Il cardinal Carlo Maria Martini: un instancabile maestro della “lectio divina”, dell’allora cardinal Joseph Ratzinger
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Riprendiamo dal web un intervento apparso nel volume “Carlo Maria Martini da 15 anni sulla cattedra di Ambrogio”, Casa Editrice San Paolo, 1996, pp. 101-103, con il titolo originario Un instancabile maestro della “lectio divina”. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la loro presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto.
Il Centro culturale Gli scritti (24/8/2009)
Conobbi per la prima volta Carlo Maria Martini come specialista di critica testuale neotestamentaria. Accanto a Kurt Aland e altri, l’attuale arcivescovo di Milano figura, infatti, tra i curatori della ventiseiesima edizione del testo Nestle del Nuovo Testamento apparsa nel 1979.
Ricordo ancora che Heinrich Greeven, professore di Nuovo Testamento presso la facoltà evangelica di Bochum ed egli stesso autore di una synopsis greca del Nuovo Testamento, mi manifestò il suo grande stupore per il fatto che un uomo tanto colto come Martini avesse accettato il ministero di vescovo. Era per lui incomprensibile che uno specialista di quel livello, esperto conoscitore di lingue e manoscritti biblici, potesse dedicarsi al compito di pastore, con le esigenze tanto nuove che questo incarico comportava, andando cosi perso per il mondo scientifico, che pure non poteva contare su molti altri specialisti tanto qualificati in questo difficile settore. Non riusciva a capire come una simile specializzazione potesse aprire una strada per l’annuncio e, dunque, per l’attività pastorale.
D’altra parte, se penso a diversi nostri esegeti della prima metà di questo secolo, posso comprendere pienamente il senso di queste riflessioni. Non raramente, infatti, si è avuta una riduzione dell’esegesi alla critica testuale e alla filologia, che a malapena lasciava qualche spazio all’autentico messaggio della Bibbia. La problematica del linguaggio, sicuramente importante, faceva passare in secondo piano la questione del senso. La parola della Bibbia, proveniente dal passato, restava così prigioniera del passato. La sua attualità non era messa a tema: porre delle domande al riguardo era considerato non scientifico.
Due anni più tardi, in occasione della Pasqua del 1981, quando mi capitò tra le mani la traduzione tedesca del libro di Martini Vita di Mosè - Vita di Gesù. Esistenza pasquale, ebbi modo di capire come, al contrario di posizioni di quel genere, nel caso di Martini l’esegesi e la pastorale fossero tra loro congiunte. In quel piccolo libro trovai quella capacità di rendere attuale la parola biblica, che sempre avevo auspicato. Gli aspetti più propriamente specialistici dell’esegesi erano stati messi da parte, tuttavia non si poteva non riconoscere che essi erano ben familiari all’autore.
La competenza dello specialista veniva però sottratta a quel suo isolamento che, non di rado, fa sì che la Scrittura non riesca a risalire la china dei secoli. In tempi recenti, quando ci si è resi conto di questa carenza, si sono spesso tentate attualizzazioni arbitrarie e prive di adeguato fondamento. Si percepisce così solamente la voce dello studioso; la Bibbia finisce con l’illustrare solo le sue opinioni, invece di offrire qualcosa di proprio e di nuovo, che non proviene da noi stessi. Nelle sue letture della storia di Mosè, Martini recepisce le interpretazioni dei padri e dei rabbini. In questa storia della recezione si rispecchiano interpretazioni applicative del testo che, indubbiamente, non sempre reggono dal punto di vista storico-critico; esse, tuttavia, sono in grado di rivelare qualcosa di quel dinamismo spirituale che si cela nella storia.
Così si apre il messaggio interiore della figura di Mosè: la guida di Israele durante l’esodo parla con noi; nel suo itinerario e nei suoi destini si rispecchiano le grandi domande dell’esistenza credente. La tipologia Mosè-Cristo perde ogni carattere artefatto; corrispondenze e analogie interiori si rendono manifeste. Il contesto vitale cristiano e giudaico, a partire dal quale Martini coglie quella figura, viene contemporaneamente a porsi come un contesto mediato in modo fortemente personale: le tentazioni e le sofferenze, il cammino e gli smarrimenti di questo grande testimone di Dio si rivelano come esperienze originarie dell’uomo, che hanno a che fare con la nostra personale lotta per la fede e che ci mostrano la via che dalla “vita inautentica” conduce alla gioia: Mosè diviene così, in modo molto personale, la guida per questo esodo dall’inautentico all’autentico.
Ecco perchè mi sono rallegrato di poter finalmente conoscere di persona l’autore di queste meditazioni sulla Sacra Scrittura, che erano divenute per me una compagnia nel mio personale cammino spirituale. Non ricordo bene quando ci siamo incontrati per la prima volta. In ogni caso, dopo essere divenuto prefetto della Congregazione per la Fede, ho ritenuto indispensabile che Martini diventasse membro di questo dicastero. Così, per partecipare alle riunioni dei cardinali di questa congregazione, che si svolgono il mercoledì, egli viene da Milano, ogni volta che vi si discute un tema importante.
Nessuno si meraviglierà se dico che noi non siamo sempre stati dello stesso parere. Per temperamento e per formazione siamo senza dubbio molto diversi l’uno dall’altro. Le mie prime esperienze religiose risalgono al periodo in cui Romano Guardini riteneva a buon diritto una priorità assoluta il «distintivo cristiano», l’Unterscheidung des Christlichen (così si intitolava una sua opera del 1935). Negli anni della ricostruzione, subito dopo la guerra, questo compito poteva sembrare meno necessario. Si richiedeva allora la collaborazione di tutti; la fede cristiana doveva anzitutto dimostrare di saper offrire delle solide fondamenta a un nuovo sistema di vita in un mondo che era cambiato; doveva, inoltre, dimostrare la propria capacità di offrire un contributo per il cammino verso il futuro a una società in cui il pluralismo era divenuto un fatto irreversibile.
Tuttavia, dopo che a partire dal 1968 era sorto il pericolo di fondere l’escatologia con l’utopia, riducendo così la fede a una prassi di trasformazione del mondo, si rendeva nuovamente necessaria la ricerca del tratto distintivo del cristianesimo (Unterscheidung des Christlichen), non per rinchiuderlo tra le mura del ghetto ma per salvaguardare il suo dinamismo, che supera il tempo per giungere all’eterno. Fu questa l’esperienza da me vissuta negli anni Settanta all’interno delle università tedesche, in cui mi incontravo con colleghi di tutte le facoltà, anche con quelli che non erano cattolici o forse nemmeno cristiani credenti.
Mi pare che le esperienze di Martini nella formazione di giovani sacerdoti provenienti da tutti i continenti fossero di altra natura: qui si rendevano maggiormente possibili forme diverse di mediazione, sintesi d’ampio respiro; si trattava di scandagliare le possibilità ancora inesplorate della realtà cattolica.
In ogni caso, queste due posizioni non si escludono affatto; al contrario, esse si integrano e completano a vicenda. Ecco perchè ho sempre considerato un arricchimento e un aiuto i voti del cardinale Martini, anche laddove io non potevo condividerli senza riserve: posizioni e accenti differenti sono necessari per permetterci, a partire da aspetti diversi, di avvicinarci al compito complesso della Chiesa in questo tempo e di tentare, più o meno, di svolgerlo.
Del fatto che, pur da differenti punti di partenza, vogliamo la stessa cosa, siamo divenuti ambedue pienamente consapevoli quando, circa tre anni fa, io parlai a un corso per vescovi da poco ordinati, su invito del cardinale Martini, allora presidente della conferenza dei vescovi europei. Dovevo dire qualcosa su come un vescovo possa tenersi aggiornato dal punto di vista teologico e mantenere la propria capacità di giudizio, anche di fronte al sovraccarico di impegni pratici che grava su di lui e malgrado il fatto che l’ambiente teologico sia oggi caratterizzato da trasformazioni rapide e da un pluralismo che possono generare confusione.
Cercavo anche di mostrare che il vescovo non può certo essere un «tecnico» della teologia, un esperto di tutte le sue complesse problematiche, dato che, in ogni caso, non è nemmeno questo ciò che davvero importa ma, piuttosto, qualcosa di totalmente diverso: che egli sappia distinguere tra fede e mancanza di fede. II suo compito non è quello di giudicare le teorie teologiche. Deve però possedere il «senso della fede» e saper riconoscere dove la teologia parla a partire dalla fede e dove essa si distacca dalla fede. Ciò implica che, in primo luogo, sia lui stesso un uomo di fede e «impari» sempre più profondamente la fede. D’altra parte, l’aiuto essenziale per tutto ciò e la lectio divina: una confidenza sempre nuova e sempre da approfondire con tutta la Sacra Scrittura, letta nel contesto della fede e della preghiera, che si nutre della liturgia della Chiesa.
Con questo accento posto sulla lectio divina come cuore della formazione sacerdotale (ed episcopale) mi incontrai appieno con l’arcivescovo di Milano, che è per i suoi sacerdoti e per la sua diocesi un instancabile maestro della lectio divina e che, con i suoi libri, riesce a introdurre noi tutti in essa in modo sempre nuovo. Per questa guida spirituale vorrei oggi esprimere il mio ringraziamento, e insieme il desiderio che egli continui a indicarci la strada di un accostamento credente alla parola di Dio nella Bibbia.