Basilica di S. Pudenziana in Roma: S. Giustino martire filosofo e gli apologeti del II secolo. I incontro del II anno del corso sulla storia della chiesa di Roma, di Andrea Lonardo
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Mettiamo a disposizione la trascrizione dell’incontro, dedicato a san Giustino, del corso di formazione per catechisti sulla storia della chiesa di Roma, tenutosi il sabato 11/10/2008, presso la basilica di Santa Pudenziana.
Il calendario dei successivi incontri del corso è on-line sul sito dell’Ufficio catechistico della diocesi di Roma www.ucroma.it. Il testo è stato sbobinato dalla viva voce dell’autore e conserva uno stile informale. Alla relazione sono stati aggiunti alcuni passaggi chiarificatori.
Le trascrizioni delle altre lezioni, dedicate il I anno al Nuovo Testamento (chiese di S. Prisca, di S. Maria in Aracoeli, di S. Marco, di S. Pietro in Vincoli, di S. Clemente, di S. Lorenzo de’ Speziali in Miranda, di S. Prassede, villa dei Quintili e, rispettivamente, agli Atti degli Apostoli, lettera di Paolo ai Romani, vangelo di Marco, lettere di Pietro, padri apostolici, Lettera agli Ebrei, Apocalisse e lettere pastorali) ed il II anno ai padri della chiesa da Giustino ad Agostino (chiese di S. Pietro in Montorio, S. Lorenzo fuori le mura, S. Agostino, Battistero di S. Giovanni in Laterano, Musei Vaticani e scavi di Ostia antica e, rispettivamente, a S. Giustino, S. Ireneo, S. Lorenzo e S. Cipriano, S. Agostino, Costantino ed all’iconografia paleocristiana) sono on-line nelle sezioni Nuovi testi del sito www.gliscritti.it e nella sezione Roma e le sue basiliche. Le foto che illustrano l’itinerario descritto in questo testo sono on-line nella Gallery Basilica di Santa Pudenziana in Roma
Il Centro culturale Gli scritti 30/8/2009
Indice
- Le Terme Timotine, possibile residenza e luogo di insegnamento di san Giustino
- I Padri apologisti
- La Prima Apologia indirizzata ad Antonino Pio
- Libertà e ragione nel dibattito pubblico sulla verità di Dio
- La critica cristiana degli idoli e la conseguente accusa di ateismo rivolta ai cristiani
- La partecipazione dei cristiani alla vita pubblica
- La nuova vita condotta dai cristiani
- Il Logos che i filosofi cercano è Gesù Cristo
- I Logoi spermatikoi
- Il Dialogo con il giudeo Trifone ed il racconto autobiografico di Giustino
- Il battesimo e l’eucarestia al tempo di Giustino
- Il processo di Giustino e dei suoi compagni
- Il portale della basilica di S. Pudenziana
- Il mosaico di S. Pudenziana
- La Cappella Caetani
- L’Oratorio mariano
- NOTE AL TESTO
Le Terme Timotine, possibile residenza e luogo di insegnamento di san Giustino
Ci troviamo in questa basilica di S. Pudenziana per conoscere la figura di S. Giustino martire, personaggio importantissimo per la storia del cristianesimo, nato più o meno intorno al 100 d.C. – iniziamo, quindi, più o meno dove si era interrotto il corso l’anno scorso, con il passaggio tra il I ed il II secolo d.C. – a Flavia Neapolis, l’odierna Nablus in Palestina, e morto martire sotto Marco Aurelio tra il 163 ed il 167 – sono gli anni nel quale Rustico sarà prefetto in Roma e sappiamo che fu lui ad interrogarlo nel processo che lo porterà al martirio.
Ne parliamo in questo luogo, perché la basilica di S. Pudenziana sorge probabilmente sopra le antiche terme di Novato o di Timoteo (thermae Novatianae o Timotheanae) e noi sappiamo che sopra un edificio termale Giustino aveva affittato alcuni locali per insegnare la filosofia cristiana.
Non c’è una certezza assoluta sull’ubicazione del luogo nel quale Giustino insegnava, ma, secondo lo stile che abbiamo inaugurato l’anno scorso, vogliamo che, comunque, questa basilica sia un richiamo all’immaginazione. Secondo la tradizione, Giustino ha vissuto proprio qui dove ci troviamo, ma, se le “sue” Terme dovessero essere situate altrove, non sarebbero lontano da qui.
Avremmo potuto anche scegliere a Roma un altro luogo per ricordarlo, precisamente la Chiesa di S. Maria della Concezione (detta anche dei Cappuccini) a via Veneto, perché lì si venerano, dietro l’altare del coro, le reliquie di S. Giustino. Ma questa basilica di S. Pudenziana ci permette meglio di immaginare un antico impianto termale ed, al piano superiore, Giustino con i suoi discepoli.
È Giustino a parlare – ma il passo è corrotto e l’indicazione non è certa [1] - delle terme Timotine nel corso dell’interrogatorio che lo porterà al martirio. La trascrizione di questo interrogatorio si è conservata ed è uno dei documenti più importanti per conoscere la vicenda di Giustino:
«Chiese il prefetto Rustico: 'Dove vi riunite?'. Rispose Giustino: 'Dove ciascuno può e preferisce; tu credi che tutti noi ci riuniamo in uno stesso luogo, ma non è così, perché il Dio dei cristiani, che è invisibile, non si può circoscrivere in alcun luogo, ma riempie il cielo e la terra ed è venerato e glorificato ovunque dai suoi fedeli'.
Riprese Rustico: 'Insomma dove vi riunite , ovverosia, dove raduni i tuoi discepoli?'.
Giustino disse: 'Abito preso un certo Martino, sopra le terme Timotine, dall’inizio di questo secondo periodo della mia permanenza in Roma. Non conosco altri luoghi di riunioni all’infuori di quello dove, se qualcuno voleva venire a trovarmi, lo facevo partecipe delle divine parole della verità'».
Guardando il pavimento della basilica di S. Pudenziana, vi accorgete facilmente che ci sono dei mattoni che hanno un colore diverso; sono stati scelti per ricalcare il tracciato degli edifici sottostanti la chiesa che potrebbero essere, appunto, le terme di Novato e di Timoteo. Allo stesso modo, se guardate le murature della chiesa in alto, vi accorgerete che sono riconoscibili alcune finestre che sono state tamponate; inoltre, verso l’ingresso, è chiaramente visibile una integrazione con mattoni di tipo diverso, perché si è intervenuti sull’edificio precedente con modifiche successive, in maniera che potesse divenire una basilica. Gli studiosi ricollegano tutte queste murature sottostanti e sovrastanti alle precedenti terme; l’ipotesi è che una sala di queste terme sia stata ristrutturata per dare origine all’attuale basilica.
Se questo è il luogo dove ha vissuto S. Giustino, probabilmente vi ha scritto anche le sue opere. A chi sono rivolte queste opere? Vengono chiamate “apologie”, cioè discorsi in difesa del cristianesimo, e sono rivolte all’imperatore che abitava allora al Palatino, sopra i Fori imperiali. È in quel luogo che hanno abitato in successione Adriano, Antonino Pio, Marco Aurelio ed erano costoro a decretare le leggi di persecuzione dei cristiani. Giustino verrà ucciso sotto Marco Aurelio, ritenuto allora grande filosofo e pensatore, e proprio a lui, probabilmente, Giustino si rivolgerà con la Seconda apologia, perché l’imperatore legga della “filosofia” professata dai cristiani e sia informato del tipo di vita che conducono.
Marco Aurelio, in tutta risposta, lo farà decapitare in compagnia di altri martiri cristiani, come vedremo, leggendo il prosieguo del processo dinanzi a Rustico. È evidente la vicinanza fisica di questo luogo nel quale ci troviamo e, comunque, della residenza nella quale Giustino era impegnato a scrivere le sue Apologie, e la residenza imperiale sul Palatino dove questi scritti avranno raggiunto anche l’imperatore.
Per cercare di immaginare come mai un filosofo si trovasse ad insegnare presso le terme, potete fare riferimento a quella che è oggi, mutatis mutandis, la struttura più simile alle antiche terme, quella dei centri sportivi moderni, con le loro saune e piscine.
Mentre il Colosseo potrebbe essere paragonato ai nostri stadi - ma allora i giochi erano cruenti, erano corride che si concludevano con la morte di uomini - così le terme possono essere paragonate ai nostri fitness center, alle nostre piscine ed ai nostri centri sportivi con i vari campi di gioco e palestre. Le terme erano il luogo della cura del corpo con tutto ciò che di positivo questo comportava. L’uomo romano, nella sua saggezza, desiderava stare bene; è noto, infatti, l’adagio latino mens sana in corpore sano - cioè se il corpo sta bene, allora anche la mente è sveglia, è agile. Ovviamente, questi luoghi erano sede anche di tutte le esagerazioni e le distorsioni possibili in questo campo, esattamente come oggi.
C’erano in queste terme, oltre a coloro che si occupavano del benessere fisico, anche altri che insegnavano la filosofia, che univano alla cura del corpo quella della mente. Questi maestri avevano, all’interno delle terme, locali nei quali insegnare. E così fece, probabilmente, Giustino, venendo ad abitare ad un piano rialzato delle terme ed utilizzando questo luogo per fare catechesi, per insegnare il cristianesimo e la fede cristiana.
I Padri apologisti
Giustino è uno dei primi “padri della chiesa”. Che cosa vuol dire questa espressione? Giustino e gli altri che hanno ricevuto questo appellativo sono “padri” perché hanno trasmesso la fede, perché l’hanno generata nelle generazioni successive. E questo non solo in modo generico, poiché sono stati un anello tramite il quale la fede è giunta sino a noi, ma anche in senso forte perché il loro pensiero, la loro vita, la loro santità è stata così significativa da determinare la nostra fede.
Sono stati i “padri della chiesa” ad ordinare la liturgia, la preghiera, il canto, a trovare le giuste espressioni teologiche per chiarificare la fede, al punto che noi, senza neanche saperlo, abbiamo una fede che respira della loro.
Si è compiuta così, quasi inavvertitamente, la stessa esplicita volontà di Gesù che non ha dato agli apostoli ed ai loro successori innanzitutto il compito di mettere per iscritto la rivelazione neotestamentaria, ma primariamente di annunziarlo e di battezzare nel suo nome, insegnando tutto quello che egli aveva compiuto, nella promessa che lo Spirito Santo avrebbe fatto ricordare e comprendere sempre più in profondità il mistero dell’incarnazione e della Pasqua.
Giustino appartiene a quel gruppo di “padri” detto degli “apologisti”. Di Giustino si sono, infatti, conservate due Apologie, oltre ad un terzo scritto noto come Dialogo con il giudeo Trifone.
Apologia è termine che proviene dal greco e significa, letteralmente, “discorso di difesa”, “discorso di risposta”. Può essere utile ricordare che la parola apologia è già presente nel NT, nel brano di 1 Pt 3,15, che dice letteralmente: «Siate sempre pronti a compiere l’apologia a chiunque vi domandi ragione della speranza che è in voi» (ετοιμοι αει προς απολογιαν, che la CEI traduce «siate sempre pronti a rispondere»).
Perché le Apologie ed i padri apologisti? Perché i cristiani erano accusati e condannati. Giustino scrive le due Apologie per difendere la fede dinanzi all’imperatore ed ai romani del suo tempo per mostrare loro che l’accanimento contro i cristiani era una assurdità e che anzi proprio i cristiani avevano ragioni da vendere.
Insieme a Giustino anche altri autori hanno ricevuto dai moderni il titolo di “padri apologeti” o “apologisti” – ricordiamo almeno Aristide, Taziano, Atenagora, Teofilo, ecc. – proprio perché tutti autori di Apologie: evidentemente la presentazione della fede dinanzi alle false accuse era un’esigenza che i cristiani del tempo dovevano affrontare. Ma non solo questo: tutti questi personaggi vissuti nel II secolo d.C., secolo dovevano avvertire anche l’esigenza di comunicare il perché della loro fede, di modo che le loro Apologie vennero scritte non solo a difesa dei cristiani, ma ancor più nel desiderio che altri potessero conoscerne la verità e la bellezza ed accogliere la fede (cosa che, di fatto, è poi avvenuta).
Ed è Giustino stesso a spiegare il fine della sua Prima Apologia all’inizio dell’opera: «Io, Giustino, di Prisco, figlio di Baccheio, nativi di Flavia Neapoli, città della Siria di Palestina, ho composto questo discorso e questa supplica, in difesa degli uomini di ogni stirpe ingiustamente odiati e perseguitati, io che sono uno di loro» (Prima apologia, I, 1).
La Prima Apologia indirizzata ad Antonino Pio
La Prima Apologia è indirizzata «all'imperatore Tito Elio Adriano Antonino Pio Cesare Augusto e al figlio Verissimo filosofo, ed a Lucio, figlio del Cesare filosofo e, per adozione, del Pio, amante del sapere, al Sacro Senato ed a tutto il popolo romano» (Prima apologia, I, 1): è indirizzata espressamente all’imperatore dell’epoca, che è Antonino Pio, ma Giustino la scrive anche per il Senato e per il popolo tutto.
Il testo continua: «La ragione suggerisce che quelli che sono davvero pii e filosofi onorino e amino solo il vero, evitando di seguire le opinioni degli antichi qualora siano false» (Prima apologia, II, 1). Notate l’inizio dell’argomentazione: Giustino afferma che è tipico dei filosofi discutere e non accettare qualcosa per vero semplicemente perché la tradizione degli antichi ce lo ha consegnato. È un invito ad ascoltare ed a confrontare le diverse argomentazioni per discernere la verità e l’errore. Discutere liberamente – dice Giustino - è il tipico atteggiamento del filosofo. Si noti bene: Giustino è cristiano, ma conserva il gusto della discussione, del dibattito, della libertà intellettuale, tipica del filosofo.
Prosegue poi: «Voi godete in ogni luogo - sta parlando di Antonino Pio, a cui era stato attribuito l’aggettivo “pio”, proprio perché ritenuto particolarmente timorato di Dio - la fama di essere pii e filosofi, custodi della giustizia e amanti della sapienza, se poi davvero anche lo siete sarà dimostrato» (Prima apologia, II, 2). Notate la libertà con cui si rivolge pubblicamente all’imperatore che potrebbe ucciderlo!
Libertà e ragione nel dibattito pubblico sulla verità di Dio
«Eccoci dinanzi a voi non per adularvi attraverso questi scritti, né per parlarvi in modo accattivante, ma per chiedervi di pronunciare il giudizio secondo il criterio di un attento e preciso esame» (Prima apologia, II, 3). Giustino chiede che si discuta del cristianesimo e del paganesimo, dell’adorazione degli imperatori e così via, alla ricerca della verità. Solo dopo un attento esame, dopo uno studio approfondito, sarà giusto emettere un giudizio di verità. Continua così questa esaltazione del gusto della libera discussione: Giustino domanda la piena libertà intellettuale, che è tipica del cristianesimo.
È subito evidente anche la dimensione pubblica della prospettiva di Giustino: egli vuole comunicare e chiede di essere ascoltato. I cristiani fin dall’inizio – siamo alla metà del II secolo - pur essendo perseguitati affermano l’importanza della libertà di parlare di Cristo con tutti. Cristo non è qualcuno di cui parlare solamente all’interno della chiesa per tacerne all’esterno; l’annunzio del vangelo è proposto a tutti.
Se volete un esempio moderno dell’atteggiamento opposto a questo, pensate alla massoneria. Prima ancora che nei contenuti, già da un punto di vista formale la massoneria è opposta al cristianesimo, perché essa non è pubblica, non è per tutti; è vietato ascoltare cosa si dice in una loggia massonica, non si può essere messi a parte di quella realtà, se non si è degli iniziati.
Giustino, invece, vuole presentare il cristianesimo a tutti, lo vuole spiegare, lo vuole far conoscere. Dice apertamente che la “filosofia cristiana” può essere detta a tutti e tutti, anzi, debbono poterla ascoltare, non solo nelle case, ma anche nelle piazze. Il cristianesimo non è fatto per gli iniziati, non parla solo a loro, ma è per tutti.
Mi ha colpito recentemente, durante un’ordinazione episcopale, notare il fatto che l’ordinando viene presentato dinanzi a tutti e gli viene chiesto pubblicamente se crede quello che crede la chiesa. Egli deve giurare di avere la fede cattolica, perché tutti debbono sapere ciò che pensa il vescovo; se non si sapesse pubblicamente che cosa egli pensa, non lo si potrebbe ordinare. Pensate, all’opposto, ad alcuni fatti che avvengono nel contesto nel quale viviamo: capita di non sapere quale sia il pensiero ufficiale di alcune grandi religioni – a volte perché non esiste un pensiero ufficiale chiaro, altre volte perché su alcuni punti si preferisce non esporlo pubblicamente. Per il cristianesimo non è così: fin dall’inizio appare il desiderio di presentare con chiarezza quali sono i punti di vista che nascono dal vangelo, senza segreti o incertezze [2]. Spetterà poi a chi ascolta il rifiuto o l’accoglienza di ciò che ha conosciuto, ma tutto deve essere detto con chiarezza.
Giustino si pone agli antipodi di prospettive come questa. Il cristianesimo in lui parla pubblicamente ed a tutti e addirittura il nostro autore propone una libera discussione dinanzi all’imperatore ed al senato di Roma, anzi pretende che nessuno pronunci un’accusa contro la fede cristiana se prima non si è informato su di essa.
Giustino chiede, in sostanza, che si compia una analisi veritiera della vita e della fede dei cristiani, prima di decidere aprioristicamente se essa sia da perseguire o meno: «Ma affinché nessuno pensi che queste siano parole senza senso e temerarie, riteniamo giusto che siano prese in esame le accuse mosse ai cristiani, e che, qualora esse si dimostrino rispondenti al vero, siano puniti come conviene punire i convinti colpevoli; se invece non si può provare nulla, la vera ragione non consente di trattare ingiustamente, a causa di una cattiva fama, uomini innocenti: o meglio, trattare ingiustamente voi stessi, che ritenete giusto intervenire (penalmente) secondo un impulso irrazionale anziché secondo un giudizio di discrezione. [...] Disse in un passo anche uno degli antichi: “Se governanti e sudditi non sono filosofi, non è possibile che le città siano felici”» (Prima apologia, III, 1-3).
La critica cristiana degli idoli e la conseguente accusa di ateismo rivolta ai cristiani
Dopo aver visto l’affermazione che bisogna giudicare tutto liberamente e secondo ragione e verità, vediamo un secondo aspetto del pensiero di Giustino. Questa libertà di ricerca e di pensiero filosofico lo porta a sostenere che il Padre di Gesù Cristo è il vero Dio e che gli altri dèi sono idoli, perché falsi. Giustino non si limita ad una difesa teorica dell’uso della ragione, ma va oltre, applicando concretamente il criterio della ragionevolezza alla religione, per valutare ciò che è filosoficamente sostenibile e ciò che non ha fondamento.
Giustino accetta così parzialmente la strana accusa che era rivolta ai cristiani nel II secolo: i pagani, infatti, accusavano i cristiani di essere atei, perché questi affermavano con forza che le varie divinità del pantheon politeistico greco-romano non esistevano: «Ci è derivata l’accusa di essere atei. Certo ammettiamo di essere tali rispetto a questi supposti dèi, ma non certo rispetto a Dio verissimo, padre di giustizia e di sapienza e di ogni virtù, e immune da malvagità» (Prima apologia, VI, 1).
Tradotto in termini moderni, Giustino sostiene di rifiutare l’esistenza degli dèi, poiché non crede a Giove o a Venere o a Minerva. Per la sua filosofia cristiana Giove non è dio, poiché non esiste: in questo senso dichiara che è corretto chiamarlo “ateo” in relazione a questi presunti dèi inesistenti. Ma egli certo non è “ateo”, perché crede nel Dio verissimo, cioè nel creatore, in Colui che ha inviato il salvatore Gesù Cristo.
Questa accusa paradossale di ateismo veniva rivolta ai cristiani nel II secolo, perché affermavano l’esistenza dell’unico Dio e negavano la verità di tutte le altre immagini di Dio non corrispondenti alla rivelazione divina. Giustino insiste sul fatto che è tipico del filosofo affermare la falsità di dottrine che non hanno fondamento, sottolineando al contempo che questo non vuol dire disprezzare le persone che sostengono idee false. L’atteggiamento filosofico implica questa libertà di vedere le cose così come oggettivamente sono, senza che questo implichi inimicizia. Già il pensiero socratico aveva affermato che si doveva essere amici della verità e per essa non si doveva aver paura di contestare gli amici (la tradizione latina aveva condensato questa affermazione nel famoso detto Amicus Plato, sed magis amica veritas).
Trasportando le argomentazioni al tempo presente non si vede perché, ad esempio, uno che affermi con convinzione che Dio non si chiama Geova e che nella Bibbia non c’è la minima traccia del rifiuto delle trasfusioni di sangue, difese invece dai testimoni di Geova, debba per questo essere etichettato come intollerante. Egli è piuttosto semplicemente una persona che pensa e che aiuta a pensare.
La fede cristiana implica questa libertà di parola: proprio dinanzi alla rivelazione di Dio in Cristo, si comprende come talune affermazioni che l’uomo può fare su Dio non siano conformi a quella verità. Aver conosciuto il volto di Dio, rende liberi dinanzi ad altre posizioni non sostenibili dalla ragione e dal pensiero.
Vedremo come Giustino è un maestro equilibratissimo nel dialogo interreligioso del suo tempo: egli sostiene questa assoluta libertà di critica delle credenze altrui, ma sa anche valorizzare – lo vedremo tra breve - il bene che c’è nella cultura pagana.
In questo, la sua filosofia illumina anche il contesto odierno. Alcuni sostengono oggi che l’unico modo di vivere pacificamente in una società caratterizzata dal dialogo interreligioso implichi l’affermazione che non esiste una verità. Convivere vuol dire – affermano costoro – che nessuno deve affermare che una certa visione di Dio è falsa; chi crede con convinzione alla verità della fede sarebbe, per ciò stesso, un intollerante.
Invece, la ragione ha un compito purificatrice delle false idee di Dio. Un credente può denunciare tranquillamente i limiti di una certa visione religiosa ed il male che ne consegue, senza per questo divenire una persona violenta ed intollerante, ma semplicemente aprendo una vera discussione libera sulla verità.
Giustino porta avanti la sua polemica affermando l’assurdità dell’idolatria: non ha senso venerare gli idoli che «dopo averli effigiati e posti nei templi, chiamarono dèi, poiché sappiamo che sono oggetti inanimati e morti e privi della forma di Dio» (Prima apologia, IX, 1).
Per Giustino il Cristo è “la vera forma di Dio”. È a partire dalla rivelazione cristiana che egli può rifiutare l’immagine di Dio proposta dal paganesimo. L’uomo non ha conosciuto Dio con le sue forze, ma Cristo Gesù ce lo ha rivelato.
Giustino prosegue affermando che questo culto degli idoli «noi riteniamo irragionevole, ma anche offensivo di Dio, il quale, dotato di gloria ed aspetto ineffabili, in questo modo darebbe nome ad oggetti corruttibili e bisognosi di cura» (Prima apologia, IX, 3). Ed ancora afferma che non si debbono venerare dèi che «possiedano i vizi tutti quanti (per non annoverarli ad uno ad uno), voi lo sapete bene; corrompono anche le giovani schiave che lavorano con loro» (Prima apologia, IX, 5).
Più oltre, un passaggio della Prima Apologia ci fa vedere, da un ben altro punto di vista da quello oggi abituale, un personaggio del quale si è impossessato la mitologia contemporanea: «Non riteniamo fuor di luogo ricordare qui anche Antinoo, vissuto ai nostri tempi, che tutti, per paura, erano spinti a venerare come dio, pur sapendo chi fosse e di dove venisse» (Prima apologia, XXIX, 4). Il preferito di Adriano viene qui relativizzato, mostrando come l’imperatore usasse del suo potere per farlo venerare pubblicamente.
Giustino, avendo compreso per l’annuncio evangelico che Dio è amore, non può non sconfessare gli dèi del paganesimo che non manifestano l’amore della croce e non possono pretendere di rappresentare la verità di Dio. Dio è la giustizia, Dio è bontà infinita, Dio è il perdono, Dio ha inviato il Figlio a prendere su di sé i peccati del mondo: ed allora chi crede che gli dèi siano invece lascivi, litigiosi, vendicativi, per questo stesso fatto afferma implicitamente che questi dèi sono idoli e non esistono affatto.
Giustino dichiara che è stata la sua libera ricerca a convincerlo che si deve credere al Dio dei cristiani: «Incominciare ad esistere non dipendeva da noi; ma seguire ciò che gli è caro, scegliendo con le facoltà razionali di cui Egli stesso ci fece dono, questo sì ci persuade e ci conduce alla fede» (Prima apologia, X, 4).
La partecipazione dei cristiani alla vita pubblica
Giustino si trova poi a difendere i cristiani da un’altra accusa che veniva loro rivolta, quella di essere lontani dalla politica, disinteressati alla vita pubblica ed al benessere dello stato. L’accusa di ateismo rivolta ai cristiani si trasformava, infatti, subito anche in questa seconda critica poiché i cristiani rifiutavano di partecipare a quelle cerimonie pubbliche che implicavano la venerazione degli dèi e l’adorazione divina degli imperatori. Solo per fare un esempio, nella Roma imperiale la triade capitolina era ritenuta la protettrice di Roma: rifiutare di venerarla poteva apparire immediatamente come disinteresse per la vita dell’urbe.
Giustino risponde a questa accusa mostrando che il cristiano è un cittadino fedele ai doveri richiesti dalla collettività e che la comunità cristiana non ha alcuna intenzione di sovvertire lo Stato, bensì lo rispetta e lo serve. Scrive in proposito: «Quanto infatti non furono in grado di fare le leggi umane, lo avrebbe compiuto il Logos divino» (Prima apologia, X, 6). Con questa affermazione cerca di mostrare che, dove le leggi emanate dallo stato non riescono a rendere migliori i cittadini, ha invece successo la fede che converte al bene i cuori stessi degli uomini.
Giustino vuole che l’imperatore capisca che l’insegnamento cristiano sostiene la crescita del senso di giustizia e di responsabilità nei credenti, rendendoli delle persone leali ed affidabili per tutti. I cristiani obbediscono alle leggi non per semplice costrizione esteriore, ma perché trasformati nel cuore.
Giustino continua: «Voi, sentito dire che noi attendiamo un regno, senza riflessione avete supposto che parlassimo di un regno umano» (Prima apologia, XI, 1). È una rassicurazione che egli vuole offrire sulla natura del regno di Dio: i cristiani non vogliono rovesciare l’impero romano e sostituirlo con un’altra entità, poiché il regno atteso dai credenti non nasce da un’autorità umana conquistata attraverso lotte di potere.
Per spiegare che i cristiani non inseguono un regno terreno, porta un’ulteriore motivazione: i cristiani rifiutano ogni dissimulazione e non nascondono mai il loro pensiero sulla fede, anche a rischio di essere uccisi. Ecco le sue parole: «Se, infatti, ci attendessimo un regno terreno, negheremmo per non essere uccisi e cercheremmo di vivere nascosti per conseguire il nostro scopo: ma, dal momento che abbiamo le speranze rivolte non al presente, non ci diamo pensiero di coloro che ci uccidono: in ogni modo si deve morire» (Prima apologia, XI, 2).
Scrive ancora: «Più di tutti gli uomini noi vi siamo utili ed alleati per la pace, dal momento che questo è il nostro pensiero: è impossibile che sfugga a Dio il malfattore o l'avido o l'insidiatore, o anche l'uomo virtuoso, e ciascuno va verso un'eterna pena o salvezza, secondo che meritano le sue azioni» (Prima apologia, XII, 1). Giustino qui cerca di mostrare ulteriormente il sostegno che la fede cristiana fornisce alla vita civile. Il cristiano, sapendo che ci sarà un giudizio in cui ognuno dovrà rispondere a Dio delle sue opere, si sforza di vivere ponendosi al servizio del bene di tutti.
Più avanti, sempre nella Prima Apologia, Giustino ritorna sulla questione ed afferma: «Noi cerchiamo di pagare, prima di tutti gli altri, dovunque, tasse e tributi ai vostri incaricati, come Egli ci ha insegnato. In quel tempo infatti alcuni si avvicinarono a Lui e gli chiedevano se bisognasse pagare i tributi a Cesare. Ed Egli rispose: “Ditemi: di chi reca l'effigie la moneta”. “Di Cesare”, dissero. “Ed Egli di rimando a loro: “Date dunque a Cesare ciò che è di Cesare e a Dio ciò che è di Dio”. Pertanto solo Dio sì, noi adoriamo, ma, per tutto il resto di buon grado serviamo a voi riconoscendovi imperatori e capi di uomini, mentre facciamo voti che si trovi in voi saggezza di pensiero, insieme al potere imperiale» (Prima apologia, XVII, 1-3).
Giustino, insomma, non vuole che ci siano dubbi su questo: i cristiani non vogliono sovvertire lo stato, ma lo sostengono e ne riconoscono la funzione e l’importanza.
La nuova vita condotta dai cristiani
Giustino cerca anche di mostrare quale sia il genere di vita che i cristiani conducono. Molte dicerie, infatti, circolavano sui cristiani e chi non li conosceva personalmente doveva essere istruito sullo stile di vita dei credenti: «Dopo la manifestazione di Cristo, viviamo in comunità e preghiamo per i nemici e ci sforziamo di persuadere quanti ingiustamente ci odiano affinché, vivendo secondo i buoni comandamenti di Cristo, abbiano la bella speranza, di ottenere, insieme con noi, la stessa ricompensa da parte di Dio, signore di tutte le cose» (Prima apologia, XIV, 3).
Pensate a questa caratteristica sorprendente del cristianesimo che è l’amore verso tutti e non solo verso i credenti. Qui Giustino spiega che la preghiera dei cristiani si rivolge a Dio anche per i nemici e che la fede cristiana anima una speranza che riguarda tutti. E scrive questo all’imperatore che si comporta da persecutore.
Un’ulteriore argomentazioni sulla superiorità della vita condotta dai cristiani, che non abbiamo il tempo di seguire dettagliatamente ma che potete leggere nell’antologia distribuita, riguarda la vita affettiva: l’Apologia propone la testimonianza della fedeltà matrimoniale vissuta con tutto il cuore e con tutta la convinzione come realtà nuova, che proviene dalla legge di Cristo, invitando i romani a considerarne la bellezza.
Il Logos che i filosofi cercano è Gesù Cristo
Giustino giunge poi a presentare direttamente la fede dei cristiani, dopo averne già accennato al capitolo tredicesimo dell’Apologia: «Dimostreremo che a ragione noi veneriamo Colui che ci è stato maestro di queste dottrine, e per questo è stato generato, Gesù Cristo, crocifisso sotto Ponzio Pilato, governatore della Giudea al tempo di Tiberio Cesare; abbiamo appreso che Egli è il figlio del vero Dio, e Lo onoriamo al secondo posto, ed in terzo luogo lo Spirito Profetico. In questo credono di dimostrare la nostra follia, dicendo che noi diamo il secondo posto, dopo l'immutabile ed eterno Dio, creatore di tutte le cose, ad un uomo posto in croce, poiché non conoscono il mistero che vi è dentro: questo vi esortiamo a considerare attentamente» (Prima apologia, XIII, 3-4).
Giustino lascia subito intuire che i cristiani erano accusati di follia a motivo della croce di Cristo, che era ritenuta dai romani indegna di Dio. Per mostrare che non è pazzia, Giustino porterà a sostegno della verità della fede le profezie dell’AT, ma anche il fatto che la fede cristiana concorda con le migliori tesi del pensiero filosofico ed, anzi, riesca a superare le contraddizioni in cui questo era caduto.
Giustino arriva così al cuore della presentazione del cristianesimo, quando spiega che il Logos totale è Gesù. Logos è un’espressione utilizzata dal NT, nel prologo del vangelo di Giovanni, ma era anche il termine che indicava la saggezza divina nel linguaggio della filosofia stoica; gli imperatori della dinastia antonina - Adriano (117-138), Antonino Pio (138-161) e Marco Aurelio (161-180) - erano grandi sostenitori dello stoicismo.
I filosofi, dice Giustino, cercano questa sapienza, cercano il Logos, la ragione che governa l’universo intero. E proprio gli stoici erano convinti che il Logos - cioè una ragione, un senso, un motivo, un ordine – governasse tutte le cose che non erano lasciate al caos ed al disordine. L’Apologia annuncia che questo Logos si è manifestato nella sua pienezza in Gesù.
Per approfondire questo aspetto possiamo leggere alcuni passaggi della Seconda Apologia - questa non ha una intestazione chiara come la prima, ma si ritiene che debba essere stata indirizzata all’imperatore Marco Aurelio, succeduto ad Antonino Pio, e che sia da considerare quasi come un’appendice della Prima Apologia.
Scrive Giustino: «Non esiste un nome che si possa imporre al Padre dell'universo, dato che è ingenerato. Infatti qualunque nome, con cui lo si chiami, richiede un essere più antico che gli abbia imposto tale nome» (Seconda apologia, VI, 1). Dio, cioè, non porta un nome che gli è stato attribuito da una qualche divinità precedente, ma è l’origine di tutto: non esiste una genealogia degli dèi, ma un solo Dio.
Infatti, «le parole ‘padre’ e ‘Dio’ e ‘creatore’ e ‘signore’ e ‘padrone’ non sono nomi, ma denominazioni derivate dai suoi benefici e dalle sue opere» (Seconda apologia, VI, 2). Ed ecco la novità cristiana:
«Il Figlio di Lui, il solo a buon diritto chiamato ‘Figlio’, il Logos coesistente e generato prima della creazione, quando all'inizio per mezzo di Lui creò ed ordinò ogni cosa, è chiamato Cristo, perché è stato unto e perché Dio ha ordinato ogni cosa per mezzo di Lui; tale nome contiene anch'esso un significato sconosciuto, così come la parola ‘Dio’ non è un nome, ma un'opinione, innata nella natura umana, di una entità ineffabile. Gesù invece è un nome che ha il significato sia di ‘Uomo’ sia di ‘Salvatore’. Infatti, come dicemmo, Egli divenne uomo, concepito per volere di Dio e Padre, per il bene degli uomini che credono in Lui e per la distruzione dei demoni» (Seconda apologia, VI, 3-5).
Ecco la fede cristiana che viene espressa da Giustino: l’unico Dio ci ha donato il proprio figlio, che è il Logos. Con l’incarnazione, con la venuta di Gesù – questo sì è un nome che noi uomini possiamo capire – il Padre si è fatto conoscere e si è offerto a noi come salvatore. Questo Logos è coesistente con il Padre, è generato prima della creazione, ma è stato inviato come Cristo, è stato unto, quando Dio lo ha inviato a noi.
Continua Giustino: «La nostra dottrina dunque appare più splendida di ogni dottrina umana, perché per noi si è manifestato il Logos totale, Cristo, apparso per noi in corpo, mente, anima» (Seconda apologia, X, 1). Giustino afferma qui che tutta la ricerca filosofica, tutta la ricerca di Dio portata avanti dalla sapienza umana, ha raggiunto la sua meta solo nell’incontro con il Logos donato da Dio agli uomini. Abbiamo già visto che Logos vuol dire “saggezza”, “sapienza”, “verbo”, “parola”, “senso”, “ragione”, “motivo”, ecc. e che gli stoici affermavano che c’era un Logos dell’universo intero. Giustino, riprendendo il prologo del vangelo di Giovanni, afferma ora che il Logos non è una forza impersonale, una forza cosmica senza libertà ed amore, ma che quel Logos è il figlio del Padre che del suo amore ha riempito l’universo intero [3].
I Logoi spermatikoi
Tutto ciò che esiste, potremmo dire, ha fondamento e motivo nel Logos che è il Figlio di Dio. Gesù Cristo è così il Logos totale, il senso profondo di ogni realtà, finalmente rivelato e conosciuto. Giustino propone, però, un ulteriore considerazione a completamento della sua affermazione dell’assoluta perfezione ed unicità del Logos.
Se questo Logos è presente in maniera totale e piena solo nel Figlio, solo in Gesù Cristo, questo non vuol dire che esso non sia presente, anche se in maniera incompleta, anche altrove. E questo innanzitutto perché il Logos ha già parlato per bocca di profeti: «Quando udite le parole dei Profeti pronunziate come se fossero loro, non crediate che siano pronunziate da essi stessi sotto ispirazione, bensì dal Logos divino che le muove» (Prima apologia, XXXVI, 1).
Non solo, però, nei profeti, ma anche nel mondo che non ha conosciuto l’Antico Testamento - perché il Logos che si è manifestato pienamente in Gesù è lo stesso che ha anche creato il mondo insieme al Padre. Così esso è presente come Logos spermatikos – è il termine che usa Giustino – in tutto il creato ed anche nella ricerca di verità che abita il cuore dell’uomo. Il termine spermatikos contiene la radice “sperma”, “seme”, cioè qualcosa che non è maturo, che deve ancora diventare maturo e raggiungere la sua pienezza. Con questa espressione Giustino vuole affermare che solo Cristo è la pienezza, la maturità, ma che dei germi di bene, dei logoi spermatikoi che sempre da lui provengono ed a lui rinviano, sono presenti anche prima della sua incarnazione nel creato.
Giustino mostra così che, se da un lato la fede cristiana afferma con sicurezza che in Gesù c’è tutta la verità - e se ci sono delle mancanze nella vita cristiana, questo dipende dagli uomini e non da una insufficienza del Cristo cui non manca nulla – dall’altro sostiene parimenti che Cristo ha misteriosamente operato anche prima di incarnarsi e che, conseguentemente, deve essere operato un discernimento continuo in ciò che esiste nel mondo per scorgervi i germi di bene, i logoi spermatikoi, anche se essi si trovano frammisti insieme a ciò che si allontana dalla verità del Logos o, addirittura, lo combatte.
Afferma Giustino a riguardo: «Tutto ciò che rettamente enunciarono e trovarono via via filosofi e legislatori, in loro è frutto di ricerca e speculazione, grazie ad una parte di Logos. Ma poiché non conobbero il Logos nella sua interezza, che è Cristo, spesso si sono anche contraddetti» (Seconda apologia, X, 2-3).
Si noti che Giustino valorizza più che le altre religioni – abbiamo visto che è molto critico verso il paganesimo – la ricerca filosofica e morale dell’uomo. Giustino sentiva che lo sforzo di comprendere il bene e la verità proprio dell’uomo doveva avere a che fare con Dio e con il suo Logos, sebbene in forma incompleta ed anche contraddittoria. Scrive ancora Giustino: «Ciascuno infatti, percependo in parte ciò che è congenito al Logos divino sparso nel tutto, formulò teorie corrette; essi però, contraddicendosi su argomenti di maggior importanza, dimostrano di aver posseduto una scienza non sicura ed una conoscenza non inconfutabile. Dunque ciò che di buono è stato espresso da chiunque, appartiene a noi cristiani. Infatti noi adoriamo ed amiamo, dopo Dio, il Logos che è da Dio non generato ed ineffabile, poiché Egli per noi si è fatto uomo affinché, divenuto partecipe delle nostre infermità, le potesse anche guarire. Tutti gli scrittori, attraverso il seme innato del Logos, poterono oscuramente vedere la realtà. Ma una cosa è un seme ed un'imitazione concessa per quanto è possibile, un'altra è la cosa in sé, di cui, per sua grazia, si hanno la partecipazione e l'imitazione» (Seconda apologia, XIII, 3-5).
In particolare, Giustino valorizza il pensiero di Socrate e di Platone e giunge ad affermare che ciò che di vero c’è nel loro pensiero deriva dal Logos che è il Cristo:
«Io confesso di vantarmi e di combattere decisamente per essere trovato cristiano, non perché le dottrine di Platone siano diverse da quelle di Cristo, ma perché non sono del tutto simili, così come quelle degli altri, stoici e poeti e scrittori» (Seconda apologia, XIII,2).
La dipendenza di Platone e Socrate dal Logos viene fatta derivare da Giustino, che non possedeva quella sensibilità storica che abbiamo noi moderni, anche dal fatto che, a suo dire, essi avrebbero letto il Pentateuco e, quindi, avrebbero imparato da Mosè i buoni insegnamenti che si trovano nei loro scritti: «Quando Platone disse: ‘La colpa è di chi sceglie, Dio non è responsabile’, prese il concetto da Mosè, poiché Mosè è più antico anche di tutti gli scrittori greci. Tutte le teorie formulate da filosofi e poeti sull'immortalità dell'anima, o sulle punizioni dopo morte, o sulla contemplazione delle cose celesti, o su simili dottrine, essi le hanno potute comprendere e le hanno esposte prendendo le mosse dai Profeti. Per questo appaiono esserci segni di verità presso tutti costoro. Li si può però accusare di non aver inteso giustamente, quando si contraddicono tra loro» (Prima apologia, XLIV, 8-9).
Ad un motivo teologico si aggiunge così un motivo storico che, però, non ha un fondamento reale. La motivazione teologica è più importante perché Giustino, a partire dalla fede nella creazione opera del Padre e del Figlio, si rende conto che Dio ha agito anche al di là dei confini del popolo di Israele e poi della chiesa, proprio perché il Logos è creatore, oltre ad essere salvatore.
Questa riflessione segnerà la storia successiva del cristianesimo, rivelando ciò che è in nuce nella Sacra Scrittura e conducendo ad un apprezzamento della cultura umana che caratterizzerà il cristianesimo successivo.
Il Dialogo con il giudeo Trifone ed il racconto autobiografico di Giustino
Nel Dialogo con il giudeo Trifone, Giustino ci fornisce alcuni elementi autobiografici per conoscere il percorso che lo condusse a Cristo.
Straordinaria è innanzitutto la sua determinazione nel porre il problema di Dio come un elemento decisivo per la felicità della vita dell’uomo:
«O forse non è questo il compito della filosofia, di indagare cioè il divino?
– Certamente, dissi, questa è anche la mia convinzione, ma la maggior parte dei filosofi non su questo ha rivolto la propria riflessione, se vi siano cioè uno o più dèi e se provvedano o no a ciascuno di noi, in quanto ritengono che il conoscere queste cose non concorra alla nostra felicità. Di più, essi si sforzano di convincerci che Dio si prende sì cura dell’universo e dei vari generi e specie, ma non di me e di te e di ognuno in particolare, altrimenti non lo pregheremmo notte e giorno.
– Dove questo li porti non è difficile capirlo: i seguaci di questa dottrina si prendono impunemente la libertà di dire e di fare ciò che vogliono; essi infatti né temono una punizione né si aspettano una qualche ricompensa da parte di Dio. E come potrebbe essere altrimenti? Essi affermano che le cose si ripetono all’infinito e che io e tu riprenderemo tali quali da capo il corso della nostra vita, senza essere diventati né migliori né peggiori. Altri invece, partendo dal presupposto che l’anima è immortale e incorporea, ritengono che non saranno puniti per aver fatto qualcosa di male – ciò che è incorporeo infatti non può subire patimenti – e che non hanno alcun bisogno di Dio, essendo appunto l’anima per se stessa immortale.
– Trifone, allora, sorridendo con arguzia, disse: - E tu, come la pensi su queste cose, qual è la tua concezione di Dio, qual è insomma la tua filosofia? Su diccelo!» (Dialogo con il giudeo Trifone, I, 3-6).
Giustino racconta allora come si sia rivolto alle diverse filosofie del tempo, cercando una risposta ai suoi quesiti su Dio e sulla vita: «Ti dirò come vedo io le cose, dissi. La filosofia in effetti è il più grande dei beni e il più prezioso agli occhi di Dio, l’unico che a lui ci conduce e a lui ci unisce, e sono davvero uomini di Dio coloro che han volto l’animo alla filosofia. Ciò nondimeno ai più è sfuggito che cos’è la filosofia e perché mai è stata inviata agli uomini: diversamente non vi sarebbero stati né platonici né stoici né teoretici né pitagorici, perché unico è il sapere filosofico.
Anch’io da principio, desiderando incontrarmi con uno di questi uomini, mi recai da uno stoico. Passato con lui un certo tempo senza alcun profitto da parte mia sul problema di Dio (lui non ne sapeva niente, d’altra parte diceva trattarsi di una cognizione non necessaria), lo lasciai e andai da un altro, chiamato peripatetico. Acuto, o almeno si riteneva tale. Costui per i primi giorni mi sopportò, poi pretendeva che per il seguito stabilissi un compenso, pena l’inutilità della nostra frequentazione. Per questo motivo abbandonai anche lui, ritenendolo proprio per nulla un filosofo.
Il mio animo tuttavia era ancora gonfio del desiderio di ascoltare lo straordinario ammaestramento proprio della filosofia, per cui mi recai da un pitagorico di eccellenza reputazione, uomo di grandi vedute quanto alla sapienza. Come dunque venni a conferire con lui, volendo diventare suo uditore e discepolo, mi fece: Vediamo, hai coltivato la musica, l’astronomia, la geometria? O pensi forse di poter discernere alcunché di quanto concorre alla felicità senza prima esserti istruito in queste discipline, che distolgono l’animo dalle cose materiali e lo preparano a trarre frutto da quelle spirituali, sì da giungere a contemplare direttamente il bello e il bene?
Così, dopo aver tessuto le lodi di queste scienze ed averne affermato la necessità, mi rispedì, avendo io dovuto ammettere che non le conoscevo. Ero afflitto, com’è naturale, avendo mancato le mie aspettative, tanto più che ero convinto che quel tale avesse una certa competenza. D’altra parte, considerando il tempo che avrei dovuto passare su quelle discipline, non potei tollerare l’idea di accantonare così a lungo le mie aspirazioni.
Senza vie d’uscita, decisi di entrare in contatto anche con i platonici, i quali pure godevano di grande fama. Eccomi dunque a frequentare assiduamente un uomo assennato, giunto da poco nella mia città, che eccelleva tra i platonici, e ogni giorno facevano progressi notevolissimi. Mi affascinava la conoscenza delle realtà incorporee e la contemplazione delle Idee eccitava la mia mente. Ben presto dunque ritenni di essere diventato un saggio e coltivavo la sciocca speranza di giungere alla visione immediata di Dio. Perché questo è lo scopo della filosofia di Platone» (Dialogo con il giudeo Trifone, II, 1-6).
Infine Giustino racconta di essersi recato in riva al mare, insoddisfatto di tutto ciò che gli era stato proposto, per riflettere e di aver lì incontrato un anziano, un filosofo cristiano che così gli parlò:
«Molto tempo fa, prima di tutti costoro che sono tenuti per filosofi, vissero uomini beati, giusti e graditi a Dio, che parlavano mossi dallo spirito divino e predicevano le cose future che si sono ora avverate. Li chiamano profeti e sono i soli che hanno visto la verità e l'hanno annunciata agli uomini senza remore o riguardo per nessuno e senza farsi dominare dall'ambizione, ma proclamando solo ciò che, ripieni di Spirito santo, avevano visto e udito. [...] Essi non hanno presentato i loro argomenti in forma dimostrativa, in quanto rendono alla verità una testimonianza degna di fede e superiore a ogni dimostrazione, e gli avvenimenti passati e presenti costringono a convenire su ciò che è stato detto per mezzo loro. Essi inoltre si sono mostrati degni di fede in forza dei prodigi che hanno compiuto, e questo perché hanno glorificato Dio Padre, creatore di tutte le cose, e hanno annunciato il Figlio suo, il Cristo da lui inviato. [...] Prega dunque perché innanzitutto ti si aprano le porte della luce, si tratta infatti di cose che non tutti possono vedere e capire ma solo coloro cui lo concedono Dio e il suo Cristo» (Dialogo con il giudeo Trifone, VII, 1-3).
Giustino, rimasto solo, così racconta della propria reazione a quelle parole: «Dopo aver detto queste e altre cose [...] quel vecchio se ne andò con l'esortazione a non lasciarle cadere, e da allora non l'ho più rivisto. Quanto a me, un fuoco divampò all'istante nel mio animo e mi pervase l'amore per i profeti e per quegli uomini che sono amici di Cristo. Ponderando tra me e me le sue parole trovai che questa era l'unica filosofia certa e proficua. In questo modo e per queste ragioni io sono un filosofo, e vorrei che tutti assumessero la mia stessa risoluzione e più non si allontanassero dalle parole del Salvatore» (Dialogo con il giudeo Trifone, VIII, 1-2).
Giustino manifesta qui la consapevolezza cristiana che l’uomo non può conoscere Dio con le proprie forze, ma è Dio che si fa conoscere attraverso la sua rivelazione. Abbiamo già letto il brano sulla croce di Cristo, che è follia per il pensiero dei filosofi pagani: solo l’amore crocifisso di Cristo rivela il volto del vero Dio e solo la croce risponde alla domanda che Giustino si era posto se Dio poteva prendersi cura “di me e di te e di ognuno in particolare”.
Il battesimo e l’eucarestia al tempo di Giustino
Torniamo ora alla Prima Apologia per leggere la preziosa testimonianza sul battesimo e sull’eucarestia che vi è contenuta. Volendo presentare agli uomini del suo tempo cos’è la fede cristiana, Giustino si sofferma su questi due sacramenti, poiché essi sono decisivi per capire il cristianesimo. Possiamo tornare ad immaginare che Giustino, nel descrivere l’eucarestia, facesse riferimento proprio a quella che si svolgeva in questi locali al piano superiore di queste terme sulle quali è sorta poi S. Pudenziana.
Scrive Giustino nella Prima Apologia: «A quanti siano persuasi e credano che sono veri gli insegnamenti da noi esposti e promettano di saper vivere coerentemente con questi, si insegna a pregare ed a chiedere a Dio, digiunando, la remissione dei peccati, mentre noi preghiamo e digiuniamo insieme con loro» (Prima Apologia, LXI, 2).
Le espressioni “a quanti siano persuasi e credano” ci riporta all’evangelizzazione ed alla catechesi. Prima di conferire il battesimo i cristiani del II secolo spiegavano la fede e chi ne diveniva persuaso e credeva alla verità poteva ricevere il battesimo. La Prima Apologia parla poi di digiuni perché il battesimo, come avviene ancora oggi per gli adulti, avveniva nella notte di Pasqua e la preparazione ad essa implicava digiuno e penitenza. Si potrebbe dire che vediamo qui l’origine della Quaresima che nasce proprio come itinerario penitenziale in preparazione al battesimo.
Continua Giustino: «Poi vengono condotti da noi dove c'è l'acqua, e vengono rigenerati nello stesso modo in cui fummo rigenerati anche noi: allora infatti fanno il lavacro nell'acqua, nel nome di Dio, Padre e Signore dell'universo, di Gesù Cristo nostro salvatore e dello Spirito Santo» (Prima Apologia, LXI, 3). Ed ancora: «Questo lavacro si chiama ‘illuminazione’, poiché coloro che comprendono queste cose sono illuminati nella mente. E chi deve essere illuminato viene lavato nel nome di Gesù Cristo, crocifisso sotto Ponzio Pilato; e nel nome dello Spirito Santo, che ha preannunziato per mezzo dei Profeti tutti gli eventi riguardanti Gesù» (Prima Apologia, LXI, 8).
Giustino prosegue parlando dell’eucarestia. Una delle strane accuse rivolte ai cristiani era di compiere un rito “cannibalico”, poiché la gente sentiva parlare di un banchetto in cui si mangiava il corpo e si beveva il sangue di Cristo e non aveva la minima idea di cosa fosse l’eucarestia.
Giustino richiama, innanzitutto, l’insegnamento dei quattro vangeli che erano già gli unici riconosciuti in tutte le chiese: «gli Apostoli, nelle loro memorie chiamate vangeli, tramandarono che fu loro lasciato questo comando da Gesù, il quale prese il pane e rese grazie dicendo: ‘Fate questo in memoria di me, questo è il mio corpo’. E parimenti, preso il calice e rese grazie disse: ‘Questo è il mio sangue’; e ne distribuì soltanto a loro» (Prima Apologia, LXVI, 3).
Giustino cerca di presentare il cibo eucaristico, perché i romani potessero averne un’idea più chiara: «Questo cibo è chiamato da noi Eucaristia, e a nessuno è lecito parteciparne, se non a chi crede che i nostri insegnamenti sono veri, si è purificato con il lavacro per la remissione dei peccati e la rigenerazione, e vive così come Cristo ha insegnato. I battezzati possono mangiare dell’eucaristia, infatti li prendiamo non come pane comune e bevanda comune; ma come Gesù Cristo, il nostro Salvatore incarnatosi, per la parola di Dio, prese carne e sangue per la nostra salvezza, così abbiamo appreso che anche quel nutrimento, consacrato con la preghiera che contiene la parola di Lui stesso è carne e sangue di quel Gesù incarnato» (Prima Apologia, LXVI, 1-2). Quel pane e quel vino, dice Giustino, sono realmente la vita di Cristo che noi riceviamo.
La Prima Apologia afferma che l’eucarestia era celebrata nel giorno detto “del sole” e presenta i vari momenti della celebrazione: «Nel giorno chiamato ‘del Sole’ ci si raduna tutti insieme, abitanti delle città o delle campagne, e si leggono le memorie degli Apostoli o gli scritti dei Profeti, finché il tempo consente. I facoltosi, e quelli che lo desiderano, danno liberamente ciascuno quello che vuole, e ciò che si raccoglie viene depositato presso il preposto, cioè il sacerdote, colui che presiede. Questi soccorre gli orfani, le vedove, e chi è indigente per malattia o per qualche altra causa, e i carcerati e gli stranieri che si trovano presso di noi: insomma, si prende cura di chiunque sia nel bisogno. Ci raccogliamo tutti insieme nel giorno del Sole, poiché questo è il primo giorno nel quale Dio, trasformate le tenebre e la materia, creò il mondo; sempre in questo giorno Gesù Cristo, il nostro Salvatore, risuscitò dai morti. Infatti Lo crocifissero la vigilia del giorno di Saturno, ed il giorno dopo quello di Saturno, che è il giorno del Sole, apparve ai suoi Apostoli e discepoli, ed insegna proprio queste dottrine che abbiamo presentato anche a voi perché le esaminiate» (Prima Apologia, LXVII, 3-7).
Il processo di Giustino e dei suoi compagni
Chiudiamo leggendo il processo di Giustino che è un testo molto semplice, ma di una grande bellezza. Sono giunti fino a noi gli atti di vari processi antichi di martiri; molti di questi sono chiaramente leggendari, ampliati per esaltare le loro vicende, mentre altri sono molto essenziali e si presume siano trascrizioni fatte realizzare da parte degli stessi magistrati come documentazione di archivio. Sono perciò estremamente affidabili per conoscere gli antichi processi dei martiri.
A questa categoria appartengono gli atti del processo di Giustino e dei suoi compagni: probabilmente i cristiani poterono ottenere una copia del processo tenutosi in prefettura, con il verbale di ciò che era stato detto. Il testo non ha fronzoli, né ampliamenti leggendari, ma è molto sobrio ed essenziale.
Il processo avvenne dinanzi al prefetto di quel tempo che, come abbiamo già visto, si chiamava Rustico - era il prefetto di Roma ai tempi di Marco Aurelio. La prefettura era situata più o meno nella zona dove sorge oggi S. Pietro in Vincoli, ma gli archeologi non ne hanno trovato ancora l’esatta ubicazione. Il prefetto era la massima autorità responsabile degli eventi che riguardavano la città di Roma.
Così recitano gli atti:
«Dopo il loro arresto, i santi furono condotti dal prefetto di Roma di nome Rustico. Comparsi davanti al tribunale, il prefetto Rustico disse a Giustino: ‘Anzitutto credi agli dèi e presta ossequio agli imperatori’».
È chiaro subito il capo di accusa: Giustino è accusato di ateismo e deve venerare gli dèi e, forse, lo stesso imperatore per sottrarsi a questa accusa. A Rustico non interessa convincere il cuore e la mente di Giustino, gli basta l’ossequio formale; è sufficiente che Giustino offra sacrifici agli dèi. È palese la differenza con la fede cristiana che riguarda, invece, la libera e convinta decisione dell’uomo.
«Giustino disse: ‘Di nulla si può biasimare o incolpare chi obbedisce ai comandamenti del Salvatore nostro Gesù Cristo’.
Il prefetto Rustico disse: ‘Quale dottrina professi?’.
Giustino rispose: ‘Ho tentato di imparare tutte le filosofie, poi ho aderito alla vera dottrina, a quella dei cristiani, sebbene questa non trovi simpatia presso coloro che sono irretiti dall’errore’.
Il prefetto Rustico disse: ‘E tu, miserabile, trovi gusto in quella dottrina?’.
Giustino rispose: ‘Si, perché io la seguo con retta fede’.
Il prefetto Rustico disse: ‘E qual è questa dottrina?’.
Giustino rispose: ‘Quella di adorare il Dio dei cristiani, che riteniamo unico creatore e artefice, fin da principio, di tutto l’universo, delle cose visibili e invisibili; e inoltre il Signore Gesù Cristo, Figlio di Dio, che fu preannunziato dai profeti come colui che doveva venire tra gli uomini araldo di salvezza e maestro di buone dottrine. E io, da semplice uomo, riconosco di dire ben poco di fronte alla sua infinita Divinità. Riconosco che questa capacità è propria dei profeti che preannunziano costui che poco fa ho detto essere Figlio di Dio. So bene infatti che i profeti per divina ispirazione predissero la sua venuta tra gli uomini’.
‘Dove vi riunite?’.
Rispose Giustino: ‘Dove ciascuno può e preferisce; tu credi che tutti noi ci riuniamo in uno stesso luogo, ma non è così, perché il Dio dei cristiani, che è invisibile, non si può circoscrivere in alcun luogo, ma riempie il cielo e la terra ed è venerato e glorificato ovunque dai suoi fedeli’.
Riprese Rustico: ‘Insomma dove vi riunite , ovverosia, dove raduni i tuoi discepoli?’. Giustino disse: ‘Abito presso un certo Martino, sopra le terme Timotine, dall’inizio di questo secondo periodo della mia permanenza in Roma. Non conosco altri luoghi di riunioni, all’infuori di quello, dove, se qualcuno voleva venire a trovarmi, lo facevo partecipe delle divine parole della verità’.
Il prefetto si volse quindi a Caritone: ‘E tu, Caritone, sei pure cristiano?’.
Rispose Caritone: ‘Sì, per volere di Dio’.
Rivolto a Carito il prefetto chiese: ‘Che dici tu, Carito?’.
Carito rispose: ‘Sono cristiana, per dono di Dio’.
Rustico chiese quindi a Evelpisto: ‘Tu pure sei uno di loro, Evelpisto?’.
Evelpisto, schiavo dell’imperatore, rispose: ‘Anch’io sono cristiano, reso libero da Cristo e, per sua grazia, partecipo alla medesima speranza di questi’.
Rivolto a Jerace, il prefetto domandò: ‘Anche tu sei cristiano?’.
Jerace rispose: ‘Sì, sono cristiano poiché venero e adoro lo stesso Dio’.
Il prefetto proseguì l’interrogatorio chiedendo: ‘È stato Giustino a farvi diventare cristiani?’.
Jerace rispose: ‘Sono cristiano da lungo tempo e cristiano rimarrò’.
Peone, alzatosi in piedi, dichiarò: ‘Anch’io sono cristiano’.
Rustico gli chiese: ‘Chi è stato il tuo maestro?’.
Peone rispose: ‘Dai genitori abbiamo ricevuto questa nobile confessione’.
Evelpisto aggiunse. ‘Ascoltavo volentieri i discorsi di Giustino, ma ho appreso anch’io dai miei genitori le parole della verità di Cristo’.
Chiese il prefetto: ‘Dove vivono i tuoi genitori?’.
Evelpisto rispose: ‘In Cappadocia’.
Rivolto a Jerace, Rustico chiese: ‘Dove vivono i tuoi genitori?’.
Egli rispose: ‘Il nostro vero padre è Cristo e la madre la fede in lui; quanto ai miei genitori terreni, sono morti e io sono giunto qui, cacciato dalla città di Iconio, nella Frigia’.
Il prefetto chiese quindi a Liberiano: ‘E Tu, che dici? Sei cristiano? Neppure tu veneri i nostri dei?’. Liberiano rispose: ‘Anch’io sono cristiano: adoro e venero infatti l’unico vero Dio’.
Rustico disse: ‘Sei dunque cristiano?’.
Giustino rispose: ‘Sì, sono cristiano’.
Il prefetto disse a Giustino: ‘Ascolta, tu che sei ritenuto sapiente e credi di conoscere la vera dottrina; se dopo di essere stato flagellato sarai decapitato, ritieni di salire al cielo?’.
Giustino rispose: ‘Spero di entrare in quella dimora se soffrirò questo. Io so infatti che per tutti coloro che avranno vissuto santamente, è riservato il favore divino sino alla fine del mondo intero’.
Il prefetto Rustico disse: ‘Tu dunque ti immagini di salire al cielo, per ricevere una degna ricompensa?’.
Rispose Giustino: ‘Non me l’immagino, ma lo so esattamente e ne sono sicurissimo’. Il prefetto Rustico disse: ‘Orsù torniamo al discorso che ci siamo proposti e che urge di più. Riunitevi insieme e sacrificate concordemente agli dèi’.
Giustino rispose: ‘Nessuno che sia sano di mente passerà dalla pietà all’empietà’.
Il prefetto Rustico disse: ‘Se non ubbidirete ai miei ordini, sarete torturati senza misericordia’.
Giustino rispose: ‘Abbiamo fiducia di salvarci per nostro Signore Gesù Cristo se saremo sottoposti alla pena, perché questo ci darà salvezza e fiducia davanti al tribunale più temibile e universale del nostro Signore e Salvatore’.
Altrettanto dissero anche tutti gli altri martiri: ‘Fa quello che vuoi; noi siamo cristiani e non sacrifichiamo agli idoli’.
Il prefetto Rustico pronunziò la sentenza dicendo: ‘Coloro che non hanno voluto sacrificare agli dèi e ubbidire all’ordine dell’imperatore, dopo essere stati flagellati siano condotti via per essere decapitati a norma di legge’.
I santi martiri glorificando Dio, giunti al luogo solito, furono decapitati e portarono a termine la testimonianza della loro professione di fede nel Salvatore».
Si noti, in questo testo straordinario, la testimonianza di uno schiavo che, pur essendo schiavo dell’imperatore, si sente ormai libero. Il martirio avvenne “al luogo solito”, che, però, è difficile da determinare; ho chiesto a vari appassionati di storia romana dove avvenivano le decapitazioni, ma ancora non ho ricevuto una risposta certa.
Giustino non è così solo filosofo, ma anche martire, perché oltre alla sua convinzione filosofica offrì la sua vita per testimoniare che credeva nell’unico Dio e nel suo Figlio, il Logos, rivelazione piena del volto divino. Nel testo del processo, come nelle due Apologie non traspare il minimo odio né contro Rustico, né contro Marco Aurelio che conducono lui ed i suoi compagni al martirio
Per ragioni di tempo non è possibile soffermarci su altri aspetti del pensiero di Giustino. Vi enuncio solo alcune tematiche che potrete vedere voi stessi leggendo i testi che avete in antologia.
Giustino ci conserva il rescritto dell’imperatore Adriano a Minucio Fondano, proconsole d’Asia nel 124/125 d.C., nel quale sono espresse le disposizioni sulla persecuzione dei cristiani vigenti a quel tempo. Non c’è ancora la ricerca d’ufficio dei cristiani, come avverrà in un secondo momento nel corso dell’impero di Marco Aurelio ai tempi del martirio di Giustino, ma si può procedere contro i cristiani solo a partire da un’esplicita accusa che deve essere provata.
Interessante è anche il duplice motivo che da origine alla Seconda Apologia. Giustino torna a scrivere in difesa dei cristiani per rispondere alle polemiche sorte a motivo di una donna che si era separata dal marito che non voleva vivere con lei la fedeltà coniugale; la moglie aveva scoperto la bellezza di questo valore solo dopo essere divenuta cristiana (Tolomeo e Lucio, che l’avevano resa cristiana, erano stati martirizzati per le accuse del marito).
Ma la Seconda Apologia vuole rispondere anche alle accuse che un certo Crescente, filosofo, aveva rivolto a Giustino. Giustino gli risponde scrivendo, fra l’altro:
«se già vi sono noti i miei quesiti e le sue risposte, allora vi è chiaro che egli non conosce nulla delle nostre dottrine; se invece le conosce, non osa (come invece fece Socrate) parlare per timore di chi l'ascolta: allora, come dissi sopra, si dimostra non amante del sapere, ma amante dell'opinione, incapace di apprezzare il bellissimo detto di Socrate: ‘Non si deve anteporre l'uomo alla verità’» (Seconda Apologia, III, 6). Anche in questa occasione concreta, Giustino porta avanti la sua difesa della verità come ciò a cui bisogna massimamente attenersi, dopo averla ricercata.
Meriterebbe un approfondimento anche la questione del rapporto di Giustino con l’ebraismo. Egli è stato talvolta accusato per alcune sue espressioni rivolte contro il popolo ebraico che non riconosceva in Cristo la pienezza della rivelazione e, d’altro canto, egli ci testimonia delle persecuzioni che i cristiani avevano ricevuto, ancora ai tempi di Adriano, sia da parte degli ebrei agli ordini di Bar Kochba, ai tempi della II guerra giudaica, che avevano suppliziato numerosi cristiani che non accettavano di bestemmiare il nome di Cristo, sia in altre circostanze non specificate a cui Giustino fuggevolmente accenna parlando del rapporto fra la Bibbia ebraica e quella greca.
Interessante è anche questo riferimento all’esistenza di una Bibbia ebraica e di una Bibbia greca, tradotta quest’ultima dai rabbini di Alessandria d’Egitto, segno che la cosa doveva far discutere a quel tempo (per un approfondimento di questa questione, vedi sul sito www.gliscritti.it, nella sezione Mostra sulla Bibbia, La Bibbia dei LXX).
Non avendo tempo di approfondire tutte queste questioni, passiamo ora alla visita della basilica di S. Pudenziana, cominciando all’esterno, dal suo portale.
Il portale della basilica di S. Pudenziana
La facciata ha ricevuto l’ultima sistemazione nel 1870, quando furono realizzati anche gli affreschi, oggi quasi completamente scomparsi, eseguiti da P. Gagliardi (si intravedono nel timpano, in alto, Cristo adorato da angeli, e, all’altezza delle due finestre, al centro S. Pietro tra S. Pudente e S. Pudenziana ed, ai lati, S. Gregorio Magno e S. Pio I papa). La facciata era stata affrescata nel 1588 dal Pomarancio, ma della sua opera non è rimasto nulla.
Molto bello è il protiro che precede il portale, in particolare l’architrave scolpita, anche se è stata rimaneggiata durante i restauri cinquecenteschi (l’intervento è chiaramente visibile nella strana disposizione delle varie parti). La datazione è discussa, ma si propende per l’età di Gregorio VII (1073-1085). L’architrave è stata, inoltre, pesantemente restaurata nell’ottocento, di modo che non sembra quasi consumata dal tempo.
Al centro è raffigurato Cristo sotto forma di agnello che porta la croce, l’Agnus Dei; è ben ritto in piedi, è il crocifisso immolato come agnello, ma resuscitato dal Padre e vincitore.
La scritta intorno al suo clipeo recita: +MORTVVS ET VIVVS IDEM SVM PASTOR ET AGNUS +HIC AGNUS MUNDVm RESTURAT SANGVINE LAPSVM, che tradotto significa: “+Morto e vivo io sono insieme pastore ed agnello +Quest’agnello con il suo sangue redime il mondo perduto”. Vi segnalo subito che trovate ben descritta tutta la chiesa, con le iscrizioni che stiamo vedendo, nel volumetto scritto da Stefano Merola su questa basilica.
Al di sopra dell’architrave corre la scritta: AD REQVIEM VITAE CVPIS, O TV QVOQVE VENIRE EN PETET, INGRESSVS FVERIS SI RITE REVERSVS, ADVOCAT IPSE QVIDEM VIA DVX ET JANITOR, IDEM GAVDIA PROMITTENS, ET CRIMINA QVAEQVE REMITTENS, cioè tradotto liberamente “Oh tu che desideri venire al riposo della vita, ti sarà aperto l’ingresso se giustamente ritorni: ti chiama colui che è via, guida e portinaio, lo stesso che promette le gioie e che rimette le colpe”.
Non si dimentichi che la porta è un simbolo molto importante della fede cristiana. Qui si vuole sottolineare che la porta è Cristo, l’agnello immolato, che invita tutti ad entrare.
A destra ed a sinistra dell’agnello sono raffigurate le due sorelle S. Prassede e S. Pudenziana, che hanno in mano due lampade, secondo la parabola delle vergini sagge.
A destra S. Prassede con la scritta: +NOS PIA PRAXEDIS PRECE sanCtA sanCtAs FER AD aEDIS +OCCVRRIT SPONSO PRAXEDIS LVMINE CLARO, cioè “+O santa Prassede, con le tue preghiere facci entrare nelle sante dimore +Prassede va incontro allo sposo con la lampada accesa”.
A sinistra S. Pudenziana con la scritta: +PrOTEGE PRAECLARA NOS VIRGO PVDENQVeTIANA +VIRGO PVDENQVeTIANA CORAm STAT LAmPADE PLENA, cioè “+Proteggici, o illustre vergine Pudenziana +La vergine Pudenziana sta innanzi con la lampada piena”.
Ai due estremi dell’attuale sistemazione sono visibili a sinistra Pastore ed a destra Pudente.
A sinistra Pastore con la scritta: +SAnCtE PRECOR PrO NOBIS ESTO ROGATOR +HIC CVNCTIS VITaE PASTOR DAT DOGMATE sanCtE, cioé “+O santo Pastore, ti prego di essere nostro intercessore +Qui a tutti Pastore da i santi insegnamenti della vita”.
A destra Pudente, con la scritta: +TE ROGO PUDENS sanCtE NOS PVURGA CRIMINA TRVDENS +ALMVS ET ISTE DOCET PVDENS AD SIDERA CAeLES, cioè “+Ti prego, o san Pudente, purificaci allontanando i peccati +Questo santo Pudente ci indica la strada del cielo”.
Chi sono questi personaggi? Ne abbiamo già parlato l’anno scorso visitando la basilica di S. Prassede qui vicino (su questo vedi La basilica di Santa Prassede in Roma).
Secondo la tradizione trascritta nei cosiddetti Passionari o Leggendari Romani, destinati ad uso liturgico (Leggendari dal gerundivo, ‘libri che debbono essere letti’), del V-VI secolo d.C. (quindi abbastanza tardivi), Pudente era un senatore romano ed aveva quattro figli: due figlie, Prassede e Pudenziana e due figli, Novato e Timoteo (notate già come tornano i nomi dei due personaggi a cui erano dedicate le Terme Novaziane o Timotine; la tradizione incrocia i vari nomi!).
Pudenziana, secondo i Passionari, morì, forse martire, all’età di sedici anni e venne sepolta dal padre. Novato donò allora i propri beni al sacerdote Pastore ed a papa Pio I (pontefice fra il 140 ed il 155), seguito in questo anche dall’altro fratello Timoteo. Prassede, che era solita raccogliere il sangue dei martiri e custodirlo nel pozzo che è ora venerato nella omonima basilica, fece allora costruire due chiese, una per il padre e per la sorella, cioè quella in cui ci troviamo, ed una seconda a proprio nome, che sarebbe appunto l’attuale basilica di S. Prassede. La basilica di S. Pudenziana ha conservato un analogo pozzo che sarebbe stato utilizzato, sempre per le reliquie, da Pudenziana. Le notizie, come dicevamo, sono abbastanza tardive e vennero poi collegate ulteriormente con un Pudente che si trova citato in 2 Tim.
Tutti questi personaggi ci accolgono, insieme all’Agnus Dei, scolpiti nel protiro. Si insiste sui temi delle lampade accese con le quali si entra alle nozze, sul perdono dei peccati e sugli insegnamenti che derivano dalla parola di Dio trasmessa dalla chiesa.
Entrando nuovamente nella basilica non è difficile accorgersi che si è mantenuto l’impianto basilicale della fine del IV secolo-inizi del V, cioè del tempo dei pontificati di Siricio (384-399) e di Innocenzo I (401-417). A questo tempo risale il mosaico che vediamo nell’abside e la struttura stessa della chiesa con le colonne di reimpiego, che furono riportate in vista nei restauri del cinquecento.
La basilica era una tipica struttura a tre navate, ma le due navate laterali furono poi trasformate in cappelle, sempre nel cinquecento. La chiesa fu prolungata verso l’ingresso, come si vede chiaramente dalla diversità delle murature, ma non è chiaro in che periodo avvenne questo ampliamento.
La finalità dell’edificio che preesisteva alla basilica è discussa. Abbiamo già visto dell’ipotesi delle Terme di Novato e di Timoteo, le cui sostruzioni si troverebbero sotto la chiesa. In effetti, gli scavi compiuti nel 1894 e negli anni 1928-1930, hanno portato alla luce le murature antiche, ma la loro funzione è appunto discussa. Oltre alle terme si sono volute riconoscere nei sotterranei anche le murature di una antica domus che sarebbe la domus ecclesiae nella quale si sarebbero riuniti originariamente i cristiani del tempo di Pudente.
Sembra probabile, comunque, che, prima dell’erezione della basilica, sia esistito qui un titulus Pudentis, cioè una delle prime parrocchie romane, eretta da un nobile di nome Pudente. Questo dato sembra certo. Da questo Pudente sarebbe poi nato il nome di basilica Pudentiana.
Nei sotterranei sono stati ritrovati alcuni affreschi del IX secolo, con S. Pietro tra S. Prassede e S. Pudenziana, segno che quei locali erano certamente adibiti in quel tempo ad uso liturgico.
Il mosaico di S. Pudenziana
Il mosaico absidale è straordinario ed è certamente l’opera più interessante sopravvissuta della basilica paleocristiana della fine del IV secolo-inizi del V. È il più antico mosaico cristiano absidale che si sia conservati in Roma. Per i suoi tratti stilistici esso si presenta esattamente come un mosaico romano di età tardo-imperiale. Solo il soggetto lo qualifica come cristiano. Evidentemente – e come poteva essere diversamente? – i primi mosaicisti chiamati a decorare i luoghi di culto cristiani provenivano dal numero dei tanti artisti dell’epoca caratterizzati dallo stile definito del loro tempo.
La parte che si è conservata integra è quella alla sinistra di Cristo. Le figure degli apostoli, con i loro volti, sono tipicamente romane. Così come gli edifici alle spalle ed il cielo con le nuvole dal colore screziato.
Purtroppo il mosaico si è molto rovinato nei secoli nella sua parte destra ed, in particolare, a motivo della ristrutturazione che la chiesa ebbe nel 1588. Scomparvero allora un apostolo per lato, così come furono ridotte in alto ed in basso le dimensioni del mosaico, con i relativi tagli. Di qualità, ma comunque opera di questi restauri, sono le figure in basso alla destra del Cristo, visibilmente diverse da quelle alla sinistra, nelle quali sono forse rappresentati papa Paolo III Farnese, Pier Luigi Farnese e Giulia Farnese, cioè i personaggi della famiglia papale che promosse il restauro tardo cinquecentesco del mosaico: sarebbero il quartultimo, il terzultimo ed il penultimo volto in basso a destra (così la Rosini che ipotizza ulteriori presenze farnesiane nei diversi volti di restauro del mosaico).
Successivi restauri nei secoli XVI-XIX portarono ad ulteriori interventi che sono evidenti nelle mani sgraziate dei primi due apostoli di sinistra.
Le fonti ricordano una iscrizione nel mosaico ora scomparsa, ma vista dal Panvinio prima del 1568 e successivamente interpretata dal De Rossi, che rimandava al pontificato di Innocenzo I (401-417). Siamo al tempo del primo sacco di Roma avvenuto nel 410, quando i visigoti capeggiati da Alarico furono la prima armata barbarica ad entrare in Roma. È l’evento epocale che spinse Sant’Agostino a scrivere il De civitate Dei e mosse parimenti San Girolamo a trattare di questo evento.
Gli studi del Tiberia, direttore del restauro del mosaico, confermati dalla Andaloro, sostengono anzi che il mosaico sia immediatamente successivo all’evento, a motivo dell’iscrizione, assolutamente unica nel suo genere, che il Cristo regge al centro del mosaico “Dominus conservator ecclesiae Pudentianae”. Il mosaico avrebbe allora lo scopo di esprimere artisticamente la fiducia nella protezione del Signore sulla basilica e, indirettamente, sulla chiesa e sulla città di Roma, dopo gli eventi del 410.
L’iconografia del mosaico è incentrata sulla più antica rappresentazione conservatasi, in un’abside, del Pantokrator. Cristo è assiso sul trono, nel gesto di insegnare agli apostoli. Il fatto che egli sia Signore e maestro è espresso sia dalla mano destra con il classico gesto di “parola”, che riprende l’antico gesto dell’“adlocutio” romana, sia dalla sinistra che regge il volume aperto e scritto. Cristo è rappresentato così come la Parola stessa di Dio, come colui che rivela agli apostoli il “mistero” di Dio, ed insieme come il Signore che governa la storia e come il giudice escatologico. Sono, insomma, probabilmente da sovrapporre e non da considerare escludentesi a vicenda le tesi che vogliono il Cristo rappresentato o come maestro/filosofo, o come imperatore sovrano o come giudice finale.
Intorno a Cristo, ma a lui sottoposti, stanno i dodici apostoli, vestiti con toghe senatoriali romane. Sono i nuovi “sapienti”, i nuovi “maestri”, perché istruiti della sapienza divina, la cui “stoltezza è più sapiente della saggezza umana” (cfr. 1 Cor 1,25). Siamo in un periodo nel quale sempre più i vescovi divengono i garanti dell’amministrazione statale imperiale, il cui giudizio è richiesto anche nei principali processi cittadini, perché ritenuto equo.
A fianco di Cristo, in particolare, stanno in primo piano Pietro e Paolo, incoronati da due donne, che rappresentano, secondo l’iconografia che ritroviamo nel mosaico di poco successivo di Santa Sabina, i cristiani provenienti dal giudaismo e dal paganesimo: ovviamente la donna che incorona Pietro rappresenta l’ecclesia ex circumcisione, mentre quella che incorona Paolo simboleggia l’ecclesia ex gentibus. Le due donne potrebbero essere anche S. Pudenziana e S. Prassede. Fra le mani di Paolo sta un libro, anch’esso ricostruito nei restauri, dove sono poste le prime parole del vangelo di Matteo (“LIBER GENERATIONIS”), ma si ritiene generalmente che l’iscrizione non corrisponda a quella originaria.
Dietro il Cristo la croce gemmata, sul Golgota, che celebra la gloria della sua crocifissione. A fianco della croce si vedono i quattro esseri viventi dell’Apocalisse che adorano la croce, nei quali il mosaicista, secondo la tradizione cristiana, vede gli evangelisti (cfr. su questo un articolo su I simboli dell'Apocalisse nella cripta della cattedrale di Anagni).
Essi sono già disposti secondo l’ordine dei vangeli nella Vulgata, Matteo, Marco, Luca, Giovanni, da sinistra a destra. La croce è così rappresentata come vittoriosa, come motivo di gloria e di onnipotenza, anche sul male. È l’esaltazione della croce, secondo la titolazione della festa che celebrava, in occasione del ritrovamento della croce da parte di Elena e Costantino, il legno glorioso elevato in alto dal quale Cristo governava il mondo attirando tutti a sé.
Anche l’iconografia degli edifici retrostanti è complessa e non univocamente interpretata. Il luogo dove siede in trono il Cristo e dove sono assisi gli apostoli è delimitato da una cornice architettonica, dietro la quale si ergono edifici cittadini. Potrebbe trattarsi di una raffigurazione degli edifici dell’Esquilino intorno a Santa Pudenziana, come della Gerusalemme storica abbellita da Costantino e dai suoi successori con le nuove basiliche, così come della Gerusalemme celeste che sta salda mentre le città terrene vengono conquistate e cadono.
Tutto orienta comunque, quale che sia la linea interpretativa adottata, a leggere nel mosaico una sottolineatura della nuova presenza nel mondo della “città di Dio” che, pur essendo diversa dalla città umana, tuttavia la sostiene e la illumina, proprio a motivo della datazione del mosaico che, come abbiamo detto, sembra essere immediatamente successiva al primo sacco di Roma.
Levando lo sguardo in alto si vede la cupola ovale realizzata nei restauri cinquecenteschi che comportò la riduzione del mosaico absidale. La cupola è affrescata dal Pomarancio nel 1588, con la gloria di Cristo, circondato da angeli con i loro strumenti musicali.
La Cappella Caetani
La Cappella Caetani, a sinistra della navata centrale, è costruita, secondo alcuni studiosi, sopra quella parte delle terme sorta sulla domus che si riteneva abitata dal senatore Pudente e dai suoi figli e che sarebbe stata la prima ad essere trasformata in luogo di culto cristiano, prima ancora che l’erezione della basilica mutasse l’orientamento liturgico di novanta gradi.
Il suo stato attuale risale ai lavori del 1588, quando fu interamente rifatta. Al suo interno i due monumenti funebri del cardinal Enrico Caetani (morto nel 1599) e del duca Filippo Caetani (morto nel 1614) sono attribuite a Carlo Maderno. I mosaici della volta sono stati realizzati nel 1621 da Paolo Rossetti su disegno di Federico Zuccari. Rappresentano i quattro evangelisti, Sibille e profeti e, sulla parete di controfacciata, le due sante Prassede e Pudenziana che raccolgono il sangue dei martiri.
Molto bello è il rilievo marmoreo dell’altare che raffigura l’Adorazione dei magi, iniziato da Pietro Paolo Olivieri (1551-1599) e terminato da C. Mariani. Sui gradini del fondo sinistro della cappella, la tradizione vuole che si sia verificato un miracolo eucaristico. Fuori della cappella si vede il pozzo che sarebbe stato utilizzato da Santa Pudenziana per la conservazione delle reliquie dei martiri.
Uscendo dalla cappella, in fondo a sinistra, al termine dell’antica navata laterale, è posto l’altare di S. Pietro, dove l’apostolo, ospite di Pudente e della sua famiglia avrebbe celebrato messa. Sia Pietro che Paolo sono venerati nella basilica, poiché si vuole che la domus sottostante sia stata una delle loro residenze romane.
L’Oratorio mariano
Merita ancora una visita l’Oratorio mariano costruito sull’antico deambulatorio precedente alla basilica, attribuito alle antiche terme. Viene detto Mariano per l’antica immagine di Maria che è qui venerata, ma l’iconografia degli affreschi riporta anche al tema della presenza paolina in questo luogo.
In questo oratorio, oltre ad una crocifissione del XVI secolo, gli affreschi che si sono conservati risalgono probabilmente al tempo di Gregorio VII: sulla parete a ridosso dell’abside vediamo la Madonna con il bambino ed, a fianco, le due sante Prassede e Pudenziana.
Sulla parete ad angolo, invece, sono affrescate loro storie di S. Paolo e del suo incontro con la famiglia di Pudente. In alto a sinistra si vede S. Paolo che predica il vangelo a Pudente ed alla sua famiglia (con la scritta PAVLVS ALENS MENTEm PLEBIS NATASQue PUDENTEM), in alto a destra l’apostolo battezza Novato e Timoteo (con la scritta AUXIT MACTATOS HIC VIVO FONTE RENATOS), mentre in basso, più rovinati, si intravedono il battesimo delle due sante Prassede e Pudenziana e l’ordinazione sacerdotale conferita da Paolo a Timoteo. Sulla parete di fronte all’altare, un angelo incorona S. Valeriano, S. Tiburzio e papa Urbano; sulla volta, l’Agnus Dei con i quattro evangelisti.
NOTE AL TESTO
[1] In realtà, il passo degli Atti del martirio di Giustino in questo punto è corrotto e non è certo che le terme fossero quelle Timotine. Alcuni autori hanno proposto di leggere i “bagni di Martino”, altri ancora i “bagni Tiburtini”; la cosa, insomma, è discussa.
[2] Mi diverto a segnalare qui anche il Codice da Vinci di Dan Brown, perché l’autore è un personaggio molto furbo in questo campo. Egli lascia passare l’idea, contraria a ciò che stiamo dicendo, che il cristianesimo vuole sempre nascondere la verità, insinuando che siano stati gli evangelisti a nascondere la vera vita della Maddalena, sia stata la chiesa a far sparire gli apocrifi, ecc. ecc. Ed invece, se leggete con più attenzione, vi accorgete che è proprio il Codice da Vinci ad utilizzare il meccanismo letterario del nascondimento (così come lo hanno utilizzato anticamente gli apocrifi stessi). Dan Brown presenta Saunière, che nel romanzo è un ricercatore del Louvre e quindi una persona pubblica, un professore, uno che dovrebbe scrivere articoli e libri. Ed invece Saunière, che afferma di sapere che Gesù è sposato con la Maddalena, non ha mai scritto un articolo su questo tema, né un libro, né un testo anonimo su Internet! Egli “conosce”, ma custodisce la sua conoscenza come un segreto. Afferma espressamente il romanzetto di Dan Brown che Saunière, ormai ferito a morte, dice tra sé e sé: “Devo trasmettere il segreto”. Nel Codice da Vinci lo pseudo-segreto non è nascosto dalla chiesa, ma da Saunière stesso e dai suoi predecessori. Il testo di Dan Brown continua: “Esisteva una sola persona al mondo a cui passare la fiaccola”! Ed è per questo che, prima di morire, Saunière decide di lanciare un messaggio cifrato perché solo un iniziato, e non la gente comune, lo possa intercettare segretamente. Una “ininterrotta catena di conoscenze” – afferma ancora il Codice – unisce questi portatori solitari del “segreto”. Ora che Saunière, l’unico guardiano del “segreto”, sta per morire bisogna che un altro, e solo un altro, venga coinvolto nella trasmissione segreta di esso.
[3] Sul senso del termine Logos nella filosofia e nel NT, in particolare nel Prologo di Giovanni, vedi un breve testo del cardinal Carlo Maria Martini Il principio era il Verbo /Logos.