La critica moderna[1] ha confermato il racconto del Vasari
che, indicando la Trasfigurazione come ultima opera di Raffaello[2], aveva scritto: “Di sua mano, continuamente
lavorando, (la) ridusse ad ultima perfezzione”. L’opera era
stata commissionata a Raffaello nel 1517 per la cattedrale di Narbona, dal card.
Giulio de’ Medici. Contestualmente era stata commissionata a Sebastiano
del Piombo la Resurrezione di Lazzaro, per la stessa cattedrale.
Alcuni critici avevano ipotizzato che la parte inferiore del dipinto fosse stata realizzata da
allievi del maestro, dopo la sua morte, negli anni 1520-1522, differentemente dalla versione
del Vasari.
Possediamo, però, la documentazione di una richiesta di pagamento scritta dal
Castiglione in favore di Giulio Romano il 7 maggio 1522 al cardinal Giulio de’ Medici,
confermata da un ulteriore documento conservato negli archivi del convento di S.Maria Novella a
Firenze, indicante un debito di 220 ducati dovuto al Pippi – soprannome di Giulio Romano
– in merito all’opera in questione. Il Vogel ha fatto giustamente notare, chiudendo
la questione e riaffermando così la veridicità della versione vasariana, che i
soldi giunsero a Giulio Romano in qualità di erede di Raffaello e non di suo
collaboratore, come è espressamente dichiarato nei due documenti.
Degli eventi ci è testimone anche una lettera di Sebastiano del Piombo che, scrivendo a
Michelangelo il 12 aprile 1520, gli comunicava: “Ho portato la mia tavola un’altra
volta a Palazo con quella che ha facto Raffaello et non ho avuto vergogna”. La lettera
peraltro è testimone del confronto pittorico a distanza che esisteva fra Raffaello e
Michelangelo: quest’ultimo, infatti, sosteneva, come persona ispirantesi ai suoi modi,
Sebastiano del Piombo.
Con questo non vogliamo escludere la presenza di aiuti, in particolare nella parte inferiore
dell’opera, ma confermare che è da attribuire interamente a Raffaello
l’originalissima presentazione nella stessa tavola della Trasfigurazione in alto e della
scena della dell’ossesso in basso; i due episodi appaiono l’uno di seguito
all’altro nei vangeli, come vedremo subito.
L’originalità dell’opera consiste proprio nella tensione che viene a
crearsi per la compresenza delle due parti, l’alto ed il basso, il Cristo luminoso e
la zona più in ombra dell’ossesso con il quale sono rimasti gli altri nove
apostoli che non sono saliti sul monte Tabor.
Un disegno preparatorio, forse non di mano di Raffaello ma certo almeno copia di un suo
schizzo, riproduce probabilmente l’idea originaria, più tradizionale, con i tre
apostoli della Trasfigurazione che occupano la parte bassa del disegno e l’assenza della
scena dell’indemoniato. Nella versione finale ecco invece l’episodio
dell’ossesso presentarsi in basso, mentre i tre apostoli che assistono alla
Trasfigurazione sono più in alto, nella metà riservata al Cristo che appare nella
sua luce.
L’opera non fu mai consegnata alla cattedrale di Narbona, ma fu posta, provvisoriamente,
nel 1523, in S.Pietro in Montorio in Roma. La Trasfigurazione fu successivamente rubata dai
“rivoluzionari” francesi nel 1797, ma, a differenza di altre opere, venne
restituita nel 1815, per cui è ora visitabile presso la Pinacoteca Vaticana, nei Musei
Vaticani.
I vangeli pongono subito dopo la Trasfigurazione un episodio
dall’inizio tenebroso: l’incontro con un ossesso indemoniato. Luca
lo pospone al giorno, dopo, Marco e Matteo immediatamente disceso il monte.
Nessuno era stato in grado di venire in aiuto a quell’uomo tormentato
dal demonio, dal male. Anche i nove apostoli - che non avevano preso parte alla
Trasfigurazione – avevano fallito nel tentativo di guarirlo.
Raffaello primo – ed unico – nella storia dell’arte[3] si è cimentato
con la giustapposizione dei due avvenimenti. Ed ha così accentuato
ancor più la trasparenza luminosa del Cristo ed il buio della condizione
umana, ma, soprattutto, ha indicato che quella luce è il destino dell’uomo.
La critica pittorica, non cogliendo l’assoluta coerenza teologica dell’opera,
ha sovente discusso sulle due parti del dipinto, attribuendo talvolta la
maggiore apparente raffinatezza della parte superiore luminosa a Raffaello stesso
e la parte inferiore, tenebrosa, a suoi discepoli:
“Si è sempre discusso, fin dal Settecento, circa il problema
dell’unità tra le due parti del dipinto: unità stilistica
ed unità di racconto, che sono cose non disgiunte tra loro”[4].
Questa discussione ha portato anche a fraintendere lo stesso significato della
parte inferiore:
“Il fatto che l’accostamento dei due episodi (Trasfigurazione e
presentazione dell’ossesso) sia sempre risultata incomprensibile, dato
che non si tratterebbe di momenti contemporanei, ma successivi, dipende...
da un equivoco: la scena non rappresenta in realtà la guarigione dell’indemoniato,
come si continua a ripetere, bensì il precedente ed inano tentativo di
guarirlo, messo in opera dagli apostoli che erano rimasti a valle, mentre
il Cristo era salito sul monte Tabor”[5].
L’ossesso, circondato dai suoi cari e dai nove apostoli è lì
a manifestare l’umanità nella sua assenza di luce, a mostrare come
l’umanità sembri inadatta di suo a contenere la luce divina. Dio
e l’uomo sembrano – al di fuori di Cristo – come impossibilitati
a toccarsi, tanto è luminoso ed ineffabile l’uno e tenebroso e
concreto l’altro.
Per contrasto, viene ad essere ancor più iconograficamente esaltata,
in Raffaello, la luce del Cristo trasfigurato.
La Trasfigurazione è la manifestazione del Cristo nella sua identità
di Dio e, quindi, di luce abbagliante ma, insieme, illuminante l’intera
sua umanità. Gesù non è, come vorrebbero alcuni, un
“illuminato”, ma è “la luce stessa”. Il
Cristo è, come dice il Credo, “luce da luce”; pure questa
luce è totalmente presente nella sua carne e nella sua umanità.
Ogni discorso sulla Trasfigurazione – e così
ogni sua rappresentazione iconografica - ha così, essenzialmente, a che
fare con la realtà di Dio e quella dell’uomo e, sopratutto, con
la compresenza totale dell’una nell’altra in Cristo.
Di più ancora: la Trasfigurazione annuncia che la figliolanza divina
del Signore, nella sua umanità, è così radicale e totale
che non verrà meno nemmeno al momento della croce. E della morte in croce.
Di questo suo dover morire per risorgere il Cristo parla con Mosè ed
Elia. Della sua morte e resurrezione che si dovevano compiere. “Ed ecco
due uomini parlavano con lui: erano Mosè ed Elia... e parlavano della
sua dipartita che avrebbe portato a compimento a Gerusalemme” (Lc9,30-31).
Di questa luce che tutto abbraccia ed illumina, rifulgono finalmente anche gli
stessi Mosè ed Elia, la Legge ed i Profeti – cioè tutto
l’Antico Testamento – “apparsi nella loro gloria”
(Lc9,31). La luce non può che illuminare tutto e manifesta così
anche il senso recondito delle Scritture che di Cristo già parlavano.
Il testo evangelico mostra tutta la tensione tra la Trasfigurazione e la vita
con la sua ruvidezza. Pietro sembra quasi non accettare più la vita che
fin qui ha conosciuto – “facciamo tre tende”, cioè
restiamo qui, non torniamo ad incontrare quella vita dove non si manifesta immediatamente
la lucentezza della presenza divina.
Raffaello ci fa comprendere ancor più come Pietro non voglia tornare
“a valle”, ai problemi che appaiono insolubili della vita. Vuole
restare con il suo Dio, ma non ha ancora maturato la fiducia e la convinzione
che il Signore possa portare quella luce nella sua intera carne fino alla croce
e, perciò, poi, nella condizione di ogni uomo. Non ha ancora ricevuto
la grazia di comprendere che si può essere con il Dio che è luce
ed, contemporaneamente, in mezzo agli uomini.
Raffaello ha colto e rappresentato la domanda, che sorge prepotente, sulla relazione
fra il Cristo e la situazione di male nel quale l’uomo deve porre i suoi
passi. Una corretta interpretazione della Trasfigurazione dell’Urbinate
ci mostra l’invocazione umana ed, insieme, la risposta ad essa che ci
viene presentata dal dipinto di Raffaello:
“Altri interpreti di questo dipinto si sono... chiesti se gli Apostoli
e lo stesso ossesso vedano o non vedano la scena della Trasfigurazione che
si svolge sul monte e che essi segnalano alzando le braccia. Ma la domanda è
semplicistica: essi non possono vedere la scena, e tuttavia Raffaello, retoricamente
carica il gesto di una valenza ambigua, perché l’osservatore comprenda
meglio qual è la condizione di impotenza in cui versano i convenuti in
basso e possa valutare questo loro urgente tendere verso una salvazione che
non potranno tuttavia raggiungere se non grazie all’intervento del Cristo.
Benché non vedano essi avvertono comunque, grazie anche al contorcimento
dell’indemoniato che qualcosa di soprannaturale sta compiendosi sopra
le loro teste”[6].
Il Cristo, in alto, è il Cristo già vincitore della morte,
è il Cristo risorto. M.Calvesi sembra intuire questo, nell’analizzare
l’assoluta originalità iconografica della posizione delle braccia
del Cristo raffaellesco, ma poi conclude:
“Le braccia allungate del Cristo, nel dipinto di Raffaello, alludono alla
crocefissione”[7].
Esse indicano, invece, piuttosto la resurrezione! Non che la morte sia dimenticata,
ma essa è ricordata proprio come vinta. Il Cristo trasfigurato del dipinto
è il Cristo pasquale, già risorto ed ascendente al cielo, è
il Cristo che ha reso definitivamente e totalmente l’umanità piena
della luce divina.
Continua M.Calvesi: “I corpi di Cristo, Mosè ed Elia sono librati
nel cielo, suggerendo il moto ascensionale della resurrezione”[8], differentemente dall’iconografia tradizionale,
dove sono molto più statici.
E la gloria del Cristo trasfigurato – e risorto – è talmente
luminosa e carica di luce che non “può essere vista”: i tre
apostoli sono scaraventati a terra, debbono “proteggersi” da quell’irradiazione
luminosa.
In alto a sinistra vediamo l’intera Chiesa, però, che contempla
la Trasfigurazione, la manifestazione della presenza di Dio nel suo Figlio incarnato:
sono i santi Felicissimo ed Agapito a cui è dedicata la cattedrale di
Narbona, per il quale l’opera di Raffaello fu dipinta. Essi venivano festeggiati
il 6 agosto, giorno della festa liturgica della Trasfigurazione e ci appaiono
inginocchiati a “vedere” il Cristo.
Il male, dinanzi alla luce del Signore, si manifesta anch’egli ancor
più nella sua opacità, nel suo rifiuto a ricevere Dio stesso
– è solo la venuta del Cristo che manifesta la natura del male
come anticristo.
“Mentre Cristo si trasfigura, manifestando la sua gloria... il demonio
ha un sussulto particolarmente violento nel corpo del fanciullo[9]... L’improvvisa contorsione del demonio
inviperito entro le membra dell’ossesso è, per la folla che lo
scruta, il segnale di una soprannaturale rispondenza. Il sussulto del demonio,
che presagisce la propria sconfitta, segnala il trionfo e la gloria del Cristo.
L’episodio sottolinea il senso voluto di pesantezza, di cecità,
di buio, ma anche di speranza, che grava sull’esagitata e terrestre metà
inferiore della Trasfigurazione, al cui confronto quella superiore appare ancor
più celestiale, lieve e composta. La profonda unità anche stilistica
del dipinto si coglie certo meglio intendendo l’unità, sia pure
per contrapposto, del tema”[10].
Da un lato la Trasfigurazione sembra provocare un sussulto
particolare del male. Sempre, infatti, la rivelazione più piena di Dio
provoca l’opposizione del male. Ma, dall’altro, la manifestazione
luminosa del Cristo indica la speranza che è all’orizzonte, che
è prossima e non più lontana.
Ecco l’interiore unità dell’ultima opera di Raffaello. La
luce divina del Cristo e la tenebra del male non sono semplicemente giustapposte
a contrasto. Proprio per quella tenebra il Cristo si è fatto uomo. La
luce che abita il Signore Gesù non è per lui solo. E’
luce che, toccando fin l’abisso del peccato e della morte, è destinata
a portare luce all’uomo intero, ad ogni uomo.
Come ci riportano i vangeli sinottici, subito Gesù spiegherà che
i nove apostoli non sono stati capaci di guarire l’uomo dal male, perché
sono una “generazione incredula”. Invece, “tutto è
possibile a chi crede” (Mc9,23)[11],
a chi confida in quella luce che è nel Figlio ed è da Lui donata
al mondo. L’ossesso, per essere guarito, deve porsi alla “luce”
del Cristo risorto[12].
La Trasfigurazione di Raffaello ci manifesta così l’ultimo periodo
del maestro che volle misurarsi con l’opera di Michelangelo che, negli
stessi anni, dipingeva in S.Pietro:
“Per Raffaello si tratta dunque di superare Michelangelo, e non tanto
nel granitico effetto plastico (destinato a restare un contrassegno personale
e in qualche modo un ingombro del Buonarroti), quanto piuttosto nella conquista
vitale del movimento e dell’animazione, che Michelangelo aveva introdotto
con il ‘contrapposto’, ma che poteva essere meglio marcato ed esaltato
grazie ad un nuovo uso del chiaroscuro e della luce”[13].
Vogliamo rilevare come un’altra opera, anch’essa degli ultimi anni
del maestro di Urbino, affronti similmente il dissidio fra luce ed ombra, fra
alto e basso. E’ l’Assunzione-Incoronazione della Vergine,
anch’essa nella Pinacoteca Vaticana, all’interno dei Musei Vaticani.
Raffaello ed aiuti, Incoronazione della Vergine, Pinacoteca Vaticana, Musei vaticani |
L’opera era stata commissionata a Raffaello dalle monache
clarisse del monastero di Monteluce a Perugia, già negli anni 1501-1503,
ma fu loro consegnata solo il 25 giugno 1525. Qui la critica propende per una
esecuzione ad opera di Giulio Romano, per la parte superiore, e del Penni per
la parte inferiore. Ma certamente il disegno è di Raffaello stesso.
L’iconografia di quest’opera è più tradizionale; il
contrasto è dato dalla tensione fra la parte inferiore, nella quale vediamo
gli apostoli al cospetto della tomba vuota della Madonna e la parte in alto,
luminosa, dove vediamo la Vergine assunta in cielo, incoronata da Cristo stesso
e festeggiata dagli angeli.
Certo Raffaello doveva, in quegli anni, nutrire un interesse per la relazione
fra luce ed ombra, se vediamo riproposta questa linea di ricerca in due opere
così vicine fra loro.
E’ la drammaticità dell’evento con tutto il suo carico
di speranza che ci appare dinanzi, se solo misuriamo l’opera di Raffaello
con opere rappresentanti la Trasfigurazione di pochissimi anni antecedenti,
come, ad esempio, quella del Perugino (La fede, nel Collegio del Cambio a Perugia,
1500[14]).
Se il Perugino ci presenta la Trasfigurazione come figura della fede, in tutta
la sua serenità, Raffaello preferisce mostrarci un altro aspetto del
mistero: nella tensione che non è solo fra cielo e terra, ma molto più
fra luce serena ed agitazione, ci indica il dilemma della condizione umana senza
il Cristo e la luce straordinaria della grazia che ci è donata per la
venuta del Salvatore nella nostra carne.
Perugino, La fede, Collegio del Cambio, Perugia |
Per altri articoli e studi di d.Andrea Lonardo o sulla Bbbia presenti su questo sito, vedi la pagina Sacra Scrittura (Antico e Nuovo Testamento) nella sezione Percorsi tematici
Per altri articoli e studi sui rapporti tra arte e fede presenti su questo sito, vedi la pagina Arte nella sezione Percorsi tematici
[1] Per le indicazioni critiche e filologiche relative all’opera ci rifacciamo a Pierluigi de Vecchi, in P.De Vecchi, L’opera completa di Raffaello, Classici dell’arte Rizzoli, Milano, 1999, pagg.81-124.
[2] Gli studi moderni fanno invece giustizia della tesi relativa ai motivi della morte di Raffaello. Il Vasari aveva parlato di una morte per eccessi di carattere erotico, mentre una lettera storicamente affidabile, perché contemporanea agli eventi, inviata ad Alfonso d’Este dal suo agente Paolucci il 7 aprile indica più verosimilmente come causa della morte “una febbre continua et acuta”. Certo è che il maestro morì il 6 aprile 1520, nel pieno dell’attività.
[3] Nella seconda parte di questo breve articolo ci ispiriamo all’articolo di M.Calvesi che citeremo più volte: M.Calvesi, Raffaello. La Trasfigurazione, in Oltre Raffaello. Aspetti della cultura figurativa del ’500 romano, a cura di L.Cassanelli, S.Rossi, Roma, 1984.
[4] M.Calvesi, Raffaello. La Trasfigurazione, in Oltre Raffaello. Aspetti della cultura figurativa del ’500 romano, a cura di L.Cassanelli, S.Rossi, Roma, 1984, pag.36.
[5] M.Calvesi, Raffaello. La Trasfigurazione, in Oltre Raffaello. Aspetti della cultura figurativa del ’500 romano, a cura di L.Cassanelli, S.Rossi, Roma, 1984, pag.34.
[6] M.Calvesi, Raffaello. La Trasfigurazione, in Oltre Raffaello. Aspetti della cultura figurativa del ’500 romano, a cura di L.Cassanelli, S.Rossi, Roma, 1984, pag.36.
[7] M.Calvesi, Raffaello. La Trasfigurazione, in Oltre Raffaello. Aspetti della cultura figurativa del ’500 romano, a cura di L.Cassanelli, S.Rossi, Roma, 1984, pag.34.
[8] M.Calvesi, Raffaello. La Trasfigurazione, in Oltre Raffaello. Aspetti della cultura figurativa del ’500 romano, a cura di L.Cassanelli, S.Rossi, Roma, 1984, pag.34.
[9] M.Calvesi, Raffaello. La Trasfigurazione, in Oltre Raffaello. Aspetti della cultura figurativa del ’500 romano, a cura di L.Cassanelli, S.Rossi, Roma, 1984, pag.36.
[10] M.Calvesi, Raffaello. La Trasfigurazione, in Oltre Raffaello. Aspetti della cultura figurativa del ’500 romano, a cura di L.Cassanelli, S.Rossi, Roma, 1984, pag.37.
[11] A.M.De Strobel-M.Serlupi Crescenzi, Il Cinquecento. I dipinti, in C.Pietrangeli (a cura di), I dipinti del Vaticano, Magnus Edizioni, Udine, 1996, vorrebbero vedere addirittura identificata la grazia della fede in una delle figure in basso: “Si isola la splendida figura femminile inginocchiata, allusiva alla Grazia, che si ottiene per mezzo della Fede”, pag.234.
[12] Sempre M.Calvesi (M.Calvesi, Raffaello. La Trasfigurazione, in Oltre Raffaello. Aspetti della cultura figurativa del ’500 romano, a cura di L.Cassanelli, S.Rossi, Roma, 1984, pagg.33-41) vorrebbe vedere nell’opera una latente polemica anti-luterana, poiché il testo di Matteo parla di demoni che “si scacciano solo con la preghiera ed il digiuno” (cioè con le “opere” e non con la “sola grazia”, come affermato da Lutero) ma qui Calvesi non ci sembra da seguire, perché niente nell’opera evidenzia iconograficamente un riferimento, appunto, a digiuno e preghiera.
[13] M.Calvesi, Raffaello. La Trasfigurazione, in Oltre Raffaello. Aspetti della cultura figurativa del ’500 romano, a cura di L.Cassanelli, S.Rossi, Roma, 1984, pag.40.
[14] Su quest’opera cfr. Andrea Lonardo, Le virtù e l’uomo virtuoso negli affreschi di Pietro Perugino nel Collegio del Cambio a Perugia, nella sezione Arte e fede di questo stesso sito www.gliscritti.it