Filippo battezza l’eunuco etiope sulla strada di Gaza (At 8,26-40): un’immagine del catechista e della catechesi. Una meditazione della prof.ssa Bruna Costacurta
Riprendiamo dagli Atti del II Convegno nazionale dei catechisti “Testimoni del Vangelo nella città degli uomini. Adulti nella fede, testimoni di carità”, tenutosi a Roma dal 20 al 22 novembre 1992, la meditazione della prof.ssa Bruna Costacurta sul brano di At 8,26-40. Il testo è stato pubblicato nel volume “Voi siete il sale della terra”, LDC, Leumann, 1993, pp. 39-47. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza di questo testo sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto.
Il Centro culturale Gli scritti (21/7/2009)
Il testo di cui ci occuperemo in questo nostro momento di ascolto della Parola è tratto dal libro degli Atti e racconta l'incontro tra Filippo e l'etiope eunuco, che culmina con la conversione e il battesimo di quest'ultimo.
Si tratta di un testo particolarmente significativo, che rappresenta un paradigma del cammino di catechesi e di educazione al Vangelo. E noi lo leggeremo per lasciarci insegnare dalla stessa Parola di Dio cosa vuol dire accompagnare e istruire nella fede chi si apre al mistero del Signore e desidera conoscerlo e accoglierlo.
Atti 8,26-40
Un angelo del Signore parlò intanto a Filippo: «Alzati, e va' verso il mezzogiorno, sulla strada che discende da Gerusalemme a Gaza; essa è deserta». Egli si alzò e si mise in cammino, quand'ecco un Etiope, un eunuco, funzionario di Candace, regina di Etiopia, sovrintendente a tutti i suoi tesori, venuto per il culto a Gerusalemme, se ne ritornava, seduto sul suo carro da viaggio, leggendo il profeta Isaia. Disse allora lo Spirito a Filippo: «Va' avanti, e raggiungi quel carro». Filippo corse innanzi e, udito che leggeva il profeta Isaia, gli disse: «Capisci quello che stai leggendo?». Quegli rispose: «E come lo potrei, se nessuno mi istruisce?». E invitò Filippo a salire e a sedere accanto a lui. Il passo della Scrittura che stava leggendo era questo: «Come una pecora fu condotto al macello e come un agnello senza voce innanzi a chi lo tosa, così egli non apre bocca. Nella sua umiliazione il giudizio gli è stato negato, ma la sua posterità chi potrà mai descriverla? Poiché è stata recisa dalla terra la sua vita». E rivoltosi a Filippo l'eunuco disse: «Ti prego, di quale persona il profeta dice questo? Di se stesso o di qualcun altro?». Allora Filippo prendendo a parlare e partendo da quel passo della Scrittura, gli annunziò la buona novella di Gesù. Proseguendo lungo la strada, giunsero a un luogo dove c'era acqua e l'eunuco disse: «Ecco qui c'è acqua: che cosa mi impedisce di essere battezzato?». Fece fermare il carro e discesero tutti e due nell'acqua, Filippo e l'Eunuco, ed egli lo battezzò. Quando furono usciti dall'acqua, lo Spirito del Signore rapì Filippo e l'eunuco non lo vide più e proseguì pieno di gioia il suo cammino. Quanto a Filippo, si trovò ad Azoto e, proseguendo, predicava il vangelo a tutte le città, finché giunse a Cesarea.
1. Filippo, servitore della Parola
Cominciamo con il vedere il contesto in cui questo racconto è situato. Filippo è uno dei sette diaconi (è definito così in At 6,5; poi, in 21,8 è chiamato «evangelista»), che, dopo il martirio di Stefano, va per il paese diffondendo la Parola di Dio. Usando il titolo di questo convegno, potremmo dire che egli è un «testimone del Vangelo nella città degli uomini», in particolare nella città di Samaria.
In questa regione infatti Filippo svolge il suo ministero di predicazione, la sua «catechesi», convertendo molti e operando miracoli: gli indemoniati sono liberati, i paralitici guariti, e (dice il testo all'inizio del cap. 8) «vi fu grande gioia in quella città». Siamo dunque in una situazione positiva: la Buona Novella è accolta, e il potere di Dio riconosciuto e operante tra gli uomini.
Ma siamo anche sotto il segno della debolezza e della minaccia: la persecuzione è in atto, Stefano è stato lapidato, con l'approvazione di Saulo, ed è proprio la dispersione provocata dalla persecuzione che porta Filippo e gli altri in giro per il paese a diffondere il Vangelo.
Qui si situa l'episodio emblematico di Simon Mago che si converte e riceve il battesimo ad opera di Filippo, ma poi, vedendo gli apostoli che donavano lo Spirito, non sa riconoscerne il senso e offre denaro per acquistare quel potere. Viene in questo modo messa in questione la gratuità della salvezza, e la consapevolezza che il dono di Dio può solo essere accolto, mai posseduto come proprio.
Davanti a questa nuova minaccia, di tipo più ideologico, che tenta di inglobare e snaturare la verità della salvezza che viene da Dio, il cammino del Vangelo continua ad andare avanti nella sua dimensione di dono: a Simon Mago è offerto il perdono e l'irradiazione dell'annuncio prosegue, a partire da Gerusalemme, in tutta la Samaria. La Chiesa è nel pieno del suo mistero, e in lei si rivela la realtà del Regno di Dio in cui paradossalmente l'evangelizzazione è aiutata dalla persecuzione, la gioia si accompagna al martirio, e, sotto l'azione dello Spirito, dalla morte scaturisce la vita.
In questo contesto si situa il nostro racconto. L'iniziativa viene dal Signore: è il suo angelo che manda Filippo sulla strada dell'Etiope: «Alzati e va' verso mezzogiorno...». Il diffondersi della Parola di Dio è il risultato di un invio (divino) e di un'obbedienza (umana): Dio chiama a sé per mandare a servire i fratelli; e colui che obbedisce alla chiamata sa di essere al servizio di un progetto che non gli appartiene, che egli non può gestire, ma che gli viene affidato da Colui che è l'origine di ogni bene perché questo bene possa diffondersi tra tutti gli uomini. È dunque questa obbedienza, questo essere chiamati e inviati, che per noi avviene attraverso la mediazione della Chiesa, che fonda ogni catechesi.
2. L'incontro con l'Etiope
Avviene così l'incontro tra Filippo e quell'altro uomo, di cui non sappiamo il nome, e che viene così descritto «un Etiope, un eunuco, funzionario di Candace, regina di Etiopia, sovrintendente a tutti i suoi tesori».
2.1. L'Etiopia
Il primo elemento da notare è la sua nazionalità: si tratta di un etiope. L'Etiopia di cui si parla qui è una regione a Sud dell'Egitto, che corrisponde all'attuale Sudan, e che veniva chiamata anche Kush o Nubia. L'idea che evoca è di una terra lontanissima, posta ai confini del mondo; un paese alieno, sconosciuto, molto remoto. E ora, un suo rappresentante viene raggiunto dalla Parola del Vangelo.
Sembra di assistere al compimento della promessa di Gesù al momento della sua ascensione al cielo, all'inizio del libro degli Atti: alla domanda degli apostoli sul tempo della ricostituzione del regno di Israele, il Signore risponde: «Non spetta a voi conoscere i tempi e i momenti che il Padre ha riservato alla sua scelta, ma avrete forza dallo Spirito Santo che scenderà su di voi e mi sarete testimoni a Gerusalemme, in tutta la Giudea e la Samaria e fino agli estremi confini della terra» (1,6-8).
Ora la Parola è giunta agli estremi confini della terra, giungendo all'etiope che sta ritornando in quelle regioni remote. Il cammino della Parola di Dio è in pieno dinamismo: abbiamo visto che, da Gerusalemme, l'annuncio ha raggiunto i Samaritani; poi, dopo l'etiope, toccherà il cuore di Saulo, il giudeo, e poi di Cornelio, il centurione romano: l'Evangelo di Gesù, secondo la promessa, sta arrivando fino ai pagani e ai popoli più lontani. E il dinamismo in cui anche noi siamo inseriti, inviati ai lontani, anche se magari sono i nostri vicini di casa.
Di questa terra di Kush o Etiopia si parla diverse volte nell'Antico Testamento. Ma, in particolare, è interessante per noi l'oracolo di Amos: «Non siete voi per me come gli Etiopi, Israeliti? Parola del Signore. Non sono forse io che ho fatto uscire Israele dal paese d'Egitto, i Filistei da Caftòr e gli Aramei da Kir? Ecco, lo sguardo del Signore Dio è rivolto contro il regno peccatore...» (9,7-8). Siamo davanti a un oracolo di condanna contro il popolo infedele: Dio si proclama Signore di tutti i popoli, e Israele è paragonato agli Etiopi, anche lui straniero, quando era in terra d'Egitto, anche lui lontano se abbandona il Signore.
L'elezione di Israele è un dono che bisogna sempre continuare a ricevere, non conquista di cui ci si può appropriare una volta per tutte. Israele, ma questo vale anche per noi, è il popolo di Dio se continua a essergli fedele, se vive in obbedienza all'alleanza, se accetta l'elezione con tutte le sue conseguenze. Ma se smette questa fedeltà, se si sottrae al rapporto con Dio, allora diventa un popolo come gli altri, diventa come gli Etiopi, lontani e sperduti, popolo barbaro a cui la Parola del Signore sembra non poter mai arrivare. E invece, arriva: l'Etiope che incontra Filippo si apre all'annuncio e diventa Israele. Il lontano per definizione è diventato vicino, fratello, perché è raggiunto dall'annuncio di salvezza.
2.2. Eunuco
Ma questa lontananza «geografica» dell'Etiope racchiude una lontananza, una diversità ancora più profonda, perché di lui si dice che è Eunuco. Forse a quel tempo questo titolo non era più necessariamente legato alla mutilazione fisica, ma poteva invece designare una carica di alto ufficiale di corte. Di fatto gli eunuchi (in senso reale, fisico) venivano utilizzati nell'antichità per sovrintendere agli harem dei sovrani, ma a loro venivano affidati anche altri incarichi di responsabilità e di governo.
Questo era forse determinato dal fatto che essi, essendo nell'impossibilità di avere una famiglia e dei figli propri, erano completamente dediti ai loro signori e presentavano così il doppio vantaggio di una fedeltà totale e insieme di una certa innocuità, non potendo rappresentare un pericolo di concorrenza per la dinastia regale. Poi, però, è forse possibile che il carattere fisico di menomazione non sia stato più collegato al titolo e alla carica, e allora la denominazione di eunuco si sarebbe trasformata in una indicazione di una funzione da svolgere. Questa funzione, nel nostro testo di Atti 8, di fatto è precisata: l'eunuco in questione era amministratore del regno, gran tesoriere della regina d'Etiopia.
Non sappiamo dunque nulla di preciso sulla condizione fisica di questo ufficiale etiope, ma certamente il termine «eunuco» usato qui da Luca per designarlo è, quanto meno, fortemente allusivo. Degli eunuchi infatti si parla nella Bibbia per sottolineare che la loro menomazione è talmente grave da escluderli dalla comunità di Israele. La legislazione del Levitico (21,20) prescrive che essi non possano esercitare funzioni sacerdotali appunto perché portatori di una deformità (insieme a ciechi, zoppi, nani, ecc.); e nel Deuteronomio si dice che non possono entrare nella comunità del Signore a partecipare alle assemblee cultuali (Dt 23,2).
L'eunuco rappresenta dunque un elemento di estraneità, di lontananza dal popolo degli eletti, e, in qualche modo, di esclusione dalla vita stessa. Egli infatti è condannato a una radicale sterilità perché, privato della possibilità di generare, non può prolungare la propria vita in quella dei figli e resta perciò solo, in balia della morte, dopo la quale non rimane più nulla di lui. Secondo la tradizione culturale d'Israele, il figlio prolunga la vita del padre dopo la sua morte, è carne di suo padre che continua a vivere. Ma se il figlio non c'è, resta solo la morte.
Quest'eunuco può un poco rappresentare gli uomini d'oggi, a cui la Chiesa è mandata: uomini con tante ricchezze, economiche, culturali, scientifiche, eppure spesso tanto sterili dentro, lontani dalla vita e dai suoi valori più veri.
C'è un testo di Isaia, che riguarda gli eunuchi, che può aiutarci a capire meglio il nostro racconto di Atti. Si tratta di Is 56,3-5: «Non dica lo straniero che ha aderito al Signore: "Certo mi escluderà il Signore dal suo popolo!". Non dica l'eunuco: "Ecco, io sono un albero secco!" [una bella immagine di quella sterilità e morte di cui stiamo parlando]. Poiché così dice il Signore: Agli eunuchi che osservano i miei sabati, scelgono ciò in cui io mi compiaccio e restano saldi nella mia alleanza, io concederò nella mia casa e dentro le mie mura un monumento e un nome migliore di figli e figlie; darò loro un nome eterno che non sarà mai cancellato».
L'eunuco è accostato allo straniero, quello che non fa parte del popolo, che ne è escluso (e qui, in Atti, abbiamo uno che è eunuco e straniero). Eppure, dopo l'esilio, quando si apre per il popolo di Dio la grande promessa della restaurazione, questa riguarda anche gli stranieri e gli eunuchi: coloro che sono senza nome perché senza figli, che non possono godere della benedizione di una nuova vita che nasce, avranno un nome eterno, perché sarà un nome che viene da Dio, e non da una discendenza della carne.
Tutto questo fa pensare ad Abramo, il padre del popolo, il cui destino è prefigurazione e promessa per tutto Israele e per ogni credente. Anche Abramo è senza nome e senza figli, senza un futuro, perché Sara è sterile. Anche lui è straniero, perché la chiamata di Dio lo ha reso senza terra, in attesa di un paese e di una discendenza che sembra non giungere mai. Ma la fede di Abramo sa andare al di là delle apparenze e vedere l'invisibile, perché è una fede, come dice la lettera agli Ebrei, che «è fondamento delle cose che si sperano e prova di quelle che non si vedono» (Eb 11,1).
Abramo sa fidarsi e credere, e la promessa si adempirà per lui, anche nella carne: il ventre morto di Sara fiorirà in vita e Abramo, lo straniero, il senza figli, il senza benedizione, avrà una discendenza numerosa come le stelle del cielo e la sabbia del mare, e diventerà, lui il benedetto, benedizione per tutti. Ebbene, il dono definitivo di Dio, di cui parla l'oracolo di Isaia, è ancora più grande, la sua realizzazione escatologica è ancora « migliore dei figli e figlie» della carne. Il dono di Dio, per colui che crede, è fonte di una fecondità di vita misteriosa e per sempre.
Ora, l'Etiope del nostro testo forse non lo sa, ma quel suo essere eunuco (o almeno definito tale) è legato a questa catena di allusioni, è portatore di questo mistero di sterilità e fecondità che attraversa la storia biblica della salvezza. Ancora più significative diventano allora le altre notizie che il racconto di Atti ci dà di lui: era sulla strada che va verso Gaza perché tornava da Gerusalemme dove era stato per il culto.
2.3. La strada deserta
Innanzitutto, dunque, si trova in cammino, con tutto quello che questo comporta di precarietà, di estraneità, anche di pericolo. È straniero in terra straniera, nel disagio del viaggio, un po' sradicato, esposto agli imprevisti. Questo costringe a rimanere aperti, a rinunciare ad alcune sicurezze, crea solidarietà con chi è nella stessa situazione, tutto un insieme di circostanze favorevoli all'incontro con gli altri, e perciò anche all'incontro con l'Altro.
In più, la strada che sta percorrendo è un po' particolare. Il comando dell'angelo di Dio a Filippo infatti era stato: «Va' verso mezzogiorno, sulla strada che scende da Gerusalemme a Gaza; essa è deserta». La strada è quella che va a Sud, verso l'Egitto, e dunque anche verso il paese di origine dell'Etiope, ma è interessante la menzione di Gaza, e la strana annotazione «è deserta»: la strada? la città di Gaza? Il testo non è chiaro, ma crea per l'incontro tra Filippo e l'eunuco un'ambientazione esterna che sembra quasi riprodurre e sottolineare la situazione personale dell'Etiope. Vediamo perché.
Gaza era stata un'importante città filistea, facente parte della Pentapoli, molto potente e in una posizione strategicamente rilevante, perché si trovava sull'unica via che dall'Egitto conduceva in Siria. Distrutta all'inizio del I secolo a. C., era stata ricostruita nel 57 d. C., ridiventando un fiorente centro di cultura e di paganesimo. Essa evoca dunque un'idea di forza e di ricchezza, e questa impressione è aumentata da un gioco sonoro che riguarda il suo nome. Infatti, in ebraico il nome Gaza ('azza) è collegato a una radice verbale (’zz) che significa essere forte, potente; in più Luca, che invece scrive in greco, vi aggiunge un gioco di parole: quest'uomo che va a «gaza» è sovrintendente del tesoro di Candace, e Luca usa, per dire «tesoro», una parola rara di origine persiana, «gaza», che ha lo stesso identico suono del nome della città. Per cui il testo greco direbbe: l'eunuco che va a Gaza è sovrintendente della gaza della regina.
Tutto questo contribuisce a creare un effetto di potenza e di opulenza, che contrasta con l'indicazione che la città era deserta, o che si trovava su una strada deserta. Perché questa specificazione non vuol solo dire che c'era poca gente, o che era una via poco frequentata, ma «deserto» è parola che evoca un'immagine di distruzione, di abbandono, di sterilità, che d'altra parte sono state un'esperienza reale nel passato di quella città.
C'è dunque una certa somiglianza tra Gaza e l'eunuco: anche l'eunuco come Gaza, è ricco e potente (è tesoriere del regno), ma anche lui è «deserto», perché è sterile e privo di figli.
2.4. Gerusalemme
Ma dicevamo che l'Etiope è sulla strada di Gaza perché sta tornando da Gerusalemme, dove era andato, dice letteralmente il testo, «per prostrarsi», per adorare e rendere culto. Nulla viene detto sullo statuto religioso di quest'uomo: era un convertito al giudaismo, un proselito (come per esempio Nicola, uno dei diaconi: 6,5), oppure un timorato di Dio (come viene definito Cornelio in 10,2), o un simpatizzante, o ancora un pagano? Luca non specifica nulla a livello di titolo, di definizione, ma dice cosa quell'uomo faceva: era andato a Gerusalemme per il culto e ora tornava leggendo le Scritture Sante. Certamente, dunque, c'era una relazione tra lui e la fede d'Israele; comunque fosse, l'eunuco era un uomo che si era aperto al mistero divino rivelatosi nella storia della salvezza.
Anche questo forse lo fa simile a coloro a cui noi siamo inviati: sono uomini spesso disponibili, toccati dalla fede, ma che ancora non vi sono cresciuti dentro, non ne hanno maturato il senso e, come l'eunuco, sono alla ricerca di qualcosa di più, anche se a volte non lo sanno neppure loro. E Filippo parte proprio da questo desiderio di verità che è nell'uomo per condurre l'Etiope alla piena consapevolezza, e lo fa ponendogli una domanda cruciale: «Capisci quello che stai leggendo?».
Abbiamo qui nell'originale greco un gioco di parole intraducibile tipo: «Hai intelletto per quello che hai letto?» (cf Vulgata). Il punto è che siamo davanti a un mistero, non basta leggere, bisogna capire e accogliere il senso di quello che si legge. Sembra risuonare qui la profezia di Isaia sul popolo che non sa più riconoscere e capire i segni del Signore (29,11-12): «Per voi ogni visione sarà come le parole di un libro sigillato: si dà a uno che sappia leggere dicendogli: "Leggilo", ma quegli risponde: "Non posso perché è sigillato". Oppure si dà il libro a chi non sa leggere dicendogli: "Leggilo", ma quegli risponde: "Non so leggere"».
L'eunuco sa leggere, ma il libro è sigillato per lui nel suo senso, ed egli non può capirlo. La sua risposta è: «Come potrei, se nessuno mi istruisce?» (letteralmente, «mi guida, mi conduce, mi mostra la via»). E poi invita Filippo a salire sul carro insieme a lui. È molto significativo, in questo nostro testo, il gioco delle domande. L'eunuco può chiedere di essere aiutato perché è stato prima interpellato dall'altro, che è lì in obbedienza allo Spirito. Dio è il primo, l'iniziativa è sua, e l'uomo risponde aprendosi al dono, e riconoscendo in sé un desiderio di capire e un bisogno di essere istruito che sono anch'essi dono del Signore. Ma serve la domanda dell'altro, di Filippo, per portare alla luce la consapevolezza di quel bisogno, per rivelare il desiderio di verità di chi riconosce di non sapere, e aiutarlo così ad aprirsi al dono di Dio.
È questo il primo passo della catechesi, ed è il primo passo di un cammino da compiere insieme, facendo da guida, mostrando la via (secondo il senso di quell'«istruire» di cui parla l'eunuco). Un cammino comune, seduti insieme sul carro, uno a fianco dell'altro, per lasciarsi rivelare il mistero della salvezza di Dio. Così inizia la catechesi di Filippo con l'eunuco.
3. Is 53,7-8
Il testo che l'Etiope stava leggendo era un brano del cosiddetto Canto del Servo sofferente, che si trova in Is 52-53. Un testo difficile anche dal punto di vista testuale, che Luca cita secondo la traduzione della LXX. Il Canto, nella sua globalità, delinea la figura misteriosa del Servo del Signore che, in obbedienza alla missione di Dio, passa attraverso la sofferenza e la morte per giungere alla luce e portare salvezza a tutto il popolo.
La domanda che l'eunuco pone a Filippo è quella che si pongono anche gli esegeti di oggi: di chi si parla in Is 52-53? È il profeta stesso, un re, il popolo d'Israele, il Messia? La figura è misteriosa, ma la Chiesa e gli scrittori neotestamentari, penetrando nel mistero, hanno sempre visto nel Signore Gesù il compimento di quella profezia.
Il Servo inviato da Dio per instaurare la giustizia e far conoscere la salvezza, che viene rifiutato dal popolo e messo a morte proprio a causa del suo messaggio, è Gesù di Nazaret, il Figlio di Dio; è lui l'agnello immolato che può finalmente aprire il libro sigillato che nessuno può leggere (come dice Ap 5).
È questo che Filippo svela all'eunuco, portandolo per i cammini della fede, attraverso la buona novella del Servo Gesù morto e risorto, che subisce la passione e la distruzione del corpo per giungere alla vera vita e condurvi tutti i fratelli. Ma il testo del profeta è drammatico, e tocca il mistero di un vivere segnato dalla morte, dalla sofferenza, dalla sterilità, dalla solitudine. L'eunuco si confronta con la propria situazione, e il brano che legge gli ripropone l'eterno perché del soffrire. Quel canto del Deutero-Isaia intimorisce e sgomenta, perché mette davanti all'enigma mai risolto del dolore innocente.
«Come una pecora fu condotto al macello e come un agnello senza voce innanzi a chi lo tosa, così egli non apre la sua bocca». Il Servo viene descritto nel momento della passione, in balìa dei suoi persecutori, abusato, cosificato, come agnello da tosare e destinato al macello. Ma è un agnello «senza voce», è un condannato a morte che «non apre la sua bocca». Questa annotazione sul tacere del Servo viene ripresa dagli evangelisti che, nei racconti della passione di Gesù, insistono sul suo silenzio durante il processo davanti a Pilato. Gesù infatti sta subendo false accuse che, se confutate, provocherebbero la condanna a morte dei falsi accusatori.
Nella legislazione di Israele, infatti, si prevede che il falso testimone subisca la stessa pena che la sua testimonianza avrebbe provocato nei confronti di colui che era stato accusato ingiustamente (cf Dt 19,16-20).
Gesù dunque tace perché il suo parlare per difendersi sarebbe stato necessariamente un accusare a sua volta gli altri dimostrando la loro falsità, con conseguente punizione mortale per loro. E perciò tace, in qualche modo provocando così la propria condanna a morte.
La morte di Gesù diventa in tal modo causa di salvezza, perché luogo di realizzazione del perdono della vittima innocente che toglie il peccato del peccatore. Il perdono di Gesù libera gli uomini dalla loro colpa, trasformando la sua morte in offerta di vita, e i suoi persecutori in persone amate per le quali morire.
Così, per il Servo, nell'umiliazione si realizza la glorificazione, e col suo morire egli distrugge la morte e la apre alla risurrezione. È questa la buona novella, il nucleo di ogni catechesi: che siamo stati perdonati, che il peccato è stato tolto, che la morte non ha più potere e che anche per noi è diventato possibile non morire più, ma consumare il dono della nostra vita, fino in fondo, per tutti i fratelli.
4. Il battesimo
Ebbene, quando ci si apre a questa realtà, allora tutta la vita cambia. E l'eunuco, dice il racconto di Atti, chiede di essere battezzato, perché lì c'era acqua. Erano nel deserto (la strada era deserta, la città desolata), e invece, camminando insieme sulla via di Gaza e sui sentieri della Parola di Dio, arrivano all'acqua, che è vita e fecondità. Cambia così lo scenario, e cambia la realtà dell'eunuco.
La fede a cui egli si è aperto si traduce ora nel segno sacramentale, che realizza il mistero di morte e risurrezione appena accolto dal neofito. Nel nostro brano c'è un versetto, il 37, che non compare nel testo che abbiamo letto perché si tratta di una glossa, che conserva però una formula battesimale molto antica e perciò è di grande interesse.
Il versetto in questione recita: «Filippo disse: Se credi con tutto il cuore, è permesso [di essere battezzato, secondo la richiesta dell'Etiope]. Rispose allora l'eunuco: Credo che Gesù Cristo è il Figlio di Dio». Tutto si gioca sulla fede in Gesù, compimento definitivo del Servo annunciato nel libro di Isaia. Per quella fede, l'eunuco può entrare nella morte simbolica del battesimo e scoprirvi il germe nuovo della vita risorta. E allora l'eunuco, che è sterile e senza figli, riconosce il Padre che è nei cieli, e diventa figlio proclamando che Gesù è il Figlio di Dio.
Anche il Servo che ha aperto all'Etiope la via della vita era apparentemente sterile, fatto perire in una morte senza posterità. Ma la realtà è duplice, e misteriosa. Il testo di Isaia citato in Atti dice: «La sua posterità chi potrà mai descriverla?». Perché non c'è? O perché è troppo grande, e innumerevole, e misteriosa? La morte del Servo è un enigma, così come la sua fecondità. Gesù apparentemente muore solo, abbandonato dai seguaci e senza discendenti. La benedizione promessa ad Abramo sembra fallire, e ridursi a uno solo che muore.
Ma proprio lì invece si realizza la nascita del popolo innumerevole, perché la morte del giusto, che è dono di sé, è vittoria sulla morte. Il Cristo genera morendo e dal suo costato aperto nasce la Chiesa, la grande comunità dei credenti, dove nessuno è più straniero, e gli eunuchi sono coloro che danno la vita per il Regno. La morte è diventata vita, la sterilità non c'è più, e l'eunuco diventa parte della comunità dei credenti e riceve il nome nuovo, secondo la promessa di Is 56 di cui parlavamo all'inizio: «agli eunuchi... concederò... un nome migliore di figli e figlie: darò loro un nome eterno che non sarà mai cancellato».
A questo punto, Filippo può sparire: «Quando furono usciti dall'acqua, lo Spirito del Signore rapì Filippo e l'eunuco non lo vide più». Filippo scompare. Come Elia, dopo aver condotto il popolo alla conoscenza del vero Dio. Ancor più, come Gesù dopo aver fatto catechesi ai discepoli di Emmaus.
5. Rapporti con Lc 24,13-35
In realtà, la nostra narrazione di Atti 8 ha molti punti in comune con quella dei discepoli di Emmaus riportata in Lc 24.
- Innanzitutto, siamo in situazione di cammino: l'eunuco è sulla strada che da Gerusalemme scende verso Gaza; i discepoli, dice Luca, «erano in cammino per un villaggio distante circa sette miglia da Gerusalemme, di nome Emmaus» (v. 13). Stanno tornando tutti dalla città santa. Uno, l'Etiope, dopo il culto; gli altri, i discepoli, dopo la Pasqua tragica della morte del Signore.
- La situazione è per tutti difficile: l'eunuco è sterile, toccato dalla morte; i discepoli, dice Luca, hanno il «volto triste» (v. 17), hanno perso la speranza di vedere Israele liberato (v. 21), e sono sconvolti da strane dichiarazioni delle donne (v. 22).
- Per tutti, c'è incapacità di capire: l'eunuco non sa interpretare quello che legge; i discepoli non sanno interpretare quello che hanno visto. Anche loro è come se leggessero una storia, ma senza capirla: hanno visto Gesù «profeta potente in opere e in parole», hanno visto i capi del popolo consegnarlo e crocifiggerlo, hanno udito che il sepolcro è vuoto, ma non sanno capire cosa tutto questo possa voler dire.
- E in ambedue i casi, c'è uno sconosciuto che prende l'iniziativa e fa la domanda iniziale: «Capisci quello che leggi?», chiede Filippo; «Che sono questi discorsi? », domanda Gesù.
- E poi, c'è la spiegazione dello sconosciuto, che cammina con loro, e li guida alla scoperta della fede. Filippo spiega all'eunuco la Scrittura a partire dall'evento del Cristo morto e risorto. Gesù spiega la sua morte e rivela la sua risurrezione a partire dalla Scrittura: «E cominciando da Mosè e da tutti i profeti spiegò loro in tutte le Scritture ciò che si riferiva a lui» (v. 27).
Per percorrere il cammino della storia della salvezza occorrono Gesù e la Scrittura, che si illuminano a vicenda. Per conoscere Gesù bisogna ascoltare la Parola profetica, e per capire la Parola bisogna giungere a Gesù che la compie definitivamente.
- Quando poi la fede è stata aiutata e guidata, appare l'elemento sacramentale: Filippo battezza l'eunuco; Gesù ripete il gesto eucaristico: «Quando fu a tavola con loro, prese il pane, disse la benedizione, lo spezzò e lo diede loro» (v. 30). Il sacramento realizza il dono, ed è lì che si opera il definitivo riconoscimento della verità.
- E alla fine, sia Filippo che Gesù spariscono: il maestro esteriore visibile sembra andarsene, ma c'è lo Spirito ora ad ammaestrare il cuore di coloro che hanno creduto, e a guidarli, nella comunità ecclesiale, sulla via della vita.
Ebbene, possiamo allora dire, a conclusione di questa nostra lettura, che il cammino della catechesi è questo andare con gli uomini per aiutarli ad aprirsi al mistero della salvezza donata e realizzata nel Signore risorto. Ed è un cammino che si opera nella comunità, che è attraversato dall'evento sacramentale, e che è affidato alla Chiesa che, come Filippo, fa diaconia, e si mette al servizio degli uomini, testimoniando la fede e operando la carità. Allora la catechesi si fa vita, e diventa dono di gioia.
La conclusione del nostro racconto di Atti è in questo senso particolarmente significativa. Dopo la sparizione di Filippo, si dice: «L'eunuco proseguì pieno di gioia il suo cammino. Quanto a Filippo, si trovò ad Azoto e, proseguendo, predicava il Vangelo a tutte le città, finché giunse a Cesarea». Il discepolo è nella gioia, perché ha trovato la vita, e il suo cammino ora è segnato da una nuova consapevolezza: quella di sapersi amato, perdonato, salvato. E Filippo, «il catechista», il testimone, va altrove: la missione continua, perché bisogna che quella promessa di vita e quella gioia giunga anche ad altri.
La buona notizia del Vangelo è per tutti, e ognuno di noi è chiamato ad operare per la sua diffusione, aiutando la fede dei fratelli a farsi adulta e consapevole, così che la carità sia operante e la gioia sia piena, in tutte le «città degli uomini». II Signore doni a noi tutti di essere testimoni credibili e servi fedeli.
Per altri testi della prof.ssa Bruna Costacurta, presenti su questo sito, vedi:
In particolare:
- Genesi 1-4: creazione, peccato e redenzione, meditazioni della prof.ssa Bruna Costacurta
- Genesi 2. La creazione dell'uomo e della donna, di Bruna Costacurta
- Giuseppe e i suoi fratelli (Gen 37-50), di Bruna Costacurta
- Cantico dei Cantici. Lo sposo e la sposa, della prof.ssa Bruna Costacurta
- Osea 2. L'amore sino alla fine, della prof.ssa Bruna Costacurta