Primato dell’uomo, primato di Dio o primato della natura? La svolta antropologica in questione dinanzi al processo evolutivo: le biotecnologie (del cardinal Camillo Ruini)
Presentiamo sul nostro sito la prolusione di S.Em. il cardinal Camillo Ruini tenuta per l’inaugurazione dell’anno accademico della Università Pontificia Salesiana il 16 ottobre 2007 con il titolo originario ‘Università, cultura ed educazione’. Abbiamo omesso i riferimenti contingenti all’evento che si celebrava.
Il centro culturale Gli scritti (5/2/2008)
[...] Benedetto XVI, nel discorso del 19 ottobre 2006 al Convegno ecclesiale di Verona, ha affermato che l’educazione della persona è “una questione fondamentale e decisiva” e che pertanto “occorre preoccuparsi della formazione della sua intelligenza, senza trascurare quella della sua libertà e capacità di amare”.
L’11 giugno di quest’anno, in occasione del Convegno annuale della Diocesi di Roma, è tornato sul tema, sottolineando che siamo in presenza di una grande “emergenza educativa”, per “la crescente difficoltà che si incontra nel trasmettere alle nuove generazioni i valori-base dell’esistenza e di un retto comportamento”: difficoltà che coinvolge sia la scuola sia la famiglia e ogni altro organismo che si prefigga scopi educativi.
Vorrei tentare di scandagliare le motivazioni più profonde di questa emergenza educativa, che è sotto gli occhi di tutti e che riguarda moltissimi Paesi, gran parte dei quali hanno il cristianesimo tra le principali matrici della loro cultura. L’educazione e la formazione della persona, non entrando qui nella questione della differenza tra le due nozioni, hanno anzitutto e necessariamente a che fare con la persona stessa, ossia con l’uomo, inteso nel senso di essere umano, comprensivo della differenza tra uomo e donna. Quando dunque non è chiaro, o cambia profondamente il senso che attribuiamo alla parola “uomo”, e ancor più radicalmente quando, come è oggi il caso, entra in gioco la possibilità, almeno ipotetica, di un cambiamento, per nostra iniziativa, dell’essere dell’uomo, non possono non entrare a loro volta in crisi, o comunque in grande movimento, tutti i parametri educativi.
Se guardiamo alle coordinate culturali che caratterizzano il nostro tempo, e che appaiono esse stesse in rapido movimento, siamo pressoché obbligati a riconoscere che ci ritroviamo in una tale situazione. All’origine e alla guida di essa sta chiaramente la razionalità scientifico-tecnologica: un suo aspetto recente, in veloce sviluppo e particolarmente incisivo, è l’applicazione all’uomo delle biotecnologie, che rimangono comunque completamente all’interno del cammino globale della razionalità scientifico-tecnologica, in un’interdipendenza che riguarda non solo le possibilità di sviluppo nei singoli campi ma anche la direzione di marcia complessiva. Così, ad esempio, le biotecnologie e le neuroscienze hanno molto a che fare con l’informatica, ivi compresi gli sviluppi delle cosiddette “intelligenze artificiali”, mentre per un altro verso l’attuale biologia umana è difficilmente concepibile al di fuori del quadro generale dell’evoluzione biologica, che a sua volta si pone in stretta continuità con l’evoluzione cosmica.
Il risultato che sembra emergere, riguardo all’uomo, dal convergere di questi fattori è quello, da una parte, di una riconduzione del soggetto umano – ma nel linguaggio dei biologi si parla piuttosto della specie homo sapiens sapiens – all’interno del macroprocesso evolutivo, con la tendenza a considerare decisiva la continuità del processo stesso rispetto alle differenze che si generano al suo interno. Così i caratteri propri della nostra specie, in ultima analisi l’intelligenza e la libertà, non vengono certo negati, ma considerati semplicemente sviluppi e affinamenti ulteriori di capacità cerebrali evolutesi progressivamente: nella stessa definizione classica dell’uomo come animal rationale, la differenza specifica rationale finisce per perdere quel rilievo di insormontabile differenziale ontologico che le è appartenuto nella nostra civiltà.
D’altra parte però, guardando non al passato ma al presente e al futuro, l’accento si sposta di nuovo su ciò che appartiene all’uomo in esclusiva, nel senso che le capacità scientifico-tecnologiche da lui acquisite sono giunte ormai ad una fase del loro sviluppo che parrebbe consentire un potenziamento radicale della nostra specie, il suo miglioramento e anche il suo superamento, in un processo evolutivo il cui propulsore non risiederebbe più nella natura ma nell’intelligenza umana, più precisamente nell’intelligenza scientifico-tecnologica, e i cui ritmi di sviluppo sarebbero per conseguenza non quelli lentissimi della natura ma quelli rapidissimi della tecnologia.
Così proprio quell’intelligenza che viene considerata frutto dell’evoluzione cosmica e poi biologica si sostituirebbe in certo modo alla natura stessa, affermando un suo totale primato e dominio, il cui esito positivo e non distruttivo resta affidato, in ultima analisi, soltanto a un uso corretto e ragionevole della nostra libertà. Chi voglia avere un quadro sintetico, ma molto informato e assai ben organizzato, di queste prospettive sul nostro passato e sul nostro futuro può leggere il piccolo libro di Aldo Schiavone Storia e destino, pubblicato quest’anno da Einaudi.
Viene spontaneo osservare che in questo modo il soggetto umano riacquista, in forma nuova e profondamente diversa, un’assai concreta centralità, almeno in quella parte dell’universo che oggi possiamo osservare in maniera sufficientemente particolareggiata e in cui non si incontrano altri viventi dotati di intelligenza. Nello stesso tempo si ripropone il paradosso dell’uomo, in termini diversi da quelli a cui ci ha abituato la tradizione cristiana ma in certo senso ancora più radicali, e sicuramente ben più problematici: l’uomo infatti finisce per essere quello “snodo” nel quale un universo che non è altro che materia-energia diventa razionalità, e in qualche modo responsabilità e libertà, che assume il controllo totale della stessa materia-energia.
Varie altre domande si pongono riguardo a una tale maniera di concepire e spiegare l’uomo e il suo posto nel mondo. Anzitutto quella se possa assumersi come decisivo criterio esplicativo soltanto la stretta connessione che indubbiamente esiste tra i processi mentali e il funzionamento dell’organo cerebrale, oltre che il formarsi di questo organo attraverso i processi evolutivi, senza prendere in altrettanto seria considerazione un approccio diverso, che parte dall’esame delle “prestazioni” di cui sono capaci la nostra intelligenza e la nostra libertà, in concreto da quella capacità di produrre cultura che è propria ed esclusiva dell’uomo e che ha dato luogo, attraverso i millenni, a uno sviluppo gigantesco e sempre crescente, all’interno del quale emergono “punte” estremamente significative, come l’attitudine ad assumere responsabilità etiche, il rigore e l’efficacia del pensiero logico, la creatività estetica.
Si tratta certamente di un approccio in ultima analisi filosofico, che risale al pensiero classico, ma questo non è un motivo sufficiente per ritenerlo irrilevante, a meno di postulare che l’unica forma di conoscenza attendibile sia quella che ci viene attraverso la razionalità scientifico-tecnologica, con un ragionamento che in realtà è a sua volta di tipo filosofico e si è da tempo rivelato privo di consistenza.
Un’ulteriore domanda nasce intorno all’ottimismo con il quale spesso si guarda alla capacità della razionalità scientifico-tecnologica di assumere la guida dei processi di trasformazione dell’uomo e di assicurarne esiti positivi e benefici, dimenticando che questa razionalità prescinde, per il suo stesso impianto metodologico, dai problemi del significato e dei fini della nostra esistenza. Inoltre, e più concretamente, questa razionalità si incarna nell’insieme degli uomini che fanno ricerca e interagisce sempre più intensamente con tutti gli enormi interessi economici, politici, e anche ideologici, che sono collegati con i grandi e rapidissimi sviluppi scientifico-tecnologici.
Queste e altre possibili domande non devono però farci perdere di vista un dato di fondo: rimane vero che è incominciata, con l’applicazione all’uomo delle biotecnologie e con tutti gli altri sviluppi tecnologici connessi, una fase nuova della nostra esistenza nel mondo, della quale siamo solo agli inizi e che appare destinata ad accelerarsi e a produrre effetti estremamente rilevanti e potenzialmente pervasivi di ogni dimensione della nostra umanità, effetti che oggi è ben difficile, per non dire impossibile, prevedere nei loro concreti esiti e sviluppi.
E’ ugualmente vero che questa nuova fase non appare arrestabile: di più, essa, per quanto impegnativa e carica di rischi, va sinceramente favorita e promossa, perché rappresenta uno sviluppo di quelle potenzialità che sono intrinseche all’uomo, creato a immagine di Dio. Occorre però liberarsi da una visione deterministica degli sviluppi che ci attendono: in quanto opera dell’uomo, e non astrattamente delle tecnologie, essi possono e devono essere orientati in modo che vadano a favore, e non a detrimento, dell’uomo stesso.
Siamo rimandati così al senso della parola “uomo”, al valore che attribuiamo al soggetto umano, in noi e nel nostro prossimo, al modo in cui viviamo e all’uso che facciamo della nostra libertà. Quella dell’uomo, infatti, non è mai una questione soltanto teoretica, ma sempre anche decisamente pratica, nella quale entra in gioco il tutto di noi stessi, con la nostra intera soggettività: ben diverso, ad esempio, è vivere come se l’uomo fosse soltanto una “sporgenza” della natura, o avesse invece una dignità inviolabile e un destino eterno. Nessuno pertanto può pretendere di conoscere davvero l’uomo per una via puramente “neutrale”, oggettiva e “scientifica”: gli sfuggirebbe quello che è proprio dell’uomo, il suo essere soggetto e non soltanto oggetto.
In concreto, per orientare a favore dell’uomo la nuova fase che si sta aprendo, è dunque molto importante quale immagine, quale ideale e quale esperienza vissuta dell’uomo portano con sé quanti lavorano direttamente nel campo delle biotecnologie e degli ambiti scientifici ad esse collegati, e alla fine è ancora più importante l’immagine e l’esperienza dell’uomo che prevale nello spazio complessivo della cultura e della società, a livello di una nazione, di una civiltà e ormai sempre più dell’intera umanità.
A questo punto posso ricollegarmi in qualche modo al titolo di questa prolusione: “Università, cultura ed educazione”. Giovanni Paolo II, nel discorso che ha tenuto all’Unesco il 2 giugno 1980, citava le parole di S. Tommaso d’Aquino “Genus humanum arte et ratione vivit” (In Aristotelis Post. Analyt., 1), per affermare che “l’uomo non può essere fuori della cultura”: essa è un modo specifico dell’“esistere” e dell’“essere” dell’uomo. La cultura, infatti, “è ciò per cui l’uomo in quanto uomo diventa più uomo, «è» di più, accede sempre di più all’«essere»”.
Che un simile concetto alto e profondamente umanistico di cultura possa affermarsi concretamente nel nostro mondo è un obiettivo di primaria importanza, se non vogliamo che diventi troppo grande la distanza tra la forza e la rapidità del progresso tecnologico e quella debolezza culturale e spirituale che sembra caratterizzare oggi proprio la civiltà nel cui seno è nata la razionalità scientifico-tecnologica, come ha sottolineato ripetutamente Benedetto XVI, ad esempio nel discorso al Convegno di Verona. Questo è infatti il genere di distanza che non possiamo più permetterci, quando il soggetto umano diventa esso stesso oggetto delle nostre capacità scientifico-tecnologiche.
Proprio il rapporto con questo concetto alto e veramente umanistico di cultura, in concreto con la centralità irrinunciabile dell’uomo stesso, dà un obiettivo preciso e consistente all’opera educativa, le fornisce un orientamento e una forte motivazione. In questa Università, in cui hanno uno speciale rilievo le scienze dell’educazione, la psicologia, la pastorale giovanile e catechetica, in conformità al carisma salesiano, è dunque particolarmente importante che tutto lo studio e lo sviluppo delle metodologie e tecnologie educative resti sempre saldamente ancorato a questo concetto di cultura imperniato sulla centralità della persona.
Come figli di Don Bosco voi sapete infatti meglio di me che la capacità di amare e di aprirci così alla persona dell’altro, in particolare del giovane, è la chiave dell’efficacia del lavoro educativo. Nel celebre discorso all’Università di Regensburg, il 12 settembre 2006, Benedetto XVI ha fatto riferimento all’esperienza di universitas, cioè “del fatto che noi, nonostante tutte le specializzazioni, che a volte ci rendono incapaci di comunicare tra noi, formiamo un tutto e lavoriamo nel tutto dell’unica ragione con le sue varie dimensioni, stando così insieme anche nella comune responsabilità per il retto uso della ragione”.
E ha concluso che “il coraggio di aprirsi all’ampiezza della ragione, non il rifiuto della sua grandezza”, è “il programma con cui una teologia impegnata nella riflessione sulla fede biblica entra nella disputa del tempo presente”: ritrovare “questo grande logos”, questa vastità della ragione, è infatti “il grande compito dell’Università”. Su questi due temi intimamente connessi, dell’ampiezza della ragione e del compito attuale di una teologia impegnata nella riflessione sulla fede biblica, vorrei ancora riflettere, collegandomi a quanto ho accennato sulla nuova fase in cui l’umanità sta entrando.
A questo fine è bene ricordare in primo luogo che tutta la S. Scrittura ci parla dell’alleanza tra Dio e l’uomo, ha Dio e l’uomo come poli del suo discorso, mentre il mondo – e gli angeli – vi intervengono piuttosto come contesto di riferimento. Essa contiene dunque, e possiamo anche dire che a suo modo costituisce, una specifica e speciale antropologia, un discorso sull’uomo fatto dal punto di vista di Dio e in funzione di condurre l’uomo a Dio.
Nel Nuovo Testamento questo discorso sull’uomo assume un carattere totalmente cristologico e cristocentrico, da cui emerge con il massimo della forza l’unità di Dio e dell’uomo in Gesù Cristo. Giovanni Paolo II, nell’Enciclica Dives in misericordia, ha attualizzato questa struttura portante della rivelazione scrivendo: “Quanto più la missione della Chiesa si incentra sull’uomo, quanto più è, per così dire, antropocentrica, tanto più essa deve confermarsi e realizzarsi teocentricamente, cioè orientarsi in Gesù Cristo verso il Padre. Mentre le varie correnti del pensiero umano nel passato e nel presente sono state e continuano ad essere propense a dividere e perfino a contrapporre il teocentrismo e l’antropocentrismo, la Chiesa invece, seguendo il Cristo, cerca di congiungerli nella storia dell’uomo in maniera organica e profonda. E questo è anche uno dei principi fondamentali, e forse il più importante, del Magistero dell’ultimo Concilio” (n.1).
Dal punto di vista storico, la “svolta antropologica” si è verificata nella cultura europea per lo più al di fuori, ed anche in polemica, con la Chiesa e la teologia, sebbene essa in realtà non sia concepibile senza l’impulso fondamentale proveniente dalla rivelazione biblica, e poi anche senza contributi come l’elaborazione del concetto di persona nella teologia trinitaria, la riflessione di S. Agostino e più tardi, ad esempio, di Nicola Cusano. Specialmente l’esaltazione dell’uomo avvenuta nel secolo XIX, fino ad assumere la forma di un “antropoteismo”, ha messo la Chiesa e la teologia cattolica – certamente anche per i loro limiti – nella scomoda posizione di dover difendere Dio ridimensionando l’uomo.
Soltanto con il Concilio Vaticano II il Magistero ha espresso un sostanziale riconoscimento della svolta antropologica, pur con quella fondamentale precisazione, o meglio “reincentramento”, che Giovanni Paolo II ha sintetizzato nella Dives in misericordia. Questo riconoscimento, nelle intenzioni dei Padri conciliari, doveva costituire il nucleo dinamico di una grande riconciliazione tra Chiesa e modernità, e tale esso in non piccola misura è stato effettivamente, pur attraverso la storia tormentata del dopo-Concilio.
Proprio il carattere antropocentrico della cultura è stato però rimesso in discussione già in quel periodo. Mi limito a ricordare la tendenza dello strutturalismo, espressa con particolare vivacità ad esempio da Michel Foucault, a considerare l’uomo piuttosto come una struttura, accantonando come ormai superato il discorso sulla persona, fino allo slogan della “morte dell’uomo”: il senso è che l’umanesimo sarebbe un fenomeno culturale ormai superato. La Chiesa e la teologia vengono a trovarsi così nella situazione di difendere, in maniera unitaria, l’uomo e Dio: una situazione ben più congeniale all’essenza del cristianesimo, come già emerge dalla celebre affermazione di S. Ireneo “Gloria Dei vivens homo, vita hominis visio Dei” (Adversus haereses IV,20,7).
Questa rimane fondamentalmente anche la situazione di oggi; anzi, la difesa dell’uomo assume un rilievo concreto che cresce esponenzialmente adesso che diventa possibile la sua trasformazione attraverso le biotecnologie. Non dobbiamo temere, insistendo in questa difesa, di essere di nuovo in ritardo sui tempi. In primo luogo non si tratta infatti, per la fede cristiana e per la Chiesa, di un’opzione provvisoria e rinunciabile: come ha affermato Benedetto XVI nell’omelia all’ordinazione episcopale dello scorso 29 settembre, “cosa si potrebbe dire e pensare di più grande sull’uomo del fatto che Dio stesso si è fatto uomo?”. Proprio questo costituisce “la pienezza del tempo” (Gal 4,4) e in questa pienezza l’uomo trova il suo posto definitivo e la forma più alta possibile e umanamente impensabile di unione con Dio, nella persona del Figlio. Sta qui la ragione di fondo per la quale la grandezza dell’uomo, insieme alla sua fragilità, la sua collocazione storica ma anche escatologica, non possono essere considerate semplicemente come un assunto teologico modificabile e ridimensionabile a seconda degli sviluppi storici, come lo sono invece altre affermazioni teologiche che pure sono apparse per lungo tempo indiscutibili.
Negli anni '60 ebbe un’effimera fortuna la “teologia della morte di Dio”, che cercava di venire a patti, in forme e misure diverse, con l’ateismo. Ugualmente effimero sarebbe il destino di un pensiero cristiano che volesse incorporare la “morte dell’uomo”, oggi soprattutto per accordarsi con certe interpretazioni, attualmente assai diffuse, del significato e dei risultati più o meno prevedibili dell’applicazione all’uomo della razionalità scientifico-tecnologica.
E’ noto e sostanzialmente acquisito che questa razionalità, finché rimane sul suo piano, non può porsi il problema di Dio, a motivo dei proprio intrinseci limiti metodologici, che sono la condizione stessa dei suoi grandi successi: in questo senso si può parlare legittimamente di un suo “ateismo metodico”. Non di rado però, con motivazioni che possono essere tra loro assai diverse ma che in larga misura si riconducono alla tendenza della ragione umana ad essere autosufficiente, si passa dall’ateismo metodico a quello contenutistico, e a volte programmatico, o
almeno – e più spesso – a posizioni agnostiche, ritenendo di potersi richiamare per questo alla razionalità scientifica, ma lasciandosi guidare invece da sue interpretazioni talvolta ideologiche.
Qualcosa di analogo sta avvenendo riguardo all’approccio scientifico-tecnologico all’uomo: esso, in virtù del suo metodo e dinamismo intrinseco, tende a considerare l’uomo come un “oggetto”, come tale conoscibile e “misurabile” attraverso le forme dell’indagine sperimentale. Tutto ciò è certamente lecito, anzi indispensabile per il progresso scientifico e tecnologico, con i grandi vantaggi che esso apporta sul piano sia della conoscenza sia dell’azione pratica, ad esempio nella cura delle malattie. Si potrebbe parlare, in questo senso, di un legittimo “a-umanismo” metodologico. Quando però, dando spazio a un tipo più o meno nuovo di scientismo, si considera quella scientifico-tecnologica come l’unica forma di conoscenza del nostro essere che sia davvero valida e universalmente proponibile, negando o comunque dimenticando che l’uomo è anzitutto e irriducibilmente “soggetto” – il quale, proprio nella sua soggettività, non può mai essere totalmente oggettivato e conosciuto attraverso le scienze empiriche –, l’“a-umanismo” diventa non più soltanto metodologico ma contenutistico, e talvolta programmatico, attraverso un processo di interpretazione e assolutizzazione ideologica della razionalità scientifica.
E’ uscito in questi ultimi giorni, presso Feltrinelli, un libro di Umberto Galimberti che ha un titolo assai significativo: L’ospite inquietante. Il nichilismo e i giovani. Esso riconduce il malessere che appare diffuso tra la gioventù a una causa culturale, l’atmosfera nichilista del nostro tempo. Non mi sento di assumere in toto la descrizione assai preoccupata che Galimberti fa dello stato d’animo dei giovani, e non posso certo condividere la via d’uscita che egli indica, ossia il ritorno a una “misura” della vita tipo quella della grecità classica, ritorno motivato con il fatto che Dio sarebbe “davvero morto” e quindi sarebbe vana la ricerca di un senso in qualche modo assoluto della nostra esistenza. Rimane però il fatto che è difficile negare il legame tra gli aspetti più inquietanti della vita nella nostra società – in particolare ma non unicamente tra i giovani – e la presenza pervasiva del nichilismo. Si conferma così, anche da un punto di vista esistenziale e concreto, quanto profondo sia il rapporto tra questione dell’uomo, compresa a pieno titolo la sua educazione e formazione, e questione di Dio.
A mio modesto parere il nichilismo non costituisce il nostro destino epocale non superabile positivamente, come ha ritenuto Heidegger dopo Nietzsche, ma rappresenta pur sempre una specie di spirito del nostro tempo (Zeitgeist), che si riconduce anzitutto a ciò che Nietzsche ha denominato la morte di Dio. Questa infatti sembra essere la vera radice sia della “transvalutazione” di tutti i valori sia del fenomeno complessivo del nichilismo: nel fare questa diagnosi Nietzsche è stato non solo il primo ma anche il più penetrante.
Diversamente da quel che pensa Galimberti, ed altri con lui, il ritorno alla misura greca appare d’altronde assai poco praticabile, perché due millenni di cristianesimo hanno risvegliato in maniera difficilmente sopprimibile quella nostalgia di un senso assoluto che è al fondo del nostro essere di uomini, e anche perché quella “nuova fase” in cui sta entrando la nostra esistenza sulla terra sembra richiedere un atteggiamento ben più dinamico e aperto al futuro di quello che la “misura” greca implica e sottintende. Proprio attraverso le ombre del nichilismo, e per tentare di non rimanere prigionieri di esse, siamo dunque rimandati ancora una volta al legame tra uomo e Dio.
Anche a noi credenti nel Dio Padre del Signore Gesù Cristo quella nuova fase domanda però apertura e dinamismo. Sulla base della serena certezza che l’uomo, creato a immagine di Dio, trascende l’universo fisico del quale pur profondamente fa parte, siamo chiamati pertanto a prendere sul serio quella nuova comprensione ed anche quelle possibilità di cambiamento dell’uomo che la razionalità scientifico-tecnologica sta portando avanti. In concreto è giusto e necessario richiamare i limiti intrinseci a tale forma di razionalità, ma è ugualmente doveroso, da parte nostra, tenere presente l’indole propria del discorso sull’uomo che ci è proposto dalla rivelazione e su cui lavorano il Magistero della Chiesa e la teologia. Questo discorso non ci offre infatti un supplemento di informazioni che possano integrare quelle acquisite attraverso le scienze empiriche, e nemmeno entrare in concorrenza con esse. Ci dona invece quella verità “nostrae salutis causa” (Dei Verbum, 11) che riguarda e coglie certamente la realtà dell’uomo stesso e indica la direzione del cammino che l’umanità deve percorrere per raggiungere la sua salvezza integrale, storica ed escatologica, ma non ci rende autosufficienti e disattenti rispetto a tutto ciò che l’uomo apprende ed opera riguardo a se stesso nel divenire della storia: in particolare non ci induce a una sottovalutazione falsamente umanistica dei risultati delle scienze empiriche. Al contrario, ci stimola a partecipare con convinzione ed attivamente a questa grande opera collettiva, come ha insegnato in pagine ricche di passione il Concilio Vaticano II (cfr. Gaudium et spes, 33-39).
Benedetto XVI, nel discorso al Convegno di Verona, ci ha detto che attraverso la multiforme testimonianza dei credenti deve emergere “quel grande «sì» che in Gesù Cristo Dio ha detto all’uomo e alla sua vita, all’amore umano, alla nostra libertà e alla nostra intelligenza”, così che “la fede nel Dio dal volto umano porti la gioia nel mondo”.
Cari Docenti e studenti dell’Università Pontificia Salesiana, questo compito può apparire, anzi è certamente troppo grande, rispetto ai tanti limiti e peccati di cui non ci è lecito non essere coscienti. E’ un compito però che ci coinvolge tutti e nel quale il Signore è coinvolto per primo, con la potenza del suo Santo Spirito. Questo compito esige da noi preghiera e santità di vita, carità senza frontiere, senso della comunione ecclesiale, coraggio e ardore missionario.
Esige anche, e a pieno titolo, l’impegno e il rigore dell’intelligenza. Al termine di questa prolusione, forse troppo lunga e poco aderente al suo tema, vorrei dirvi un grande grazie per il lavoro che state compiendo, per il quale chiediamo a Dio ulteriori positivi sviluppi in questo nuovo anno accademico. E vorrei anche chiedervi di approfondire sempre di nuovo la vostra riflessione su Dio e su l’uomo, che rimangono, nel rapido mutare dei tempi, i due poli decisivi non solo del discorso teologico ma di una cultura e di un’educazione che cerchino di essere all’altezza del loro compito.