Dio ci converte con la creazione tutta intera, da un'intervista a Fabrice Hadjadj
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Riprendiamo dal sito www.tracce.it (n. 9, ottobre 2009) alcuni stralci del volume di Lorenzo Fazzini, Nuovi cristiani d'Europa. Dieci storie di conversione tra fede e ragione, Lindau editore, 2009, in particolare dall’intervista a Fabrice Hadjadj.
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Il Centro culturale Gli scritti (18/3/2010)
A dispetto della giovane età (è nato a Nanterre nel 1971), Fabrice Hadjadj vanta già una produzione filosofica di tutto rispetto. Il suo primo testo fondamentale è Réussir sa mort, un saggio sulla morte in cui viene analizzato il senso che l’«ora estrema» ha acquisito nella società tecnologica: «Ci tocca scegliere tra una liquidazione tecnica e una vita offerta. Non c’è alternativa: darsi la morte o donare la vita per ciò che ne vale la pena». Questa la prospettiva del giovane pensatore residente a Tolone, sposato, padre di due figli. Il suo saggio sulla morte gli è valso nel 2006 il prestigioso «Grand Prix catholique de littérature».
Di origine ebraica, arabo di nome - è nato da una famiglia di origine tunisina -, ha vissuto una gioventù «nichilista» di nome e di fatto, aliena da ogni aspirazione religiosa e immersa in una bruciante passione letteraria. Giovanissimo, a poco più di 30 anni, cura un’antologia a più mani, Objet perdu, insieme a John Gelder, cui collaborarono autori come Michel Houellebecq, Dominique Noguez e Raoul Vaneigem.
Folgorato davanti a un crocifisso nella chiesa di Saint-Séverin - nel centro di Parigi -, ha ricevuto il Battesimo nella celebre abbazia di Solesmes, nota per la grande tradizione del canto gregoriano ivi custodita. Di là ha preso nuovo slancio la sua riflessione filosofica e letteraria, che spazia in campi alquanto diversi. Dopo la meditazione della morte di cui si è detto, è subentrata una riflessione filosofica sul sesso: La profondità dei sessi. Si tratta del primo libro tradotto in italiano di Hadjadj, in cui l’autore cerca di restituire al concetto di «carne» il suo significato cristiano più profondo. Essa non è l’elemento «nonostante» e a dispetto del quale l’uomo può salvarsi, bensì costituisce il «sigillo divino». In questo Hadjadj è memore della grande tradizione dei Padri della Chiesa per i quali «quello che non è assunto, non è salvato». Non era forse stato il celebre apologeta latino del III secolo Tertulliano ad affermare che «caro salutis cardo», ovvero «la carne è il cardine della salvezza»?
Come è avvenuta la sua conversione al cristianesimo?
Ecco, se il cristianesimo o, piuttosto, Cristo stesso è la Verità, come io credo, un’altra è la domanda da porsi: come è accaduto che non sono diventato cristiano prima? Quali sono stati gli ostacoli che mi hanno impedito di avvicinare un mistero che è quello della realtà stessa? A dire il vero, non amo molto parlare della mia conversione.
Per due motivi, principalmente. Il primo è che Dio ci converte con la creazione tutt’intera. Si viene convertiti anzitutto perché si respira, a causa del primigenio poema della respirazione, come direbbe Rainer Maria Rilke. E poi perché il sole si alza, i fiori sono belli, il sole ci guida, nostra madre ci ha sorriso…
Ma non c’è solo la bellezza, vi è anche questa disperazione così profonda che ci assicura che non possiamo darci la gioia da noi stessi e dobbiamo quindi gridare verso un Salvatore. Allora tutto si unisce, il bene e il male, affinché possiamo rivolgerci verso Dio.
Esiste poi un secondo motivo della mia reticenza. Presentarsi come convertito significa spesso entrare in un discorso trionfalista: eccomi, sono arrivato, ordunque! Ora, la conversione non è una conclusione, ma un inizio. Essa ci impegna a convertirci ancora, sempre più a fondo, fino all’ultima conversione, nell’ora della morte. Alla fine, adesso, io sono cattolico! Ma se questo non accade se non per vivere la carità, allora divento peggiore di com’ero prima. Approfitto delle ricchezze di Cristo per il mio piccolo tornaconto e per il mio orgoglio.
Posso raccontare una delle vicende che, nel mio percorso intellettuale, mi ha messo nella disposizione di incontrare il Crocifisso. Stavo riflettendo sulla tecnica, partendo da Martin Heidegger e Georges Bataille. Ovvero, su questa tecnica che ci propone di fabbricare un uomo pacificato dalla neurochimica, dalla virtualità, dalla biogenetica… Dunque, ho avuto l’intuizione che la nostra angoscia è il nostro tesoro: essa può dilaniarci in un grido verticale. D’altra parte l’origine della nostra angoscia non può venire contemporaneamente dalla parte della morte e da quella del Cielo. È questa pressione del Cielo che ci fa sperare una felicità più vasta rispetto a questo mondo e ci fa sperimentare questo mondo nella sua estrema precarietà. Il corpo, nella sua debolezza, il corpo sofferente, l’uomo nella sua tragica condizione, tutto ciò mi sembrava più grande di questi superuomini rimpinzati di benessere e dopati per il risultato. A quel punto ero pronto per ascoltare l’Ecce homo.
Lei ha passato un periodo della sua vita, sia in senso biografico che intellettuale, di marca «nichilista». Ha lavorato insieme allo scrittore Michel Houellebecq, l’autore di Le particelle elementari e La possibilità di un’isola. Cosa ha significato per lei essere «discepolo di Nietzsche»?
Oggi, guardandomi indietro, posso parlare del mio nichilismo passato. Evidentemente a quell’epoca non lo riconoscevo veramente come tale. Il nichilismo non è pienamente nichilista se non alla condizione di ignorarsi e credere al contrario nella speranza di una soluzione finale. L’uomo mi sembrava uno scherzo con cui l’universo si divertiva e affermavo che la cosa migliore era giocare ancora con questo scherzo, fare il buffone perpetuo, rovesciare tutte le istituzioni, a cominciare dalla famiglia… Come se questo fosse possibile…
Sebbene volessi essere nietzschiano, restavo comunque un giovane teneramente sentimentale. È curioso, ma si può essere al contempo nichilisti e romantici. Ero favorevole all’estinzione della specie umana e al tempo stesso soffrivo terribili pene d’amore. Dicevo con Nietzsche: «Tutto quello che non mi uccide mi rende più forte», ma venivo distrutto dalla minima contrarietà… In fin dei conti, ero un letterato… Del resto, il nichilismo di cui parlo non è un’opzione filosofica. È nell’aria del nostro tempo.
Quando si crede che la specie umana è il prodotto di un bricolage casuale, che essa sarà rimpiazzata da un’altra, meno nociva e di maggior successo, ci troviamo immersi in un nichilismo assoluto. Il darwinismo, con la sua logica concorrenziale («la lotta per la vita»), il suo rifiuto del concetto di natura umana, il rigetto del mistero della storia a favore di una biologicizzazione integrale del passato, non è altro che nichilismo.
Se domandate a un ragazzo: «Chi sono i tuoi antenati?», egli risponderà: «Delle scimmie». Chiedetegli ancora: «Qual è il nostro futuro?», al che egli replicherà: «L’estinzione». È normale che con tale posizione gli venga voglia di distruggere ogni cosa. Ma quello che più mi stupisce, che mi provoca più spavento, è il fatto che coloro che predicano tali dottrine continuino a vivere da piccoli borghesi.
Oggi si parla molto di religioni e «nuova laicità», per dirla con le parole del presidente francese Sarkozy. Si discute del contributo delle diverse fedi nello spazio pubblico europeo. A suo giudizio, quale può essere il contributo più importante del cristianesimo alla vita sociale dell’Europa?
Non c’è un solo apporto, ve ne sono molti. L’Europa è essenzialmente cristiana. Ho compiuto un lavoro di ricerca sul retablo dell’Agnello mistico dei fratelli Van Eyck, dove mostro come il dogma eucaristico della transustanziazione, definito nel 1215 dal Concilio lateranense, è all’origine della scienza e dell’arte nella loro dimensione moderna. Non vi è dunque questo o quell’apporto del cristianesimo all’Europa: il cristianesimo non è un fiore tra molti fiori, esso è il sole che fa crescere tutto, o ancora la linfa che li nutre all’interno.
Quando si parla di radici, si parla di questa linfa senza la quale l’albero si secca e muore. Bisognerebbe ricordarsi del libro di Romano Guardini La fine dell’epoca moderna. Guardini osserva che la modernità è sleale. Sottrae al cristianesimo alcuni suoi elementi: la distinzione del potere spirituale da quello temporale, l’esaltazione della persona umana, l’affermazione della bontà della carne… e li ritorce contro il cristianesimo stesso.
Perciò questi articoli di fede diventano «valori» mondani, qualcosa di monetizzabile, vuoti della loro sostanza e della relazione vitale con Cristo. La distinzione dei poteri muta in laicismo; ma una laicità senza Dio, che non prenda in carico l’aspirazione dell’uomo alla trascendenza, è presto minacciata dal fanatismo teocratico. Il significato della persona si degrada in individualismo; ma un individuo senza radicamento storico, né elevazione spirituale, non è altro che un clone manipolabile dal mercato. Infine, l’affermazione della carne si dissipa nella pornografia, ovvero nell’odio dell’atto carnale e delle sue proprie conseguenze naturali, a favore di un piacere virtuale che decade spesso in disperazione.
Crede ancora in un riavvicinamento della cultura europea al cristianesimo?
Tutta la cultura europea ha dei basamenti teologici. Se essa se ne allontana, non produrrà un’altra cultura, cadrà nell’incultura stessa, in una gestione meccanica delle pulsioni. Non dico che questo riavvicinamento sia possibile, affermo invece che è urgente e vitale. Ci troviamo davanti a un corpo che ha perduto la testa e che per questo diventa sempre più esangue e atassico. I valori cristiani senza Cristo hanno fatto il loro tempo. Come la foglia che cade dall’albero, essa per un attimo ci è sembrata libera, ma alla fine, con l’inverno, è marcita. Se i tralci non ritrovano il ceppo, se il corpo non ritorna insieme alla testa, il pensiero europeo è finito. Non si può vivere a lungo basandosi su una menzogna.