva in Gesù il compimento di quelle Scritture, rifiutava che Dio potesse venire nella carne, ritenendo impossibile l’incarnazione.
Esistono due modi di negare l’evento assolutamente originale della fede cristiana che è l’incarnazione, il fatto che il Figlio di Dio si sia fatto realmente uomo, entrando come Dio nella creazione, pur trascendendola assolutamente. Una prima possibilità è diretta ed è il rifiuto esplicito della possibilità che Dio esista o che, esistendo, si sia realmente fatto uomo; la seconda è che Dio, pur esistendo e pur rivelandosi, non abbia potuto o voluto scendere così in basso fino alla condizione umana, di modo che l’incarnazione non è reale, perché Gesù è solamente Dio e non uomo. Marcione, affascinato dalla “divinità” di Dio, scelse la seconda soluzione: Gesù aveva annunziato la verità di Dio, ma non era entrato realmente nella materia della creazione e della storia, perché queste erano estranee a Dio.
Vi accorgete che, in nuce, sono presenti in Marcione molti dei temi che ancora oggi si dibattono fuori e dentro la chiesa.
Innanzitutto il rapporto fra creazione e redenzione, con il rischio di svalutare la creazione rispetto all’incarnazione. Ma Cristo, slegato dal Creatore, perde di significato.
In secondo luogo la possibilità di una incomprensione dell’AT – e con esso di tutto l’ebraismo – quando lo si ritiene radicalmente estraneo al NT ed alla fede cristiana, con il deprezzamento di tutte le strutture ed istituzioni tipiche dell’antica alleanza.
In terzo luogo la discussione sull’unità della Bibbia, con il rischio di spezzare il filo che lega l’intera rivelazione cristiana in un’unica storia della salvezza. Su questo tema, l’allora cardinal Ratzinger, ha ricordato più volte una affermazione importantissima di von Harnack, che nel suo studio già citato, aveva scritto:
«Rifiutare l'Antico Testamento nel secondo secolo [cioè al tempo di Marcione] fu un errore, che la grande Chiesa giustamente ha respinto; conservarlo nel 16° secolo fu un destino, al quale la Riforma ancora non poté sottrarsi; conservarlo però ancora nel protestantesimo a partire dal 19° secolo, come documento canonico, dello stesso valore del Nuovo Testamento, è la conseguenza di una paralisi religiosa ed ecclesiale» [5].
Vedete che sono le grandi questioni di oggi? Dobbiamo ancora leggere l’AT? Che uso dobbiamo farne nella catechesi? Dobbiamo leggerlo solo nella sua dimensione storico-archeologica, consapevoli che gli autori veterotestamentari, essendo precedenti alla venuta di Cristo, non potevano pensare e scrivere all’interno di un orizzonte cristiano, con la conseguenza che il rapporto con il NT non potrà che essere estrinseco e artefatto?
L’allora cardinal Ratzinger, ha indicato una via di risposta a queste questioni:
«[Origene e gli antichi scrittori cristiani hanno elaborato principi di interpretazione cristiana della Bibbia del tutto specifici:] l'interiore unità della Bibbia come criterio di interpretazione, Cristo come punto di riferimento di tutte le vie dell'Antico Testamento. [Ma il vero fondamento di questa esegesi ] — al di là dei particolari dell'interpretazione — era il Nuovo Testamento stesso. Gesù di Nazareth ha avanzato la pretesa di essere il vero erede dell'Antico Testamento — della “Scrittura” — e di darle l'interpretazione definitiva, interpretazione certamente non alla maniera degli scribi, ma per l'autorità dell'autore stesso: “Egli insegnava come uno che ha autorità (divina), non come gli scribi” (Mc 1,22). Il racconto dei discepoli di Emmaus riassume ancora una volta questa pretesa: “E cominciando da Mosè e da tutti i profeti spiegò loro in tutte le Scritture ciò che si riferiva a lui” (Lc 24,27)» [6].
La chiesa rifiutò le posizioni di Marcione, affermando che non c’erano due divinità, ma che l’unico Dio era insieme creatore e salvatore e che aveva donato a noi il suo Figlio. Ireneo ed i cristiani del suo tempo, come vedremo, risposero che la Sacra Scrittura era un libro unitario perché testimone dell’unico Dio. E fecero questo, perché lo avevano appreso dalla tradizione evangelica. Continua ancora l’allora cardinal Ratzinger:
«i Padri della Chiesa con la loro interpretazione cristologica dell'Antico Testamento non hanno creato nulla di nuovo, ma solo sviluppato e sistematizzato, ciò che già trovavano nel Nuovo Testamento stesso» [7].
3/ Valentino e gli gnostici
Contemporaneamente a Marcione, la metà del II secolo vide lo svilupparsi in diversi luoghi e, si potrebbe dire, sopratutto a Roma, di una serie di dottrine che vengono comunemente raggruppate sotto il nome di “gnosticismo”.
Le principali correnti dello gnosticismo antico sono considerate dagli studiosi quella degli Ofiti e Sethiani (da ophis, il “serpente”, per la rilettura in positivo del tentatore di Gen 3 visto come elargitore della conoscenza, e da Seth, terzo figlio di Adamo, visto come primo degli uomini spirituali), quella dei Basilidiani (da Basilide, il caposcuola, vissuto in Egitto fra il 120 e la metà del II secolo), quella di Carpocrate (alessandrino) e di suo figlio Epifane, ed, infine, quella di Valentino e dei suoi seguaci.
Il nome più importante dello gnosticismo romano – e forse di tutto lo gnosticismo – è proprio quello di Valentino, forse di origine egiziana, che venne a Roma verso il 140 d.C. La sua scuola si scisse poi, secondo gli studiosi, in due rami, uno detto italico (le cui figure più importanti furono Eracleone, Tolomeo e Florino) ed uno orientale (con Teodoto e Marco). Tolomeo continuò in Roma la scuola del maestro nella II metà del II secolo.
Di questi autori non si sono conservati gli scritti originali, ma abbiamo conoscenza delle loro dottrine, come nel caso di Marcione, dalle numerose citazioni di autori che controbattevano le loro tesi.
Solo nel 1946 sono stati ritrovati a Nag Hammadi, discendendo il Nilo a nord di di Luxor, alcuni testi gnostici completi. Sono traduzioni tardive in lingua copta di originali greci che vengono fatti rimontare ad un periodo che oscilla fra il II ed il IV secolo d.C. Gli originali sembrano, comunque, testi leggermente successivi – così afferma Simonetti [8] – alla documentazione posseduta da Ireneo e dagli altri eresiologi dell’antichità possedevano. In particolare, la maggior parte dei testi di Nag Hammadi sembrano appartenere alla corrente valentiniana, anche se Valentino non vi è mai esplicitamente citato.
Il più importante fra i testi di Nag Hammadi è il cosiddetto Vangelo copto di Tommaso, probabilmente il più antico dei vangeli gnostici, che viene datato intorno alla metà del II secolo d.C. Recentemente lo ha superato in notorietà, per le polemiche che ha suscitato, ma non per importanza, il cosiddetto Vangelo di Giuda; non si conosce esattamente il luogo di ritrovamento di quest’ultimo, per le vicende poco chiare dei personaggi che lo hanno sfruttato in chiave economica, ma anch’esso è, comunque, una traduzione in copto di un originale greco che risale probabilmente alla II metà del II secolo (per approfondimenti sul Vangelo di Tommaso, sul Vangelo di Giuda ed, in generale, sui vangeli gnostici vedi Chi ha nascosto gli apocrifi?, di Andrea Lonardo,
Il vangelo gnostico di Giuda ed i vangeli canonici, del prof.Giancarlo Biguzzi,
Il vangelo apocrifo di Giuda e la storicità degli apocrifi: il testo ed i suoi commenti
e la sezione sugli Apocrifi della Mostra sulla storia e teologia della Bibbia ).
È subito evidente da questi dati come i maestri gnostici appartengano al II secolo d.C., così come i primi anonimi vangeli apocrifi in greco che, nei secoli successivi, furono tradotti anche in copto: lo gnosticismo è, infatti, un fenomeno che caratterizzò il II secolo d.C.
Un importante colloquio sullo gnosticismo che si tenne a Messina nel 1966 è il punto di riferimento per tutti gli studiosi del fenomeno. Fu presieduto da Ugo Bianchi, allora professore alla Sapienza di Storia delle religioni, e propose una definizione di gnosticismo che lo differenziasse dal più generico termine gnosi con il quale si indicano abitualmente fenomeni molto diversi fra loro, distanti cronologicamente e sorti senza relazione reciproca [9]. “Gnosi”, in greco gnosis, vuol dire semplicemente “conoscenza” e “gnostico”, a livello etimologico, è colui che afferma di avere una “conoscenza” migliore, più profonda degli altri che gnostici non sono. Con il termine “gnosticismo” si propose di chiamare, invece, quel peculiare fenomeno storico che sorse nel II secolo d.C. e che ora ci proponiamo di conoscere.
4/ Lo gnosticismo presuppone e sviluppa il Logos di Giovanni
Quello che emerge dagli studi recenti è che lo gnosticismo non è successivo al cristianesimo solo da un punto di vista cronologico - pensate che i testi e gli autori che abbiamo citato sono successivi degli ultimi scritti del NT di almeno cinquant’anni ed addirittura vengono cento anni dopo i primi testi neotestamentari! - ma soprattutto sono dipendenti filosoficamente e teologicamente dalla fede cristiana.
Gli gnostici del II secolo possono elaborare le loro tesi proprio perché hanno prima conosciuto il cristianesimo, per poi svilupparlo in una peculiare direzione: non ci sarebbe stato lo gnosticismo, così come lo conosciamo, se non ci fosse stato prima il NT ed, in particolare, il vangelo di Giovanni, del quale gli scritti e gli autori gnostici sono evidentemente debitori.
Si pensi anche solo al fatto che il primo commento al vangelo di Giovanni che sia mai stato scritto è opera dello gnostico Eracleone, appartenente alla “scuola italica” dello gnosticismo. Di questo commento si sono salvati dei frammenti.
In una conferenza pubblicata anche sul sito www.gliscritti.it - Deus patiens: l’essenza cristologica dello gnosticismo. Lo gnosticismo, le sue origini cristiane e la sua importanza nello sviluppo teologico del cristianesimo - il prof. Lettieri, esperto dello “gnosticismo”, spiega molto bene alcuni punti-chiave del fenomeno gnostico:
«Lo gnosticismo è serio perché per la prima volta, a partire dal cristianesimo, pensa a Dio in maniera nuova ed inedita, come un movimento eterno, un divenire di Dio in Dio, come un movimento che mette in relazione diverse persone. Dio è il mistero della relazione d’amore tra persone divine. [...]
Lo gnosticismo cosa presuppone? L’affermazione straordinaria che Gesù di Nazaret è il Logos preesistente ed è il monogenes, l’Unigenito, ovvero è Dio. Ciò significa che lo gnosticismo rappresenta una specie di cortocircuito, come dire, di dilatazione paradossale e di interpretazione paradossale della rivoluzionaria affermazione giovannea che il divino è un divino che si articola in un Padre ed un Figlio».
D’altronde anche gli autori antichi erano convinti che lo gnosticismo fosse un fenomeno eminentemente cristiano [10]. Ed è proprio Ireneo di Lione a ricordarci questa visione che gli gnostici sostenevano di un Dio che ha relazioni ed emanazioni in se stesso, quando parla dell’Ogdoade, cioè dei primi otto “eoni”, delle prime otto “entità” presenti in Dio:
«[Gli gnostici discepoli di Tolomeo] insegnano che Giovanni, il discepolo del Signore, ha rivelato la prima Ogdoade, dicendo così: “Giovanni il discepolo del Signore, volendo esporre l’origine di tutte le cose, secondo la quale il Padre ha emanato tutto, pone come principio ciò che per prima cosa è stato generato da Dio, che ha chiamato anche Figlio, Unigenito e Dio, e in lui il Padre ha emanato seminalmente tutte le cose. Da questo è stato emanato il Logos e in lui tutta la sostanza degli Eoni, che successivamente il Logos ha formato. Poiché parla della prima generazione, bene fa iniziare l’insegnamento dal principio, cioè dal Figlio e dal Logos”.
Così dice:“Nel principio era il Logos e il Logos era presso Dio e il Logos era Dio. Questo era in principio presso Dio”. Prima distingue i tre, Dio, il Principio e il Logos, e poi li unisce, per far vedere l’emanazione di ognuno di loro, del Figlio e del Logos, e la loro unione reciproca e col Padre. Infatti il Principio è nel Padre e deriva dal Padre». (Contro le eresie, I,8,5).
Si vede già qui che la trama della riflessione è il vangelo di Giovanni, ma esso diviene l’occasione per delle speculazioni non aderenti al testo evangelico, perché il Principio diviene un “eone” differente, al quale seguiranno gli altri fino al numero di otto. Ireneo risponde alla tesi dell’Ogdoade, mostrando come gli gnostici giochino sui nomi e dimentichino l’unico Figlio, amato dal Padre, che con il Padre ha creato il mondo e che si è fatto carne:
«È dunque chiara la falsità dell'esposizione. Giovanni annuncia un solo Dio onnipotente e un solo Unigenito Gesù Cristo, per mezzo del quale dice che sono state fatte tutte le cose, ed afferma che questo stesso è il Figlio di Dio, l'Unigenito, il creatore di tutte le cose, la Luce vera che illumina ogni uomo, il creatore del mondo, colui che è venuto nel suo regno, che questo stesso si è fatto carne ed ha abitato fra noi; questi, invece, stravolgendo la esposizione secondo il loro pensiero, sostengono che per emanazione uno è l'Unigenito, che chiamano anche Principio, un altro è il Salvatore, un altro il Logos Figlio dell'Unigenito, un altro il Cristo emesso per la restaurazione del Pleroma. Distaccando dalla verità ciascuna delle cose dette e abusando dei nomi, le trasferiscono nel loro sistema, cosi che, a loro giudizio, in queste parole Giovanni non farebbe menzione del Signore Gesù Cristo. Se avesse detto Padre, Grazia, Unigenito, Verità, Logos, Vita, Uomo e Chiesa, secondo il loro sistema avrebbe parlato della prima Ogdoade, nella quale non c'è ancora Gesù e non c'è ancora Cristo, il maestro di Giovanni. Ora che l'Apostolo non ha parlato delle loro sizigie, ma del Signore nostro Gesù Cristo, che riconosce come Logos di Dio, lo ha detto chiaramente egli stesso. Riprendendo infatti quello che di lui aveva detto in principio, aggiunge: “Il Logos si fece carne ed abitò tra noi”. Eppure secondo il loro sistema non si è fatto carne il Logos, che non è neppure mai uscito dal Pleroma, ma il Salvatore derivato da tutti gli Eoni e dall'economia, venuto all'esistenza dopo il Logos» (Contro le eresie, I,9,2).
Valentino, così come gli altri gnostici, sostenevano che il Pleroma, cioè la “pienezza” di Dio, era articolato in se stesso. Nei suoi discepoli queste entità, gli “eoni”, divenivano 30 ed erano abbinate a coppie, dette “sizigie”; nelle forme di gnosi più complesse ed elaborate, ricorda Ireneo, arrivarono fino a 365 [11]:
«Dal terzo cielo, discendendo a mano a mano, è derivato il quarto; e cosi via allo stesso modo sono stati creati altri arconti, altri angeli e cieli in numero di trecentosessantacinque. Perciò l'anno ha tanti giorni quanti sono i cieli» (Contro le eresie, I,24,3).
Come Marcione era colpito dall’assoluta novità del vangelo, così gli gnostici erano così attratti da questa presenza di relazioni in Dio che ne moltiplicavano il numero, mettendo in ombra la relazione Padre-Figlio e l’amore nello Spirito che li unisce.
5/ Lo gnosticismo rifiuta l’importanza della creazione e della storia
Lo gnosticismo si caratterizzò poi per una visione del mondo nel quale, come in Marcione, la creazione non era opera di Dio stesso, ma gli era contrapposta, traendo origine da un peccato avvenuto all’interno del mondo divino. La creazione non era così opera libera ed amata di Dio, ma qualcosa che aveva avuto origine ad un livello inferiore del principio primo: responsabile ne era il Demiurgo che, a sua volta, si era generato da un “eone” decaduto in un processo di allontanamento da Dio.
Così Lettieri sintetizza la dottrina sulla creazione presente nei diversi sistemi gnostici:
«Questo demiurgo è il creatore del mondo ed è il Dio d’Israele. Egli crea il mondo materiale. Ecco allora il dualismo, tipico dello gnosticismo. A differenza del Dio trinitario c’è qui una realtà divina superiore ed una realtà divina inferiore, che crea e promulga la legge veterotestamentaria o filosofica» [12].
Questa dottrina sulla creazione ha delle conseguenze sulla visione dell’uomo tipica dello gnosticismo: solo la parte spirituale dell’uomo viene dal Dio “superiore”, ma essa non è stata creata dal pleroma come esterna a sé, bensì è parte della divinità, del pleroma stesso, è scintilla divina caduta nella materia che è stata, invece, “creata” dal Demiurgo. Afferma ancora il prof. Lettieri:
«Ci sono poi due nature nel mondo creato, una psichica ed una materiale, oltre a quella divina. Una parte del divino cade nel mondo inferiore. Il problema dello gnosticismo è quello del ritorno del divino caduto nel pleroma divino stesso. Solo gli uomini spirituali torneranno in questo pleroma divino».
Questa caduta all’interno del mondo creato dal Demiurgo avviene a causa di un “eone” estremamente importante nei diversi sistemi gnostici che è chiamato “sophia” (cioè “sapienza” che, si noti bene, è uno dei nomi che riceve Cristo, nella tradizione cristiana, a partire da una rilettura cristologica dell’AT). Nella “sophia”, che è celeste, avviene un peccato che origina il mondo. Lettieri afferma giustamente che è questo che i cristiani del II secolo «considereranno mostruoso nello gnosticismo, avere spinto a tal punto l’introduzione nella divinità dell’umano dall’aver attribuito al Dio di Gesù persino il peccato».
Corollario di queste affermazioni è che la venuta del Figlio non potrà che essere apparente e non reale. Egli non assumerà realmente la carne, perché essa è opera del demiurgo: la sua discesa servirà a riportare in Dio quella parte del pleroma stesso che è stata imprigionata nella materia e nel corpo.
Ed ecco, allora, la grande differenza fra lo gnosticismo ed il cristianesimo, nelle parole di Lettieri: «La risposta gnostica è una risposta che noi potremmo davvero definire razionalistica: è una verità eterna, un mistero eterno ed abissale, un mistero nascosto nella profondità dell’essere che materialmente appare soltanto per riflessi, superficialmente; è un mistero che, in fin dei conti, prescinde dalla pesantezza, e vorrei dire anche dalla fatica, dal peso della carne della storia».
Questo perché non c’è, nei sistemi gnostici, un vero peccato commesso dall’uomo che abbia incrinato la creazione uscita dalle mani di Dio, così come afferma il cristianesimo. Il peccato, per lo gnosticismo, è avvenuto eternamente in Dio e non storicamente nell’uomo; allo stesso modo non c’è vera redenzione attraverso l’evento storico dell’incarnazione e della croce di Cristo, poiché il pleroma viene semplicemente a recuperare quella parte di sé che è caduta nella materia, ritrovando l’unità con se stesso. Il Salvatore celeste discende per recuperare Sophia nella sua caduta, ma, come è stato acutamente scritto, egli non viene a salvare qualcuno che ama, bensì è un Salvatore che viene a salvare se stesso.
Scrive a questo proposito Ireneo, mostrando come gli gnostici rifiutassero la realtà dell’incarnazione di Cristo:
«Il Padre ingenerato e innominato, vedendo la rovina di tutti costoro, ha mandato il suo primogenito, l'Intelletto - e questo è colui che è chiamato Cristo - per liberare quanti avrebbero creduto in lui dal potere degli angeli che avevano creato il mondo. Alle genti di costoro egli è apparso in terra come uomo ed ha compiuto prodigi. Perciò non ha patito lui; ma un certo Simone di Cirene, costretto, ha portato la croce di lui al suo posto: questo è stato crocifisso per ignoranza ed errore, in quanto Cristo lo aveva trasformato sicché si credesse che fosse lui Gesù. Gesù invece aveva assunto l'aspetto di Simone e stando lì vicino irrideva i crocifissori. Infatti egli era la Potenza incorporea e l'Intelletto del Padre ingenerato: perciò si è trasformato come voleva ed è asceso a colui che lo aveva mandato, prendendosi gioco di quelli, poiché non poteva esser preso ed era invisibile a tutti. Pertanto coloro che sanno queste cose sono stati liberati dagli arconti creatori del mondo. E non bisogna professare fede in quello che è stato crocifisso, ma in colui che è venuto in aspetto di uomo ed è stato creduto crocifisso, è stato chiamato Gesù ed è stato mandato dal Padre, per distruggere con tale disposizione le opere dei creatori del mondo. Se pertanto qualcuno professa fede nel crocifisso, questi è ancora servo e sotto il potere di quelli che hanno creato i corpi: invece chi lo avrà rinnegato, è libero dal potere di quelli e conosce la disposizione del Padre ingenerato.
Di costoro solo l'anima si salva: infatti il corpo è per natura soggetto a corruzione» (Contro le eresie, I,24,4-5).
6/ Le conseguenze dei sistemi gnostici
Da quanto detto consegue che, per gli gnostici, la storia di Israele sarà, in qualche modo, da disprezzare, perché originata dal Demiurgo creatore, originato a sua volta da un peccato avvenuto in Dio. La creazione stessa è un evento negativo, così come saranno da leggere in negativo tutte le vicende dei grandi personaggi dell’AT, perché fedeli al Dio creatore che è contrapposto al pleroma. Questo darà origine ad un caratteristico rovesciamento gnostico nella valutazione delle diverse figure veterotestamentarie: quelle esaltate nella tradizione ebraica saranno viste negativamente e viceversa (è lo stesso meccanismo che porterà alla riabilitazione di Giuda ed alla sconfessione gnostica degli altri alti apostoli).
Una seconda conseguenza dell’impostazione gnostica è che l’umanità sarà divisa in due grandi gruppi: quello di coloro nella cui carne alberga, sia pure come prigioniera del corpo, l’anima divina e quello di coloro che sono semplicemente creature del Demiurgo. Questa distinzione è determinata, nelle dottrine gnostiche, ab origine, “per natura”. Non è importante, cioè, la libertà dell’uomo: non è la libera scelta dell’uomo che lo porta ad allontanarsi da Dio o ad avvicinarsi a Lui, ma piuttosto alcuni uomini sono già destinati per la loro origine ad essere riassorbiti nel pleroma - quelli che vengono chiamati “gnostici” o “spirituali” – mentre altri a restare impantanati nella materia di cui fanno parte – quelli che gli gnostici chiamano uomini “psichici” o “ilici”, cioè “animati/carnali” per natura [13]. Solo le anime dei primi hanno la divinità che abita in loro, pur essendosi distaccati dal pleroma al momento della creazione del mondo e della materia.
Ed è per questo che la dottrina gnostica non veniva proposta a tutti ed in forma pubblica come via di salvezza, perché tale liberazione dal male era riservata ai soli “gnostici”, che venivano a configurarsi come una élite. La maggior parte degli uomini, infatti, a loro dire, non erano per natura in grado di comprendere la vera “gnosis”, non appartenendo al pleroma divino. Nello gnosticismo del II secolo scompariva così quell’aspetto tipico del cristianesimo che è la buona novella per tutti, anche e sopratutto per i piccoli ed i poveri.
Voglio concludere richiamando ancora ciò che è stato detto all’inizio: le dottrine gnostiche, pur nella loro inaccettabilità, traggono origine dalla novità cristiana. La fede cristiana nell’esistenza di un Figlio in Dio e la centralità del dono del suo Spirito nel cammino di salvezza dell’uomo attraggono gli gnostici del II secolo che, però, riprendono questi temi in un contesto nel quale questi elementi non possono che risultare, alla fine, compromessi e sfigurati.
Afferma ancora Lettieri:
«Lo gnosticismo, insomma, nella sua forma così paradossale, ha la grande capacità di cogliere alcune questioni nodali della storia del cristianesimo primitivo. Prima questione: Chi è Gesù?
La risposta gnostica è chiara: È Dio. [...]
Qual è il vangelo decisivo per gli gnostici? Giovanni.Insomma, la questione gnostica è ben più affascinante delle storielle. Siamo ad un passaggio nel quale la teologia è costretta ad affrontare questioni nodali».
E le affermazioni gnostiche non sono solo tesi del passato – prosegue Lettieri - ma si ripresentano ancora oggi:
«È ricorrente la tentazione gnostica. Si può sintetizzare nella pretesa di avere qualcosa di divino in noi, il senso di estraneità e di distacco e anche di superiorità nei confronti del mondo, il rifiuto della Chiesa cattolica come chiesa di psichici - dicevano gli gnostici - cioè come Chiesa di massa, mentre invece la vera religione, la vera gnosi, è conoscenza elitaria, di pochi, di eletti. [...] Questo è il pericolo concreto dello gnosticismo, la trasformazione della rivelazione cristiana, che la Chiesa media, in facile dottrina antropologica che esalta astrattamente l’uomo [facendo sì che] la salvezza sia identificata unicamente nell’intuizione della propria radice divina» e non avvenga più tramite l’evento storico dell’incontro con Cristo.
7/ Ireneo di Lione
Arriviamo ora al cuore di questo nostro incontro, alla figura di Ireneo di Lione, colui che affrontò intellettualmente le dottrine marcionite e gnostiche per dimostrarne l’inconsistenza. Ireneo era originario dell’Asia minore, nato nel 130/140 d.C. circa, e da giovane aveva ascoltato l’anziano Policarpo di Smirne, che aveva conosciuto dal vivo, come uno degli ultimi rappresentanti della generazione apostolica.
Verso il 177 Ireneo è a Lione, in Gallia, al momento della grande persecuzione che quella comunità dovette sopportare. Proprio la comunità lionese lo inviò a Roma come latore della Lettera dei martiri ed è in quella circostanza che risiedette a Roma per un certo tempo.
Tornato a Lione, divenne successore del vescovo Potino che era stato martirizzato. Durante il pontificato di Vittore (189-198), gli scrisse una lettera per esortarlo alla pazienza sulla questione della data della celebrazione della Pasqua. Questa lettera sua dovette così arrivare a Roma ed essere letta nell’urbe.
8/ L’Adversus haereses: «la vittoria contro le eresie consiste nel manifestare le loro dottrine»
Di Ireneo si è conservata integralmente l’opera più importante che si intitola Adversus haereses, cioè Contro le eresie, testo importantissimo per conoscere il suo pensiero e la storia del II secolo d.C.
Fin dalle prime battute dell’opera, Ireneo denuncia il fatto che le eresie di cui si occuperà non si contrappongono esplicitamente alla fede cristiana, ma cerchino di presentarsi, sebbene solo apparentemente, come conformi al vangelo; esse però, in realtà, intendono dichiarare superato il cristianesimo, proponendosi come dottrine di valore superiore [14]:
«Grazie ad una forza di persuasione ingegnosamente combinata sviano la mente dei meno esperti e li fanno prigionieri, falsificando i detti del Signore e diventando, così, cattivi interpreti di ciò che è stato detto bene; rovinano molti, allontanandoli, con il pretesto di una conoscenza, da colui che ha formato e ordinato questo universo, come se potessero mostrare qualcosa di più alto e più grande del Dio che ha fatto il cielo e la terra e tutto ciò che contengono; essi in maniera persuasiva, grazie all'arte della parola, inducono i semplici ad un atteggiamento di ricerca, ma li rovinano in maniera assurda perché rendono il loro pensiero blasfemo e assurdo nei confronti del Demiurgo, non potendo essi distinguere il falso dal vero» (I,1,1).
Si noti che Ireneo utilizza subito la parola “conoscenza”, gnosis per designare il tratto peculiare di queste dottrine: esse, nel II secolo, si proponevano di offrire una conoscenza più perfetta di quella proposta dalla fede della chiesa. Continua Ireneo:
«Infatti, l'errore non si mostra in se stesso per non essere colto in flagrante, una volta messo a nudo, ma adornandosi ingegnosamente di un rivestimento verosimile, sembra presentarsi agli inesperti - è ridicolo perfino dirlo - più vero della stessa verità, grazie all'apparenza esterna. Da uno più bravo di noi è stato detto, a proposito di questi tali, che il vetro divenendo simile ad essa per artificio, disprezza una pietra preziosa come lo smeraldo, che è molto stimata da alcuni, quando non ci sia chi sa valutarlo e smascherare l'artificio compiuto ingegnosamente. Quando, ad esempio, si mescola il bronzo con l'argento, chi potrà valutarlo facilmente, se è inesperto? Non vogliamo dunque che qualcuno per colpa nostra sia rapito, come pecore dai lupi, non riconoscendoli per l'insidia della pelle di pecora che li ricopre all'esterno: quei lupi dai quali il Signore ci ha annunciato di stare in guardia, perché dicono cose simili, ma pensano cose diverse» (I,1,2).
Alcuni maestri gnostici vantavano di aver ricevuto nascostamente le loro dottrine tramite un insegnamento che essi affermavano di aver ricevuto segretamente da alcuni apostoli ai quali era stato loro rivelato, a loro dire, in maniera nascosta da Gesù. Il primo lavoro che Ireneo si propone di fare è, allora, di portare alla luce queste dottrine che gli gnostici affermavano di aver ricevuto in segreto: una volta rese pubbliche, non potevano che emergerne gli evidenti limiti. Qui Ireneo è sarcastico:
«Dopo aver letto gli scritti dei discepoli di Valentino, come essi dicono, dopo avere incontrato alcuni di loro e averne compreso il pensiero, ho ritenuto necessario esporti, mio caro, i meravigliosi e profondi misteri, che non tutti comprendono - perché non tutti hanno purificato il cervello - affinché anche tu, dopo averli appresi, possa farli conoscere a tutti quelli che sono con te ed esortarli a stare in guardia dall'abisso dell'ignoranza e della bestemmia contro Dio. Per quanto ci sarà possibile, esporremo succintamente e chiaramente il pensiero di quelli che ora insegnano diversamente, voglio dire dei discepoli di Tolomeo, che sono la fioritura della scuola di Valentino, e daremo spunti, secondo la nostra pochezza, per confutarlo, dimostrando che quello che dicono è assurdo e discordante dalla verità, noi che non siamo abituati a scrivere e non siamo esercitati nell'arte della parola. L'amore però ci esorta a manifestare a te e a tutti quelli che sono con te le dottrine che finora sono rimaste nascoste, ma ormai per grazia di Dio sono venute alla luce, “poiché non c'è niente di nascosto che non debba essere rivelato, e nulla di segreto che non si debba sapere”» (I,1,2).
La conclusione del Libro I dell’Adversus Haereses così sintetizza il sapiente atteggiamento di Ireneo:
«La vittoria contro costoro consiste nella manifestazione delle loro dottrine» (I,31,3).
Ed ancora:
«Perciò abbiamo tentato di mostrare l'informe e misero corpo di questa subdola volpe, rendendolo manifesto. Infatti non ci sarà più bisogno di molti discorsi per demolire la loro dottrina, una volta resa manifesta a tutti. Quando una belva si nasconde in un bosco e di qui assalta e devasta, se si taglia e si sfronda la selva e si fa apparire la belva stessa, non si deve più faticare per catturarla, perché si vede che quella belva è una belva (si può scorgerla, ci si può guardare dai suoi assalti, si può prenderla di mira da ogni parte, ferirla ed ucciderla). Così anche noi, allorché avremo messo in luce i loro misteri occulti e segreti, non avremo più bisogno di demolire il loro sistema con molte argomentazioni» (I,31,4).
È evidente che solo l’ignoranza dei dati storici porta alcuni moderni ad affermare che la chiesa del tempo di Ireneo voleva tenere nascosta una qualche verità. La questione si presentava, invece, esattamente nei termini opposti, poiché erano i maestri gnostici ad affermare di possedere dottrine segrete e ritenevano il volgo non adatto a riceverle: Ireneo vuole, invece, che tutti conoscano liberamente le tesi gnostiche per poterle valutare apertamente.
9/ La Tradizione della chiesa è pubblica e deriva dagli apostoli
Ireneo passa poi ad affermare che la fede della chiesa non ha mai scelto vie nascoste o segrete, ma fin dal principio è stata pubblica. Il cristianesimo è stato predicato apertamente a tutti, nonostante il rischio ancora presente delle persecuzioni:
«La Tradizione degli apostoli, manifestata in tutto quanto il mondo, possono vederla in ogni Chiesa tutti coloro che vogliono vedere la Verità e noi possiamo enumerare i vescovi stabiliti dagli apostoli nelle Chiese e i loro successori fino a noi. Ora essi non hanno insegnato né conosciuto sciocchezze come quelle che insegnano costoro. Infatti, se gli apostoli avessero conosciuto misteri segreti, che avrebbero insegnato a parte e di nascosto ai perfetti, certamente prima di tutto li avrebbero trasmessi a coloro ai quali affidavano le Chiese stesse. Volevano infatti che fossero assolutamente perfetti e irreprensibili in tutto coloro che lasciavano come successori, trasmettendo loro la propria missione di insegnamento. Se essi avessero capito correttamente, ne avrebbero ricavato grande profitto; se invece fossero falliti, ne avrebbero ricavato un danno grandissimo» (III,3,1).
In questa maniera Ireneo è in grado di mostrare che ciò che la chiesa annunziava era conforme a ciò che gli apostoli avevano predicato. Non erano così i cristiani ad aver contraffatto la dottrina apostolica, ma erano gli gnostici a proporre dottrine nuove che, pur richiamandosi apparentemente alla tradizione di qualcuno degli apostoli, in realtà non avevano niente a che fare con essi.
In particolare, Ireneo propone l’esempio della chiesa di Roma, elencando la successione apostolica dei vescovi dell’urbe che avevano sempre dichiarato pubblicamente e a rischio della vita la fede ricevuta. Chi è in comunione con il vescovo di Roma ha così la garanzia di professare la stessa fede annunciata dagli apostoli Pietro e Paolo, poiché una ininterrotta e pubblica tradizione apostolica lega l’ultimo anello della catena al primo:
«Poiché sarebbe troppo lungo in quest'opera enumerare le successioni di tutte le Chiese, prenderemo la Chiesa grandissima e antichissima e a tutti nota, la Chiesa fondata e stabilita a Roma dai due gloriosissimi apostoli Pietro e Paolo. Mostrando la Tradizione ricevuta dagli Apostoli e la fede annunciata agli uomini che giunge fino a noi attraverso le successioni dei vescovi confondiamo tutti coloro che in qualunque modo, o per infatuazione o per vanagloria o per cecità e per errore di pensiero, si riuniscono oltre quello che è giusto. Infatti con questa Chiesa, in ragione della sua origine più eccellente, deve necessariamente essere d'accordo ogni Chiesa, cioè i fedeli che vengono da ogni parte - essa nella quale per tutti gli uomini sempre è stata conservata la Tradizione che viene dagli Apostoli» (III,3,2).
S. Ireneo elenca tutti coloro che sono stati vescovi di Roma dalle origini ad Eleutero [15], il pontefice in carica al tempo della redazione dell’Adversus Haereses, ma dichiara anche che la successione episcopale delle altre chiese manifesta parimenti l’unità della fede e l’origine di essa negli immediati discepoli del Signore. Ireneo fa riferimento, in particolare, alla chiesa di Smirne, dove egli aveva personalmente conosciuto Policarpo prima che fosse martirizzato; attraverso di lui era venuto in contatto diretto con la generazione che aveva udito i discepoli del Signore [16]. Il brano ci testimonia, fra l’altro, che anche Policarpo di Smirne era venuto a Roma, ai tempi di papa Aniceto.
Ireneo spiega che esistono certamente le Scritture come punto di riferimento a conferma della verità della fede, ma che anche la trasmissione orale della fede ha un ruolo molto importante:
«Tali essendo dunque le prove, non si deve cercare presso altri la Verità, che è facile prendere dalla Chiesa, poiché gli apostoli ammassarono in lei, come in un ricco tesoro, nella maniera più piena tutto ciò che riguarda la Verità, affinché chiunque vuole prenda da lei la bevanda della Vita. Perché è lei l'ingresso della vita, mentre “tutti” gli altri “sono ladri e predatori”. Perciò si devono rifiutare quelli e amare con grandissimo zelo ciò che appartiene alla Chiesa ed afferrare la Tradizione della Verità. E che? Se ci fosse qualche controversia su una questione di poca importanza, non si dovrebbe ricorrere alle Chiese più antiche, nelle quali vissero gli apostoli, e prendere la dottrina esatta sulla questione presente? Anche se gli apostoli non ci avessero lasciato le Scritture, non si dovrebbe seguire l'ordine della Tradizione, che hanno trasmesso a coloro a cui affidavano le Chiese?» (III,4,1).
Ireneo sottolinea che la diffusione dello stesso in tutti i luoghi, anche fra i popoli barbari, è un ulteriore attestazione dell’autenticità dell’unica fede:
«A quest'ordine obbediscono molti popoli barbari che hanno creduto in Cristo e possiedono la salvezza, scritta senza carta e inchiostro nei loro cuori mediante lo Spirito e custodiscono scrupolosamente l'antica Tradizione: essi credono in un solo Dio, Creatore del cielo e della terra e di tutto ciò che è in essi, e in Cristo Gesù, il Figlio di Dio che, a causa del suo sovrabbondante amore verso la sua creatura, accettò la generazione dalla Vergine, unì egli stesso mediante se stesso l'uomo a Dio, patì sotto Ponzio Pilato e fu risvegliato e fu elevato nella gloria, verrà nella gloria come Salvatore di coloro che saranno salvati e getterà nel fuoco eterno gli sfiguratori della verità, e i disprezzatori del Padre suo e della sua venuta. Coloro che senza lettere hanno abbracciato questa fede sono sì barbari per quanto riguarda la lingua, ma per quanto riguarda il pensiero, il costume e il modo di vivere sono sapientissimi in virtù della fede e piacciono a Dio vivendo in ogni giustizia, purezza e sapienza. Se si annunciassero loro le dottrine inventate dagli eretici, parlando nella lingua loro propria, subito tappandosi le orecchie fuggirebbero via e lontano, rifiutandosi di ascoltare quel discorso blasfemo. Così, grazie a quell'antica Tradizione degli apostoli, non accettano neppure nel pensiero alcuna loro falsa dottrina» (III,4,2).
Le eresie, invece, sono “recenti” e non possono vantare alcun legame con il NT e gli apostoli. Le dottrine di Marcione e degli gnostici – afferma Ireneo - non posseggono alcun solido raccordo con le origini cristiane:
«Prima di Valentino non c'erano i discepoli di Valentino, prima di Marcione non c'erano i discepoli di Marcione e non c'erano affatto altri sostenitori di false opinioni che abbiamo elencato sopra, prima che esistessero i mistagoghi e gli inventori della loro perversità. Valentino, infatti, venne a Roma sotto Igino, raggiunse la sua massima fama sotto Pio e ci rimase fino ad Aniceto. Cerdone, il predecessore di Marcione, visse anch'egli sotto Igino, che era l'ottavo vescovo; dopo essere venuto nella Chiesa e aver fatto pubblica penitenza, continuò così, ora insegnando di nascosto, ora facendo di nuovo pubblica penitenza, ora essendo denunciato per i cattivi insegnamenti che dava ed essendo allontanato dalla comunità dei fratelli. Marcione, che fu suo successore, raggiunse la massima fama sotto Aniceto, che teneva il decimo posto nell'episcopato. Tutti gli altri, che sono denominati gnostici, hanno avuto origine da Menandro, discepolo di Simone, come abbiamo indicato, e ciascuno di loro apparve come padre e mistagogo dell'opinione che adottò. Tutti questi, invece, si sono levati nella loro apostasia molto più tardi, quando i tempi della Chiesa erano già a metà del loro corso» (III,4,3).
L’insistenza sull’unità e sull’antichità della fede della chiesa è affermata con molta forza da Ireneo:
«In realtà, la Chiesa, sebbene diffusa in tutto il mondo fino alle estremità della terra, avendo ricevuto dagli Apostoli e dai loro discepoli la fede [...], conserva questa predicazione e questa fede con cura e, come se abitasse un'unica casa, vi crede in uno stesso identico modo, come se avesse una sola anima ed un cuore solo, e predica le verità della fede, le insegna e le trasmette con voce unanime, come se avesse una sola bocca» (I,10,1-2).
E ancora:
«Infatti, se le lingue nel mondo sono varie, il contenuto della Tradizione è però unico e identico. E non hanno altra fede o altra Tradizione né le Chiese che sono in Germania, né quelle che sono in Spagna, né quelle che sono presso i Celti (in Gallia), né quelle dell'Oriente, dell'Egitto, della Libia, né quelle che sono al centro del mondo» (I,10,1-2).
E ancora:
«Il messaggio della Chiesa è dunque veridico e solido, poiché essa addita a tutto il mondo una sola via di salvezza» (V,20,1).
Ma, allo stesso tempo, Ireneo tende a sottolineare che questa fedeltà all’origine non diviene un peso che impedisce al vangelo di essere sempre attuale, perché lo Spirito, con la sua presenza attiva, rinnova continuamente la chiesa:
«Conserviamo con cura questa fede che abbiamo ricevuto dalla Chiesa, perché, sotto l'azione dello Spirito di Dio, essa, come un deposito di grande valore, chiuso in un vaso prezioso, continuamente ringiovanisce e fa ringiovanire anche il vaso che la contiene» (III, 24, 1).
10/ I quattro vangeli ed il Credo
Ireneo ci testimonia inoltre che già alla metà del II secolo non vi era alcun dubbio nelle chiese che i vangeli riconosciuti da tutti erano i quattro libri di Mt, Mc, Lc e Gv:
«Del resto i Vangeli non possono essere né più né meno di questi. Infatti poiché sono quattro le regioni del mondo, nel quale siamo, e quattro i venti diffusi su tutta la terra e la Chiesa è disseminata su tutta la terra, e colonna e sostegno della Chiesa è il Vangelo e lo Spirito di vita, è naturale che essa abbia quattro colonne, che soffiano da tutte le parti l'incorruttibilità e vivificano gli uomini. Perciò è chiaro che il Verbo Artefice dell'universo, che siede sopra i Cherubini e sostiene tutte le cose, dopo essersi mostrato agli uomini, ci ha dato un Vangelo quadriforme, ma sostenuto da un unico Spirito. Come appunto David, domandando la sua venuta, dice: “Tu che siedi sopra i Cherubini mostrati”. Infatti i Cherubini hanno quattro aspetti e i loro aspetti sono immagini dell'attività del Figlio di Dio. “Il primo vivente - dice - è simile al leone” e rappresenta la potenza, la eccellenza e la regalità di lui; “il secondo è simile al vitello” e significa la funzione sacrificale e sacerdotale; “il terzo ha un volto come di uomo” e descrive chiaramente la sua venuta secondo l'uomo; “il quarto è simile ad un'aquila che vola” e indica il dono dello Spirito che vola sulla Chiesa. Ora i Vangeli sui quali siede Cristo Gesù sono in accordo con questi animali» (III,11,8).
Ireneo è così il primo, stando alla documentazione superstite, a proporre un parallelo fra i quattro vangeli ed i quattro “esseri viventi” dell’Apocalisse che rimandano, a loro volta, al primo capitolo di Ezechiele [17].
A fianco della Scrittura e della viva tradizione della chiesa, Ireneo propone anche la centralità della “regola della fede”, cioè del Credo, come punto di riferimento per tutti i credenti:
«Noi teniamo salda la regola della Verità, che c'è un solo Dio onnipotente, che per mezzo del suo Verbo ha fondato, ordinato e creato dal nulla tutte le cose, perché tutte le cose esistessero, come dice la Scrittura: “Con il Verbo del Signore furono stabiliti i cieli e con lo Spirito della sua bocca ogni loro potenza”; e ancora: “Tutte le cose sono state fatte per mezzo di lui, e senza di lui niente è stato fatto”. Ora dicendo “tutte le cose”, non se ne esclude nessuna, ma per mezzo di lui il Padre ha fatto tutte le cose: quelle visibili come quelle invisibili, quelle che si percepiscono con i sensi come quelle che si conoscono con l'intelletto, le temporali in base a qualche economia come le eterne. Non le ha create per mezzo di angeli né di alcune potenze staccatesi dal suo Pensiero, perché il Dio di tutte le cose non ha bisogno di nulla, ma per mezzo del Verbo e del suo Spirito crea, dispone, governa e dà a tutte le cose l'esistenza. Egli è colui che ha creato il mondo, che comprende tutte le cose; egli è colui che ha plasmato l'uomo, è il Dio di Abramo, il Dio di Isacco, il Dio di Giacobbe, al di sopra del quale non ve n'è un altro, né il Principio, né la Potenza, né il Pleroma; egli è il Padre del Signore nostro Gesù Cristo, come dimostreremo. Tenendo salda questa regola, anche se presentano insegnamenti molto numerosi e diversi, è facile per noi dimostrare che si sono allontanati dalla Verità. Infatti, quasi tutte le eresie che esistono dicono bensì che Dio è uno solo, ma con la loro errata concezione ne cambiano la natura, mostrandosi così ingrati nei confronti di colui che li ha creati, come lo sono le nazioni con la loro idolatria. Essi disprezzano l'opera plasmata da Dio e compromettono la propria salvezza, essendo severissimi accusatori di se stessi e falsi testimoni. Essi risusciteranno bensì nella carne, sebbene non lo vogliano, per conoscere la potenza di colui che li risusciterà dai morti, ma non saranno annoverati con i giusti per la loro incredulità» (I,22,1).
11/ La creazione come opera di Dio e la conseguente visione dell’uomo
Ireneo difende contro Marcione e contro lo gnosticismo l’unità delle Scritture ed afferma con grande forza che l’unico Dio Padre è anche il creatore: non c’è alcun Demiurgo o divinità inferiore, oltre all’unico Dio:
«Tutti questi [autori], pur provenendo da luoghi diversi ed insegnando dottrine diverse, convergono alla medesima posizione blasfema: feriscono mortalmente insegnando a bestemmiare contro Dio che ci ha creati e ci nutre e a non credere alla salvezza dell'uomo. L'uomo è, infatti, una mescolanza di anima e di carne modellata ad immagine di Dio e plasmata dalle mani di Dio, cioè dal Figlio e dallo Spirito, ai quali disse: “Facciamo l'uomo”. Questo è dunque il progetto di colui che ha invidia della nostra vita: rendere gli uomini increduli circa la propria salvezza e blasfemi contro Dio che li ha plasmati. Qualunque cosa dicano con solennità, tutti gli eretici arrivano in fin dei conti a questo: a bestemmiare contro il Creatore e ad opporsi alla salvezza della creatura di Dio, che è la carne, per la quale, come abbiamo dimostrato in molti modi, il Figlio di Dio ha compiuto tutta la sua economia. Abbiamo chiarito anche che le Scritture non hanno chiamato Dio nessun altro all'infuori del Padre di tutte le cose, il Figlio e tutti quelli che hanno l'adozione filiale» (IV, prefazione,4).
I diversi sistemi gnostici ritenevano, come abbiamo visto, che non Dio, ma una sua emanazione degradata avesse prodotto il mondo:
«È, dicono, il Protoarconte, l'artefice di questo mondo. Questi, raccontano, prese una grande potenza dalla madre, se ne andò lontano da lei nelle regioni inferiori e fece il firmamento del cielo, nel quale dicono che abita. Essendo l'Ignoranza, fece le potenze che sono sotto di lui, gli angeli, i firmamenti e tutte le cose terrene. Poi, dicono, si unì alla Audacia e generò Cattiveria, Gelosia, Invidia, Vendetta e Desiderio. Dopo che furono generati questi, la Sapienza, rattristata, fuggì, si ritirò nelle regioni superiori ed è l'Ogdoade per chi la conta dal basso. Dunque, quando essa si fu ritirata, egli pensava di essere solo, e perciò disse: “Io sono un Dio geloso, e non c'è nessuno all'infuori di me”. Queste le menzogne che costoro vanno raccontando» (I, 29, 4).
Si noti qui il rovesciamento del testo di Genesi e della fede del Simbolo, quando il Protoarconte afferma che c’è un solo Dio: «Io sono un Dio geloso, e non c'è nessuno all'infuori di me». Ma è proprio questa unicità di Dio che lo gnosticismo del II secolo rifiuta, poiché oltre al Protoarconte/Demiurgo c’è il pleroma, il vero Dio, con le sue otto emanazioni dell’Ogdoade. È il Demiurgo, spinto da gelosia verso il pleroma, ad affermare che c’è un solo Dio creatore, cioè se stesso, mentre in realtà, per gli gnostici, esiste un altro Dio superiore al creatore. La fede degli ignoranti aderisce alle parole del Protoarconte, asserendo l’esistenza di un solo Dio, mentre per “coloro che hanno la conoscenza” la fede si rivolge alla complessità relazionale del pleroma.
Questo comportava, come si è già accennato, un completo rovesciamento dell’AT ed, in fondo, un vero e proprio antigiudaismo gnostico, poiché il popolo ebraico aveva venerato il creatore, cioè una divinità inferiore, e non l’Ogdoade.
Ireneo conosceva pure un Vangelo di Giuda - probabilmente lo stesso testo recentemente riscoperto - e lo collocava giustamente nella sua vera prospettiva di testo contrario alla bontà della creazione e della materia. Tale vangelo apocrifo appartiene, infatti, al filone che sarà detto “cainita”, caratterizzato da un orizzonte ideologico volto a sostenere che è Caino il vero giusto, mentre Abele è l’uomo “ilico”, “carnale”. Caino, secondo questa corrente gnostica, avendo compreso che la carne è un male, uccide il fratello Abele proprio perché lo ama, aiutandolo così a sbarazzarsi finalmente del peso della carne. Allo stesso modo Giuda, secondo l’omonimo vangelo, aiuterà Gesù ad uscire dalla materia, tradendolo e permettendo così la sua morte vista come liberazione dalla prigione materiale del corpo. Afferma Ireneo:
«Altri ancora dicono che Caino deriva dal Principato superiore, e confessano che Esaù, Core e i Sodomiti e tutti i loro simili sono loro parenti; e per questo sono stati combattuti dal creatore, ma nessuno di loro è male accetto, perché la Sapienza strappava da loro per portarlo a sé ciò che c'era di suo proprio. Dicono che Giuda conobbe accuratamente queste cose e proprio perché egli solo conosceva la verità più degli altri, compì il mistero del tradimento. Per mezzo di lui dicono che si sono dissolte tutte le cose terrestri e celesti. Presentano tale invenzione chiamandola il Vangelo di Giuda» (I,31,1).
Anche nell’Esposizione della predicazione apostolica, Ireneo ribadisce, contro Marcione e contro gli gnostici, gli stessi concetti:
«Nessuno pensi che vi sia un altro Dio Padre diverso dal nostro Creatore, come immaginano gli eretici, che disprezzano il Dio vero e del dio falso ne fanno un idolo, si creano un padre al di sopra del nostro Creatore e ritengono di avere scoperto qualche cosa più grande della verità. In realtà tutti questi sono empi e bestemmiano il loro Creatore e Padre, come abbiamo dimostrato nella “Esposizione e Confutazione della falsa Gnosi”. Altri ancora disprezzano la venuta del Figlio di Dio e l'economia della sua incarnazione trasmessa dagli apostoli e predetta dai profeti per la restaurazione dell'umanità, come ti abbiamo in breve dimostrato. Anche queste persone vanno contate tra gli increduli. Altri ancora non ammettono i doni dello Spirito santo e respingono il carisma profetico, imbevuto del quale l'uomo produce come frutto la vita divina. Di questi dice Isaia: “Saranno come terebinto senza foglie e come un giardino senza acqua”. Questi tali non sono di alcuna utilità a Dio, perché non producono frutti.
Rispetto ai tre articoli del nostro sigillo, l'errore ha causato molte divagazioni lontane dalla verità. Perciò o disprezzano il Padre, o non accolgono il Figlio parlando contro l’economia della sua incarnazione, o rifiutano lo Spirito, cioè rigettano la profezia. Da tutta questa gente dobbiamo guardarci, evitare le loro vie, se realmente vogliamo piacere a Dio e ottenere la salvezza» (99-100).
Dalla visione unitaria che Ireneo ha di Dio, della sua creazione e della storia di salvezza, scaturiscono le famose affermazioni dell’Adversus haereses sulla dignità e la grandezza dell’uomo. Proprio nella sua unità di corpo e anima l’uomo è gloria di Dio ed ha come destino l’incontro con la manifestazione divina in Cristo e la visione beatifica di Dio:
«Dunque, il Figlio è rivelatore del Padre fin dall'inizio, perché è con il Padre fin dall'inizio ed ha mostrato al genere umano, nel tempo giusto e per il suo vantaggio, le visioni profetiche, le diversità dei doni, i suoi ministeri e la glorificazione del Padre, alla maniera di una melodia ben composta e armoniosa. Dove c'è composizione, lì c'è melodia; dove c'è melodia, lì c'è tempo giusto; dove c'è tempo giusto, lì c'è vantaggio. Perciò il Verbo divenne dispensatore della grazia paterna a vantaggio degli uomini, per i quali ha stabilito così grandi economie, mostrando Dio agli uomini e presentando l'uomo a Dio: salvaguardando l'invisibilità del Padre affinché l'uomo non divenisse disprezzatore di Dio e avesse sempre un punto verso il quale progredire, ma nello stesso tempo mostrando Dio visibile agli uomini per mezzo delle molte economie, affinché l'uomo, privo totalmente di Dio, non cessasse di esistere. Infatti la gloria di Dio è l'uomo vivente e la vita dell'uomo è la visione di Dio. Ora se la manifestazione di Dio che avviene attraverso la creazione dà la vita a tutti gli esseri che vivono sulla terra, molto più la manifestazione del Padre mediante il Verbo dà la vita a coloro che vedono Dio» (IV,20,7).
In un’altra espressione straordinaria, Ireneo spiega allora, contro gli gnostici, che cosa vuol dire “spirituale” nella fede cristiana:
«Gli uomini sono spirituali grazie alla partecipazione dello Spirito, ma non grazie alla privazione ed eliminazione della carne» (V,6,1).
12/ La comunione della chiesa nelle legittime diversità: la questione della datazione della Pasqua
Merita un accenno un ulteriore problema affrontato da Ireneo, la questione della datazione della Pasqua; egli scrisse una lettera a Roma in proposito. A quei tempi si discuteva – e si continuò a discutere a lungo ed, in forme diverse, la discussione è ancora aperta – sulla scelta della data nella quale festeggiare la Pasqua. Le chiese dell’Asia minore si erano mantenute, in questo, fedeli alla tradizione ebraica e la celebravano il 14 del mese di Nisan (coloro che sostenevano questa datazione vengono oggi chiamati dagli studiosi “quartodecimani”); a Roma ed in molte altre chiese, invece, la celebrazione era fissata con un nuovo calendario che la poneva in giorno di domenica.
Ireneo scrisse a papa Vittore (189-198) invitandolo a considerare che, se pure l’usanza della celebrazione della Pasqua in giorno di domenica era certamente la scelta migliore, non per questo bisogna rompere la comunione con chi la celebrava secondo il calendario ebraico.
È lo storico Eusebio di Cesarea ad aver conservato il testo in questione:
«Anche Ireneo inviò una lettera a nome dei fratelli della Gallia, di cui era a capo. È d'accordo che il mistero della risurrezione del Signore si deve celebrare solo nel giorno della domenica, ma poi esorta a lungo Vittore con riguardo a non scomunicare intere chiese di Dio che osservano la tradizione di un'antica usanza. E aggiunge quanto segue con queste precise parole:
“La discussione, infatti, non riguarda soltanto il giorno, ma anche la stessa forma del digiuno: alcuni pensano di dover digiunare un solo giorno, altri due, altri anche di più; altri misurano il loro giorno in quaranta ore diurne e notturne. E tale varietà di osservanze non si è verificata ora nel nostro tempo, ma risale molto addietro, al tempo dei nostri antenati. Essi hanno praticato una osservanza, a quanto sembra, inesatta. Hanno trasmesso ai posteri questa consuetudine nella sua semplicità e nella sua particolarità. Pur tuttavia tutti costoro rimasero in pace e noi siamo in pace gli uni con gli altri e la discordanza del digiuno conferma la concordia della fede”.
A questo aggiunge un racconto che sarà utile riferire. È di questo tenore:
“Tra loro anche i presbiteri anteriori a Sotere, i quali furono a capo della chiesa che ora guidi tu - intendo dire Aniceto, Pio, Igino, Telesforo e Sisto - neppure loro osservarono quel giorno, né lo permettevano a quelli che erano con loro. Pur tuttavia essi stessi, sebbene non osservassero quella data, erano in pace con coloro che venivano dalle chiese dove la si osservava, quando venivano da loro. E certamente l'osservanza di quella data era molto odiosa per coloro che non la osservavano.
Eppure nessuno fu mai rifiutato per questo modo di fare, ma gli stessi presbiteri tuoi predecessori che non osservavano quella data mandavano l'Eucaristia ai cristiani che la osservavano.
Quando, il beato Policarpo venne a Roma, al tempo di Aniceto, sebbene avessero tra loro qualche piccolo contrasto su alcune altre cose, subito fecero la pace e su questo argomento non ebbero alcuna contesa. Né Aniceto poté persuadere Policarpo a non osservare la data, poiché aveva osservato quella data con Giovanni, il discepolo del Signore, e gli altri apostoli con i quali aveva vissuto; né Policarpo persuase ad osservarla Aniceto, il quale diceva di dover mantenere la consuetudine dei presbiteri suoi predecessori.
E pur stando così le cose, furono in comunione tra loro e nella chiesa Aniceto cedette l'Eucaristia a Policarpo, evidentemente come segno di deferenza, e si separarono in pace. Tutta la chiesa era in pace, sia coloro che osservavano quella data sia coloro che non la osservavano”» (Eusebio di Cesarea, Storia ecclesiastica, V,24,11-17).
13/ Visita della basilica di S. Pietro in Montorio: la facciata
Veniamo ora alla nostra visita. La cominciamo dall’esterno della chiesa. Ci troviamo nella piazza che fu ribassato nel 1605, per volontà del re di Spagna Filippo III; si vede, infatti, alla base della scalinata, l’iscrizione che lo ricorda.
La chiesa ebbe un legame strettissimo con la Spagna fin dal 1472, quando il papa francescano Sisto IV concesse il convento al suo confessore spagnolo Amedeo da Silva.
Nel 1480 furono eseguiti grandi lavori di ristrutturazione, sovvenzionati da Ferdinando II di Aragona ed Isabella di Castiglia. È visibile pressoché ovunque il loro stemma che rappresenta la Spagna unificata: i due castelli ed i due leoni incrociati che si ripetono due volte rappresentano la Castiglia e León, mentre i quattro pali rossi su campo d’oro rappresentano l’Aragona con a fianco l’aquila bicipite che rappresenta il regno di Sicilia; il melograno rappresenta invece il regno di Granada, appena riconquistato ai musulmani. In alto si vede l’aquila che, oltre ad essere simbolo di potere, ricorda che Isabella fu incoronata nel giorno della festa dell’apostolo Giovanni che ha proprio l’aquila come simbolo iconografico.
La ricostruzione della chiesa fu affidata dai reali di Spagna ad un architetto rinascimentale, forse Baccio Pontelli; fu terminata nel 1500 e consacrata da papa Alessandro VI Borgia. La facciata potrebbe essere della scuola di Andrea Bregno.
14/ Gli affreschi di Sebastiano Del Piombo nella cappella Borgherini
All’interno troviamo, nella prima cappella a destra, gli straordinari affreschi (1521-1524) di Sebastiano Del Piombo, su disegni che risalgono, in parte, a Michelangelo. La cappella aveva come mecenate il ricco banchiere fiorentino Pierfrancesco Borgherini, che era anche il banchiere personale di Michelangelo.
Egli commissionò l’opera al più grande dei discepoli di Michelangelo, sapendo che il maestro sarebbe intervenuto nell’opera. I due santi al lato della Flagellazione sono S. Pietro e S. Francesco dei quali il banchiere committente portava il nome.
Il pittore che realizzò l’opera fu amico di Michelangelo prima di giungere a rompere con lui; era soprannominato “del piombo” perché ottenne l’incarico di bollare i diplomi pontifici con il sigillo di piombo.
La composizione degli affreschi è unitaria: la centralità del Cristo flagellato, in basso, rimanda alla centralità del Cristo trasfigurato, in alto. Proprio l’episodio evangelico della Trasfigurazione annunzia la presenza divina nel mistero di sofferenza della passione di Cristo che si compirà a Gerusalemme. La flagellazione affrescata da Sebastiano Del Piombo è spazialmente ambientata e presenta un bellissimo Cristo di fatture classiche-apollinee, con i suoi aguzzini che vengono invece ritratti con visi e corpi volutamente deformi. Il Cristo è nella luce, anche se il suo chiarore è circondato dalle tenebre.
La Trasfigurazione di Raffaello, che fra l’altro proprio in questa chiesa venne collocata per un certo tempo, venne dipinta nel 1520, poco prima che Del Piombo ponesse mano a questa cappella. L’opera del maestro di Urbino affronta lo stesso tema della cappella di S. Pietro in Montorio, quello della luce divina del Cristo che si contrappone alle tenebre. Nell’opera di Raffaello, come in quella successiva di Sebastiano Del Piombo, la luce del Cristo trasfigurato è in alto, mentre in basso, al posto della Flagellazione del Cristo, sta l’enigma dell’ossesso che i discepoli non riescono a guarire (sulla Trasfigurazione di Raffaello, vedi L’ultima opera di Raffaello: la Trasfigurazione ed il suo significato. Per una lettura iconografica, di Andrea Lonardo).
Gli affreschi di Sebastiano Del Piombo si completano, in alto, con il profeta Isaia e l’evangelista Matteo, chiaro riferimento all’armonia dei due Testamenti (fra di loro gli stemmi dei Re Cattolici), ed, a fianco della Flagellazione, con le immagini di S. Pietro e S. Francesco (il primo legato alla nostra chiesa, ovviamente, per esserne il patrono, il secondo per essere il fondatore dell’ordine che la abita; i due santi sono raffigurati anche, come si è già detto, a motivo del committente che portava i loro nomi).
I due santi sono impegnati nella lettura della Sacra Scrittura che prenderà carne, ancora una volta, nella loro santità. L’attributo iconografico delle chiavi accompagna S. Pietro, mentre S. Francesco mostra le stimmate con le quali corrisponde alla passione di Cristo.
L’insieme degli affreschi di Sebastiano Del Piombo illustrano iconograficamente proprio l’unità del disegno divino che ha al centro il Cristo, ma viene preparato nel’AT e si realizza poi nella storia della chiesa, rappresentata dai santi, secondo quella visione unitaria caratteristica della chiesa cattolica che abbiamo visto commentando la teologia di S. Ireneo.
Sotto l’altare della cappella, Sebastiano Del Piombo ha dipinto l’iscrizione JHS (Jesus hominum Salvator) con in basso un piccolo biglietto che recita APERIATUR IN TEMPORE (“sarà rivelata nel tempo”), con riferimento certamente alla verità di Cristo, ma anche al valore dell’opera del pittore. La Flagellazione non è l’ultima parola sulla vita del Cristo, poiché Dio manifesterà infine il suo trionfo, così come anche i meriti dell’uomo – e del pittore Sebastiano – saranno manifesti “a suo tempo”.
15/ S. Pietro in Montorio: le altre cappelle
Procedendo nella navata troviamo, a destra, la cappella della Madonna della Lettera. L’immagine di Maria è affrescata dal Pomarancio o, forse, dal Lombardelli. Nell’abside della cappella, invece, l’affresco con l’Incoronazione di Maria è della scuola del Pinturicchio così come, sull’arco della navata, le quattro virtù cardinali sono della stessa mano.
Se l’immagine della Madonna è posteriore, gli affreschi della scuola del Pinturicchio ci riportano ai tempi della primitiva decorazione voluta dai “re cattolici” con la ripetizione dei loro stemmi al centro delle quattro virtù: fortezza, prudenza, temperanza, giustizia. A questa decorazione originaria ci riportano anche gli affreschi dell’arco della successiva cappella, con la raffigurazione di quattro sibille.
Nella Cappella Del Monte, al lato destro, prima dell’altare centrale, è collocata la Conversione di S. Paolo del Vasari (1550); l’iconografia è originale con l’episodio della caduta da cavallo che è in secondo piano, mentre in primo piano è il battesimo conferito da Anania. La figura vestita di nero, alla sinistra del quadro, sarebbe un autoritratto dello stesso pittore.
Nella Cappella Ricci che gli è di fronte, disegnata da Daniele da Volterra, altro discepolo di Michelangelo, famoso per aver messo i cosiddetti “braghettoni” al Giudizio universale della Cappella Sistina, è posto il Battesimo di Gesù di Giulio Mazzoni (1556).
Sull’altare maggiore fu posta dal 1523 al 1793 la Trasfigurazione di Raffaello, originariamente commissionata al maestro urbinate nel 1517 per la cattedrale di Narbona dal card. Giulio de’ Medici (contestualmente era stata commissionata a Sebastiano Del Piombo, per la stessa cattedrale, la Resurrezione di Lazzaro). Le due opere non raggiunsero mai Narbona e la Trasfigurazione fu posta in S. Pietro in Montorio. Fu successivamente trafugata dai “rivoluzionari” francesi nel 1797, ma, a differenza di altre opere, venne restituita nel 1815, per cui è ora esposta presso la Pinacoteca Vaticana, nei Musei Vaticani. Al suo posto è ora una copia della Crocifissione di S. Pietro di Guido Reni.
A terra, davanti all’altare, sono poste le lapidi tombali dei nobili irlandesi O’Neill e O’Donnell, che fuggirono in esilio nel 1607 quando la resistenza irlandese fu fiaccata dagli inglesi.
Una delle cappelle di sinistra conserva affreschi con il Padre eterno e profezie veterotestamentarie nuovamente con lo stemma dei “re cattolici”, sempre della scuola del Pinturicchio.
Sempre a sinistra della navata, è posta la Cappella Raymondi del Bernini (ca. 1640), con l’Estasi di S. Francesco del Baratta.
Oltre alle sue opere d’arte, la chiesa di S. Pietro in Montorio è nota per alcune figure di rilievo che vi sono ricordate. Beatrice Cenci vi venne sepolta, ma non si conosce l’esatta ubicazione della tomba.
La chiesa è importante nella vicenda di S. Ignazio di Loyola che, una volta eletto nel 1541 generale della Compagnia di Gesù, si rifiutò di ricevere l’incarico e si ritirò tre giorni in preghiera in S. Pietro in Montorio prima di decidersi ad accettare.
Infine deve essere ricordato S. Carlo da Sezze che visse per ben 20 anni nel convento di S. Pietro in Montorio.
16/ Il Tempietto del Bramante
Isabella di Castiglia e Ferdinando II di Aragona vollero, oltre alla totale riedificazione della chiesa, la costruzione di un monumento che ricordasse il supposto luogo del martirio di S. Pietro: è il famoso Tempietto del Bramante.
Per visitarlo è necessario uscire dalla chiesa ed entrare nel I chiostro dell’annesso convento; il complesso conventuale venne confiscate ai francescani nel 1873, dopo la presa di Roma, e successivamente ceduto alla Corona di Spagna che vi installò la Reale Accademia di Spagna.
Il cosiddetto Tempietto del Bramante, eretto nel I chiostro del convento, viene considerato il primo monumento romano del Rinascimento (eretto probabilmente nel 1502, anche se qualcuno ne sposta la costruzione al 1508-1512). Fu realizzato per decisione dei “re cattolici” a motivo di un voto che essi avevano fatto per chiedere la grazia della nascita di un figlio maschio, che ebbero nella persona del principe D. Juan, nel 1478.
Il Tempietto sorge sul luogo dove, secondo una tradizione diversa da quella ufficiale che la pone nel Circo di Gaio e Nerone alla base del colle Vaticano, sarebbe stata innalzata la croce per la crocifissione di S. Pietro. Il Tempietto fu consacrato da Alessandro VI Borgia, come recita una lapide posta a fianco della scalinata che porta nella cappella inferiore del Tempietto.
Bramante disegnò una pianta centrale circolare, che si richiamasse ai modelli “classici” dei quali il rinascimento voleva essere l’erede, situando la fede cristiana e le sue realizzazioni in perfetta continuità con l’antico. Lo stile che si richiama al classico è evidente dall’equilibrio perfetto delle forme. Sopra le sedici colonne dorico-toscane corre un fregio con triglifi e metope che recano immagini di oggetti liturgici. Il Bramamte era intenzionato ad inserire il Tempietto all’interno di un chiostro anch’esso circolare che, però, non venne mai realizzato. Il Tempietto contiene, in germe, molti dei futuri sviluppi dell’arte rinascimentale e barocca e ad esso si ispirarono alcuni dei principali progetti della nuova basilica di S. Pietro in Vaticano.
La cupola del Tempietto fu modificata una prima volta nel 1605, sotto Filippo III, ed una seconda volta nel 1628. Scendendo al piano inferiore del Tempietto, nella cappella sistemata dal Bernini nel 1628, si accede al luogo solennizzato dal monumento: il sito della crocifissione di Pietro. Nella volta della cappella si vedono stucchi con episodi della vita di S. Pietro, del secolo XVII.
Se il luogo era venerato già nel II secolo d.C., cosa che appare difficile, possiamo immaginare S. Ireneo pellegrino al Gianicolo; con certezza possiamo, invece, immaginarlo in preghiera sul colle Vaticano, dove non c’era ancora la basilica, ma solo la tomba di Pietro.
Nel chiostro, ora trasformato in corridoi e stanze, sono parzialmente visibili, se i locali sono aperti, gli affreschi del Pomarancio che aveva dipinto 32 lunette con le Storie di S. Francesco: ne restano 26. La visita potrebbe continuare, se l’allestimento di una mostra permette di entrare, nella Accademia Spagnola di Storia, Archeologia e Belle Arti, che conserva la parte restante dei chiostri affrescata.
17/ Il Gianicolo e la Fontana dell’Acqua Paola (Fontanone)
Uscendo possiamo salire al cosiddetto Fontanone per ammirare il panorama di Roma ed immaginare Marcione, Valentino, Ireneo e gli altri grandi del loro tempo che hanno vissuto fra i vicoli e le case della Roma imperiale.
Il nome Gianicolo deriva probabilmente da Giano; alcuni affermano che dovevano esservi sul colle dei luoghi di culto a lui dedicati, anche se è attestata con certezza solamente la presenza al Gianicolo di un sacello dedicato al figlio di Giano Fons (o Fontus).
Nella zona del Gianicolo esistevano in età imperiale significativi santuari dedicati a dèi orientali. In Trastevere ed al Gianicolo abitava un numeroso gruppo di ebrei provenienti dalla Giudea: è noto, infatti, dagli scavi archeologici che il principale cimitero ebraico di età imperiale era situato nell’odierna zona di Monteverde che è subito a ridosso.
La zona fu inserita all’interno delle mura cittadine da Aureliano, mentre precedentemente non aveva protezione muraria. Da Porta S. Pancrazio iniziava la via Aurelia, mentre da Porta Portese prendeva inizio la via Portuense che conduceva a Porto.
A queste mura gianicolensi si collegò poi il sistema delle Mura leonine, erette dopo il primo attacco arabo a Roma avvenuto nell’846 [18], quando il papa Leone IV, nell’852, decise di cingere di mura la basilica Vaticana che era stata saccheggiata dagli arabi. Nel 1644 le mura furono rinforzate, sotto Urbano VIII, sostituendo sul Gianicolo le precedenti Mura Aureliane.
Le mura gianicolensi furono utilizzate nell’aprile-giugno 1849 dalla “repubblica romana” nella difesa contro i francesi accorsi in difesa del papa. Sul lato della chiesa è stata conservata, infissa nel muro, una palla di cannone a ricordo di quegli scontri. Quando giungeremo nel nostro corso a quel periodo, cercheremo di offrire una lettura degli eventi del risorgimento e della figura di Pio IX in particolare che tenga conto degli opposti punti di vista.
Fra la chiesa di S. Pietro in Montorio e la Fontana dell’Acqua Paola, Mussolini fece erigere, nel 1941, il Mausoleo Ossario Gianicolense, poiché egli voleva che la sua marcia su Roma fosse vista come una continuazione dell’epopea garibaldina (nel Mausoleo si conserva memoria dei morti del 1849 come di quelli del 1870).
Il nostro itinerario si conclude alla Fontana dell’Acqua Paola (popolarmente nota come il Fontanone). È la monumentalizzazione del punto di arrivo in Roma dell’acquedotto Traiano, riattivato da papa Paolo V. Si ispira agli archi trionfali romani. L’opera è degli anni 1608-1612, opera di Flaminio Ponzio, con la collaborazione di Giovanni Fontana. La vasca fu aggiunta da Carlo Fontana nel 1690.
Salendo più oltre, verso Porta San Pancrazio, è possibile vedere la ricostruzione della facciata della casa ritenuta l’abitazione di Michelangelo - situata anticamente a Macel de’ Corvi dove ora sorge piazza Venezia - che venne abbattuta ai tempi del fascismo, per la costruzione di via dei Fori Imperiali.
NOTE AL TESTO
[1] Così A. von Harnack, Marcione. Il Vangelo del Dio straniero, Marietti, Genova-Milano, 2007, p. 137, che riporta la citazione.
[2] A. von Harnack, Marcione. Il Vangelo del Dio straniero, Marietti, Genova-Milano, 2007, p. 158.
[3] A. von Harnack, Marcione. Il Vangelo del Dio straniero, Marietti, Genova-Milano, 2007, p. 164. Prosegue poi Harnack: «Solo Lutero con la sua fede nella giustificazione ha potuto rivaleggiare con Marcione; ma, dal momento che manteneva stretta l’identità del Dio della creazione e del Dio della Redenzione, fu in grado di collegare a questa fede tutta la ricchezza della storia della salvezza e delle “tracce divine” che Marcione aveva dovuto abbandonare». Già a p. 4 della sua opera, Harnack aveva visto proprio in questo l’attualità di Marcione: «L’importanza di Marcione che si è lungamente trascurata fino ad oggi appare ancora più grande nella storia generale della religione poiché è l’unico pensatore nella cristianità ad aver preso del tutto seriamente la convinzione che la divinità che libera dal mondo non ha nulla a che fare con la cosmologia o con la teologia cosmica. La nuova vita della fede e della libertà erano per lui qualcosa di così “estraneo rispetto al mondo”» da non avere paragoni rispetto a nessun altro sistema religioso.
[4] Si può solo ricordare che Marcione, a partire dalle sue posizioni teologiche, giungeva a proporre ai suoi seguaci un’ascesi molto rigorosa, insegnando il rifiuto del matrimonio e della procreazione. Inoltre, era costretto a rovesciare il giudizio positivo e negativo dei personaggi dell’AT, proprio perché chi aveva seguito il Dio dell’AT era, in fondo, un figlio delle tenebre e chi gli si era ribellato aveva in qualche modo anticipato la rivelazione del Cristo. È Ireneo a ricordare queste tesi marcionite: «Si salveranno solo le anime che avranno appreso la sua dottrina, essendo impossibile che il corpo, preso dalla terra, partecipi alla salvezza. Alla bestemmia riguardante Dio ha aggiunto anche questo, facendosi portavoce del diavolo e dicendo tutte cose contrarie alla verità. Dice che Caino e i suoi simili, i Sodomiti e gli Egiziani e i loro simili, e tutte le nazioni, che vissero immerse in ogni tipo di male, furono salvati dal Signore, quando discese agli inferi e gli corsero incontro, ed egli le accolse nel suo regno; mentre Abele, Enoch, Noè e gli altri giusti, i discendenti del patriarca Abramo con tutti i profeti e quelli che piacquero a Dio, non hanno avuto parte alla salvezza» (da Ireneo, Adversus haereses, I, 27, 3).
[5] Così nella Prefazione al documento della Pontificia Commissione Biblica Il popolo ebraico e le sue Sacre Scritture nella Bibbia cristiana. Si vede qui che Harnack condivideva molte posizioni di Marcione (e, forse, lo reinterpretava anche a partire dal proprio punto di vista e dalla propria visione teologica). Infatti, nelle pagine finali, dopo la citazione a cui faceva riferimento il cardinal Ratzinger, Harnack afferma che le chiese evangeliche di cui fa parte «sono paralizzate: non sono in grado di creare nessun organismo con cui potersi liberare di tradizioni antiquate e non trovano né la forza, né il coraggio per onorare la verità. Temono le conseguenze di una rottura con la tradizione, mentre non vedono o fanno finta di non vedere le conseguenze più funeste che continuano a prodursi per l’ostinazione a sostenere che l’Antico Testamento sia una sacra scrittura e perciò infallibile. Pertanto, la maggior parte delle obiezioni che il “popolo” rivolge contro il cristianesimo e contro la veridicità della Chiesa nasce dalla considerazione che la Chiesa continua ad accordare all’Antico Testamento» (A. von Harnack, Marcione. Il Vangelo del Dio straniero, Marietti, Genova-Milano, 2007, p. 321): si vede qui il tipo di chiesa, svincolata da ogni istituzione anche protestante, che Marcione vuole sostenere con l’abrogazione dell’Antico Testamento dal Canone.
[6] Così nella Prefazione al documento della Pontificia Commissione Biblica Il popolo ebraico e le sue Sacre Scritture nella Bibbia cristiana.
[7] Così nella Prefazione al documento della Pontificia Commissione Biblica Il popolo ebraico e le sue Sacre Scritture nella Bibbia cristiana.
[8] In Testi gnostici in lingua greca e latina, M. Simonetti (a cura di), Fondazione Lorenzo Valla/Mondadori Editore, Milano, 1999, p. XIX.
[9] Gli studiosi, al termine dei lavori, proposero innanzitutto una chiarificazione terminologica, affermando: «Per evitare un uso indifferenziato dei termini gnosi e gnosticismo, sembra utile identificare, con la cooperazione dei metodi storico e tipologico, un fatto determinato, lo “gnosticismo”, partendo metodologicamente da un certo gruppo di sistemi del II secolo d.C., che vengono comunemente così denominati. Si propone invece di concepire la “gnosi” come “conoscenza dei misteri divini riservata a una élite”» (dal Colloquio internazionale sullo gnosticismo, organizzato dal prof. Ugo Bianchi nel 1966; cfr. l’articolo on-line Per un corretto uso storico-scientifico dei termini gnosticismo e gnosi: la proposta del Colloquio di Messina del 1966. Nota a cura del Centro culturale Gli scritti).
Cercarono poi di definire i tratti comuni ai differenti sistemi gnostici del II secolo: «Come ipotesi di lavoro si propongono le formulazioni seguenti: Lo gnosticismo delle sètte del II sec. implica una serie coerente di caratteristiche che si possono riassumere nella concezione della presenza nell’uomo di una scintilla divina, che proviene dal mondo divino, che è caduta in questo mondo sottomesso al destino, alla nascita e alla morte, e che deve essere risvegliata dalla controparte divina del suo Io interiore per essere finalmente reintegrata. Questa idea, di fronte ad altre concezioni di una “degradazione” del divino, è fondata ontologicamente sulla concezione di una “degradazione” del divino la cui periferia (spesso chiamata Sophia o Ennoia) doveva entrare fatalmente in crisi e produrre - benché indirettamente - questo mondo, di cui essa non può d’altronde disinteressarsi perchè deve recuperarvi lo pneuma. (Concezione dualistica su un sottofondo monistico, la quale si esprime con un doppio movimento di degradazione e di reintegrazione). Il tipo di gnosi implicato dallo gnosticismo è condizionato dai fondamenti ontologici, teologici e antropologici qui indicati: non ogni gnosi è lo gnosticismo, ma solo quella che implica, nel senso sopra chiarito, l’idea della connaturalità divina della scintilla che deve essere rianimata e reintegrata: questa gnosi dello gnosticismo implica l’identità divina del conoscente (lo gnostico), del conosciuto (la sostanza divina del suo Io trascendente) e del mezzo per cui egli conosce (la gnosi come facoltà divina implicita che deve essere risvegliata e attuata; questa gnosi è una rivelazione-tradizione. Questa rivelazione-tradizione è dunque di tipo diverso dalla rivelazione-tradizione biblica e islamica)» (dal Colloquio internazionale sullo gnosticismo, organizzato dal prof. Ugo Bianchi nel 1966).
[10] Così ha scritto, su questo tema, il prof. Manlio Simonetti: «L'individuazione dello gnosticismo come di fenomeno verificatosi all'interno della società cristiana trova in antico puntuale conferma nelle poche testimonianze pagane in argomento: non solo Celso conosce gli gnostici come cristiani; ma anche Porfirio, quando, nella Vita di Plotino 16, parla del trattato del maestro Contro gli gnostici (Enneades II 9), lo dice indirizzato contro cristiani. Perciò non soltanto i cristiani ma l'antichità in genere sembra aver conosciuto lo gnosticismo solo come movimento sviluppatosi all'interno della religione cristiana. Quadra sostanzialmente con questa testimonianza quella ricavabile proprio dalle opere gnostiche scoperte in traduzione copta, che nella quasi totalità sono opere cristiane o comunque cristianizzate a diversi livelli. [...] Alcune opere di Nag Hammadi considerate non cristiane presentano anch'esse tracce di cristianesimo, se non altro in forma polemica: ma a questo proposito è ancora importante la testimonianza di Porfirio. Parlando dei cristiani gnostici, egli specifica che costoro mettevano in mostra le rivelazioni di Zoroastro Zostriano Nicoteo Allogeno Meso e altri: orbene, i nomi di Zostriano e Allogeno hanno trovato conferma negli scritti omonimi di Nag Hammadi, e si tratta di scritti apparentemente privi di tratti cristiani e perciò considerati usualmente espressione di gnosticismo non cristiano. La testimonianza di Porfirio riporta anche questi scritti in area cristiana e dimostra quanto sia illusorio apprezzare senz'altro come estraneo all'ambiente cristiano uno scritto gnostico che non presenti tracce evidenti di cristianesimo» (da M. Simonetti, Introduzione a Testi gnostici in lingua greca e latina, Fondazione Lorenzo Valla/Mondadori Editore, Milano, 1999, pp. XXIV – XXV).
Fra l’altro, afferma ancora Simonetti, il primo commentario continuo ad un libro biblico è di uno gnostico: «Origene, nel Commento a Giovanni, riporta, per confutarli, numerosi passi di un commento al IV vangelo di Eracleone [...] Questa opera di Eracleone è la prima che conosciamo con sicurezza, in ambiente cristiano, dedicata specificamente all'interpretazione sistematica di un libro della Sacra Scrittura: Origene stesso, che la confuta, più volte ne risulta influenzato, soprattutto quanto alla tecnica esegetica, e ne apprezza qualche interpretazione» (da M. Simonetti, Valentino e la sua scuola, in Testi gnostici in lingua greca e latina, Fondazione Lorenzo Valla/Mondadori Editore, Milano, 1999, p. 205).
[11] L’ambiguità della dottrina trinitaria dei sistemi gnostici conduce all’elaborazione di genealogie mitiche di difficile interpretazione. Simonetti afferma in proposito: «Questa struttura mitica è esposta nel modo più dettagliato nella cosiddetta Grande notizia di Ireneo ed è sostanzialmente confermata da vari altri testi giuntici in lingua greca. Ma quale significato reale proponeva questo mito ai Valentiniani? Tertulliano (Adversus Valentinianos 4,2) sostiene che Valentino aveva considerato i diversi Eoni quali sentimenti, affetti e moti all’interno dell’unica divinità, mentre sarebbe stato Tolomeo a farne delle sostanze personali all’infuori del Dio supremo. Quanto ai testi di Nag Hammadi, qualcuno conferma questa struttura mitica (per esempio, il Trattato valentiniano), ma il Trattato tripartito conferma il dato tertullianeo: gli Eoni sono nomi corrispondenti alle virtù e alle potenze del Padre (73,8-10)» (da M. Simonetti, Valentino e la sua scuola, in Testi gnostici in lingua greca e latina, Fondazione Lorenzo Valla/Mondadori Editore, Milano, 1999, p. 203).
[12] In questa maniera, ad esempio, il prof. Simonetti riassume la dottrina sulla creazione dell’uomo propria degli Ofiti: «Al mondo divino, costituito dal Padre del tutto, Adamas, Uomo perfetto e primordiale, e da suo Figlio, a lui somigliante e anche lui detto Uomo primordiale, si contrappone nel mondo sottostante il Demiurgo Esaldaios, che con i suoi angeli (= potenze) confeziona un uomo, Adamo, a imitazione dell'Uomo primordiale. Ma Adamo giace a terra privo di movimento e di vita. Il Figlio del Padre del tutto scende dall'alto a vivificarlo, ma il corpo umano si trasforma per lui in una prigione dalla quale non può uscire e che gli fa dimenticare la sua origine celeste. La generazione naturale da Adamo in poi provoca il frazionarsi dell'Uomo primordiale in tutti gli uomini discendenti da Adamo. La ricomposizione avverrà per opera del Logos divino soltanto allorché tutti gli uomini per mezzo della gnosi avranno acquistato coscienza della scintilla di vita divina che è celata nel loro involucro carnale, permettendone la liberazione» (da M. Simonetti, Ofiti e Sethiani, in Testi gnostici in lingua greca e latina, Fondazione Lorenzo Valla/Mondadori Editore, Milano, 1999, p. 42).
[13] È paradossale che, in alcune correnti gnostiche, proprio perché il corpo veniva disprezzato, si poteva giungere alla proposta di un libertinismo morale, al fine di svincolare l’anima dalla materia. Lo ricorda Ireneo, che scrive: «Sono giunti a tal punto di pazzia da affermare che essi possono fare e fanno tutto ciò che è irreligioso ed empio. Dicono infatti che le azioni buone e cattive sono tali solo nell'opinione degli uomini. E in relazione alla trasmigrazione delle anime nei corpi essi affermano che le anime in ogni vita debbono provare ogni esperienza (a meno che uno subito in un solo passaggio esperimenti tutto insieme in una volta sola, ...), affinché, secondo quanto dicono i loro scritti, le anime che hanno fatto ogni esperienza di vita uscendo dal corpo non ne abbiano bisogno più affatto. Infatti bisogna adoperarsi per evitare che, mancando qualcosa alla libertà completa, le anime siano di nuovo inviate nei corpi» (da Ireneo, Contro le eresie, I, 25, 4). Clemente Alessandrino ricorda dottrine simili predicate dagli gostici: «Dice Epifane che il mio e il tuo si sono introdotti nel mondo per opera delle leggi [...]: “Dio, avendo fatto comuni agli uomini tutte le cose, anche la donna ha congiunto con l’uomo e ugualmente ha accoppiato tutti gli animali e così ha manifestato la giustizia come comunanza con uguaglianza. Ma coloro che erano nati grazie a questo principio hanno rifiutato la comunanza che produce la loro nascita e dicono: Chi ha preso una donna se la conservi, mentre tutti potrebbero averle in comune, come fanno vedere gli altri animali”. Dopo essersi così espresso alla lettera Epifane continua ancora sullo stesso tono: “(Dio) ha posto nei maschi il desiderio forte e violento per la conservazione della specie, che né legge né costume né altro può abolire. Infatti è decreto di Dio” [...] Si oppongono a Dio Carpocrate ed Epifane che nel suo famoso libro, dico quello Sulla giustizia, così continua alla lettera: “Per cui come cosa ridicola detta dal legislatore bisogna intendere il precetto: ‘Non desidererai’ (Es. 20, 17), e cosa ancor più ridicola è il seguito: ‘le cose del vicino’. Infatti colui che ha dato il desiderio per conservare ciò che riguarda la generazione comanda così di eliminarlo, mentre non lo toglie a nessun animale. E ancor più ridicolo è il precetto di non desiderare la donna del vicino, in quanto costringe come proprietà privata ciò che è comune”» (da Clemente Alessandrino, Stromati, 8,1-9,3).
[14] Combattere lo gnosticismo non era una questione secondaria nella chiesa di allora, perché «lo gnosticismo si configurava come rivelazione di tipo superiore e più approfondita rispetto alla tradizione comune della Chiesa: di qui la suggestione che esso esercitò, nei suoi aspetti più intellettualmente impegnati (Basilide, Valentino), sui ceti colti della società cristiana, che più avvertivano 1'ambizione e l'esigenza di un approfondimento del dato elementare di fede. Per tal motivo, nel II e III secolo lo gnosticismo rappresentò per la Chiesa il massimo pericolo, maggiore ancora di quello rappresentato dal marcionismo e dal montanismo, anche se non riuscì a darsi la salda organizzazione unitaria del primo, né alimentò 1'entusiasmo delle folle al pari del secondo. Ma la pronta reazione della Chiesa sul piano sia disciplinare sia organizzativo sia dottrinale fu tale che già alla metà del III secolo lo gnosticismo era ovunque in fase decrescente, anche se sporadicamente continuò a sopravvivere nel IV e anche nel V secolo» (da M. Simonetti, Introduzione a Testi gnostici in lingua greca e latina, Fondazione Lorenzo Valla/Mondadori Editore, Milano, 1999, pp. XI-XII). È chiaro anche solo dalla cronologia – siamo nell’epoca delle persecuzioni, ben prima di Costantino, in un periodo nel quale la chiesa non solo non aveva alcun potere temporale, ma anzi era sotto la minaccia dell’autorità imperiale - che il combattimento di Ireneo e della chiesa contro gli gnostici fu intellettuale: bisognava mostrare che il cristianesimo non solo non era meno intelligente della gnosi, ma anzi aderiva realmente alla rivelazione, mentre i maestri gnostici la travisavano; cfr. su questo l’articolo on-line Elaine Pagels sui vangeli apocrifi di Tommaso e di Giuda: il ruolo di Ireneo di Lione, di Clemente, di Origene nella lotta contro lo gnosticismo, di Manlio Simonetti.
[15] Questo l’elenco dei vescovi di Roma, nel testo di Ireneo: «Dunque, dopo aver fondato ed edificato la Chiesa, i beati apostoli affidarono a Lino il servizio dell'episcopato; di questo Lino Paolo fa menzione nelle lettere a Timoteo. A lui succede Anacleto. Dopo di lui, al terzo posto a partire dagli apostoli, riceve in sorte l’episcopato Clemente, il quale aveva visto gli apostoli stessi e si era incontrato con loro ed aveva ancora nelle orecchie la loro predicazione e davanti agli occhi la loro Tradizione. E non era il solo, perché allora restavano ancora molti che erano stati ammaestrati dagli apostoli. Dunque, sotto questo Clemente, essendo sorto un contrasto non piccolo tra i fratelli di Corinto, la Chiesa di Roma inviò ai Corinzi una importantissima lettera per riconciliarli nella pace, rinnovare la loro fede e annunciare la Tradizione che aveva appena ricevuto dagli apostoli: un solo Dio onnipotente, creatore del cielo e della terra e plasmatore dell'uomo, il quale ha fatto venire il diluvio, ha chiamato Abramo, ha fatto uscire il popolo dalla terra d'Egitto, ha conversato con Mosè, ha stabilito la Legge e inviato i profeti ed ha preparato il fuoco per il diavolo e i suoi angeli. Che questo Dio è annunciato dalla Chiesa come Padre del nostro Signore Gesù Cristo, chi vuole lo può apprendere da questo stesso scritto, come pure può conoscere la Tradizione apostolica della Chiesa, essendo quella lettera più antica di coloro che ora insegnano falsamente e immaginano un altro Dio al di sopra del Demiurgo e Creatore di tutto ciò che esiste. A questo Clemente succede Evaristo e ad Evaristo Alessandro; poi come sesto a partire dagli Apostoli, fu stabilito Sisto; dopo di lui Telesforo, che dette la sua testimonianza gloriosamente; poi Igino, quindi Pio e dopo di lui Aniceto. Dopo che ad Aniceto fu succeduto Sotere, ora, al dodicesimo posto a partire dagli apostoli, tiene la funzione dell’episcopato Eleutero.
Con questo ordine e queste successioni è giunta fino a noi la Tradizione che è nella Chiesa a partire dagli apostoli e la Predicazione della verità. E questa è la prova più completa che una e medesima è la Fede vivificante degli apostoli, che è stata conservata e trasmessa nella Verità» (III,3,3).
[16] Questo il brano di Ireneo su Policarpo e la chiesa di Smirne: «Si può ricordare anche Policarpo. Egli non solo fu ammaestrato dagli apostoli ed ebbe consuetudine con molti che avevano visto il Signore, ma appunto dagli apostoli fu stabilito per l'Asia nella Chiesa di Smirne come vescovo. Anche noi l'abbiamo visto nella nostra prima età. Infatti visse a lungo e molto vecchio, dopo aver testimoniato gloriosamente e molto chiaramente, usci dalla vita. Ora egli insegnò sempre quello che aveva appreso dagli apostoli, le cose appunto che la Chiesa trasmette e che sole sono vere. A queste cose rendono testimonianza tutte le Chiese dell'Asia e coloro che fino ad oggi sono succeduti a Policarpo, che è un testimone della verità molto più degno di fede e sicuro di Valentino, Marcione e gli altri che hanno opinioni false. Egli, venuto a Roma sotto Aniceto, molti convertì dai predetti eretici alla Chiesa di Dio, predicando di aver ricevuto dagli apostoli un'unica e sola Verità, quella trasmessa dalla Chiesa. Alcuni hanno sentito da lui che Giovanni, il discepolo del Signore, essendo andato in Efeso a lavarsi e visto dentro Cerinto, uscì dal bagno senza lavarsi gridando: Fuggiamo, per paura che crolli anche il bagno, essendoci dentro Cerinto, il nemico della Verità. E Policarpo stesso a Marcione che un giorno gli si presentò dinanzi e gli disse: Riconoscimi, rispose: Riconosco in te il primogenito di Satana. Gli apostoli e i discepoli ebbero cosi tanta circospezione che neppure con le parole comunicavano con uno di quelli che falsificavano la verità, come disse anche Paolo: "Rifiuta l'eretico dopo un primo e un secondo ammonimento, sapendo che un tale uomo è pervertito e pecca condannandosi da sé". Esiste anche un'importantissima lettera di Policarpo scritta ai Filippesi, dalla quale chi vuole e ha cura della propria salvezza può apprendere il carattere della fede e la predicazione della verità. Ma anche la Chiesa di Efeso, fondata da Paolo e dove visse Giovanni fino ai tempi di Traiano, è testimone verace della Tradizione degli apostoli» (III,3,4).
[17] Sui quattro “esseri viventi” dell’Apocalisse ed il loro simbolismo, vedi L’Apocalisse commentata a partire dagli affreschi della cripta della cattedrale di Anagni, di Andrea Lonardo.
[18] Su questo, cfr. Gli arabi nel Lazio nei secoli IX e X, di Giuseppe Cossuto e Daniele Mascitelli.