Mostra a cura dell’Ufficio catechistico della diocesi di Roma in occasione della conclusione del Sinodo dei vescovi su La Parola di Dio nella vita e nella missione della Chiesa
8-16 novembre 2008
presso il Pontificio Seminario Romano Maggiore
della diocesi di Roma
Sistemazione della riproduzione della volta della Sistina di Michelangelo |
Per ulteriori informazioni sulla mostra, telefonare all’Ufficio
catechistico della diocesi di Roma, 06.69886301, oppure scrivere a ufficiocatechistico
Foto ad alta definizione della mostra sono disponibili nella Gallery Dai canonici agli apocrifi, dalla Genesi
all’Apocalisse: la Bibbia a Roma
Per stampare le schede della mostra nel loro formato originale, apri qui
il formato PDF.
Ulteriore materiale è disponibile on-line al link Sacra Scrittura ed
al link L’ignoranza delle Scritture, la versione on-line
della prima edizione della mostra stessa.
Le schede ed i pannelli che sono stati utilizzati nella nuova edizione sono
stati rivisti ed aggiornati.
La I sezione della mostra vuole presentare lo specifico rapporto che sussiste fra la persona vivente del Cristo
e la lettera scritta della Bibbia.
Gesù non ha composto alcun libro: secondo il Nuovo Testamento sono state le Scritture
veterotestamentarie a scrivere di lui. I libri neotestamentari, a loro volta, sono stati redatti per condurre a
lui.
Il Cristo è la chiave che sola apre il vero significato delle Scritture. Alla sua luce Mosè ed
Elia appaiono «in tutta la loro gloria».
La I sezione della mostra presenta il documento del Concilio Vaticano II sulla rivelazione (Dei Verbum)
che esprime puntualmente il triplice significato del Verbum Dei, della Parola di Dio: in pienezza il
Verbo incarnato, a partire da lui la viva trasmissione della rivelazione nella Tradizione della Chiesa ed,
infine, la fissazione ad opera della Chiesa del testo biblico.
Alcune pagine del teologo Henri de Lubac e del papa Benedetto XVI vengono presentate a chiarificare questa
ricchezza complessa della Parola di Dio.
Il Cristo nel sepolcro di Holbain il giovane ed Il matrimonio mistico di Santa Caterina di
Lorenzo Lotto illustrano iconograficamente il percorso proposto.
La I sezione è completata da una riflessione pedagogica sul rapporto sussistente fra il vivere e lo
scrivere presentata dalle guide che conducono i visitatori della mostra.
La prima sezione della mostra |
Cristo morto nella tomba, Holbein il giovane, 1521. Basilea, Kunstmuseum, Öffentliche Kunstsammlung |
La mano livida del Cristo resta tesa nel gesto della parola, iconografia scelta anche dal Caravaggio nella Deposizione dei Musei Vaticani: «Vi siete accostati al sangue dell’aspersione dalla voce più eloquente di quello di Abele. Guardatevi perciò dal rifiutare Colui che parla».
(Lettera agli Ebrei 12,24-25)
Mani e Maometto hanno scritto dei libri. Gesù, invece, non ha scritto niente; Mosè e gli altri
profeti «hanno scritto di lui». Il rapporto tra il Libro e la sua Persona è dunque
l’opposto del rapporto che si osserva altrove.
Il cristianesimo, propriamente parlando, non è affatto una «religione del Libro»: è
la religione della Parola – ma non unicamente né principalmente della Parola sotto la sua forma
scritta. Esso è la religione del Verbo, «non di un verbo scritto e muto, ma di un Verbo incarnato
e vivo». La Parola di Dio adesso è qui tra di noi, «in maniera tale che la si vede e la si
tocca»: Parola «viva ed efficace», unica e personale, che unifica e sublima tutte le parole
che le rendono testimonianza.
(da Henri De Lubac, Esegesi medievale. I quattro sensi della Scrittura)
Matrimonio mistico di Santa Caterina. Lorenzo Lotto, 1524 Roma, Galleria Nazionale d’Arte antica di Palazzo Barberini Per gentile concessione |
La Madonna volta la pagina nella Bibbia che S. Girolamo tiene in mano: è lei ad introdurre alla svolta definitiva della storia della salvezza. Anche S. Giorgio e S. Sebastiano dietro S. Girolamo si sporgono per leggere la Scrittura e per vedere. A destra S. Antonio abate e S. Nicola di Bari leggono i Salmi. S. Caterina riceve, oltre all’anello nuziale, un fiore, un segno d’amore dal Bambino Gesù suo sposo, la Parola incarnata venuta per le nozze.
Sì, Gesù Cristo è il Verbo abbreviato, «abbreviatissimo», brevissimum, ma sostanziale per eccellenza. Verbo abbreviato, ma più grande di ciò che abbrevia. Unità di pienezza. Concentrazione di luce. L’incarnazione del Verbo equivale all’apertura del Libro, la cui molteplicità esteriore lascia ormai percepire il «midollo» unico, questo midollo di cui i fedeli si nutriranno. Ecco che con il fiat (accada) di Maria che risponde all’annunzio dell’angelo, la Parola, fin qui soltanto «udibile alle orecchie», è diventata «visibile agli occhi, palpabile alle mani, portabile alle spalle». Più ancora: essa è diventata «mangiabile».
(da Henri De Lubac, Esegesi medievale. I quattro sensi della Scrittura)
Il documento più importante della Chiesa cattolica che spiega la sua dottrina sulla rivelazione di Dio e
sulla Sacra Scrittura è la costituzione conciliare Dei Verbum, redatta dal Concilio Vaticano II.
Fin dal suo inizio il testo afferma con forza come Dio abbia voluto manifestare se stesso – il testo
latino recita revelare seipsum:
«Piacque a Dio nella sua bontà e sapienza rivelarsi in persona e manifestare il mistero della
sua volontà (cfr. Ef 1,9), mediante il quale gli uomini per mezzo di Cristo, Verbo fatto carne, hanno
accesso al Padre nello Spirito Santo e sono resi partecipi della divina natura (cfr. Ef 2,18; 2 Pt 1,4)»
(DV 2).
La rivelazione consiste così primariamente non in singole verità o parole, bensì, molto
più profondamente, nel dono del Figlio eterno, fattosi carne. È Lui la Parola completa del
Padre:
«La profonda verità, poi, che questa Rivelazione manifesta su Dio e sulla salvezza degli
uomini, risplende per noi in Cristo, il quale è insieme il mediatore e la pienezza di tutta intera la
Rivelazione» (DV 2).
Gesù Cristo non è solo la “via” per cui si giunge al Padre, ma è anche, e
sopratutto, la “vita” stessa. Il Figlio non è semplicemente il mediatore inviato a
trasmettere la verità che lo supera, bensì è Lui stesso la pienezza di tutta intera la
rivelazione.
I Padri conciliari, per sottolineare la profonda distinzione esistente tra il Figlio Parola vivente e la
Scrittura Parola scritta chiamarono il primo univocamente Verbum Dei mentre utilizzarono talvolta per la
seconda l’espressione locutio Dei.
La Dei Verbum non vuole che il cristianesimo sia presentato come una “religione del libro”,
rifuggendo da una idolatria della Bibbia. L’importanza della conoscenza della Sacra Scrittura è
invece proposta dal documento conciliare, attraverso una citazione di S. Gerolamo, come necessaria, proprio in
quanto via al Figlio incarnato:
«L’ignoranza delle Scritture è ignoranza di Cristo» (DV 25).
La Dei Verbum (DV 4) cita la Lettera agli Ebrei per affermare che la Scrittura è preparazione
alla venuta del Figlio:
«Dio, che aveva già parlato nei tempi antichi molte volte e in diversi modi ai padri per mezzo
dei profeti, ultimamente, in questi giorni, [N.d.R. Letteralmente: in questi giorni che sono gli ultimi] ha
parlato a noi per mezzo del Figlio, che ha costituito erede di tutte le cose e per mezzo del quale ha fatto
anche il mondo» (Eb 1,1-2).
Il testo conciliare della Dei Verbum dichiara la definitività della rivelazione di Dio in
Cristo.
Contro ogni possibile gnosi già il Nuovo Testamento aveva affermato che «chi va oltre e non rimane
nella dottrina del Cristo non possiede Dio» (2 Gv 9).
Non può darsi una verità ulteriore al Cristo, poiché egli è in persona «la
rivelazione del mistero avvolto nel silenzio per secoli eterni, ma ora manifestato» (Rm 16,25). La Dei
Verbum (DV 2) riprende il termine mistero dall’epistolario paolino a sottolineare che
ciò che era inconoscibile con le sole forze dell’uomo, ora è stato manifestato: Dio ha
voluto farsi conoscere dagli uomini e rivelare al contempo il suo disegno di benevolenza e salvezza. Il termine
mistero viene così utilizzato in un senso che si differenzia dall’uso comune della parola
che lo identifica con ciò che è “incomprensibile”. Il Padre, invece, ha rivelato il
suo mistero nel volto in Gesù Cristo:
«Perciò egli, vedendo il quale si vede anche il Padre (cfr. Gv 14,9), col fatto stesso della
sua presenza e con la manifestazione che fa di sé con le parole e con le opere, con i segni e con i
miracoli, e specialmente con la sua morte e la sua risurrezione di tra i morti, e infine con l’invio
dello Spirito di verità, compie e completa la Rivelazione e la corrobora con la testimonianza divina,
che cioè Dio è con noi per liberarci dalle tenebre del peccato e della morte e risuscitarci per
la vita eterna. L’economia cristiana dunque, in quanto è l’Alleanza nuova e definitiva, non
passerà mai, e non è da aspettarsi alcun’altra Rivelazione pubblica prima della
manifestazione gloriosa del Signore nostro Gesù Cristo (cfr. 1 Tm 6,14 e Tt 2,13)» (DV 4).
Per la Dei Verbum è “il fatto stesso della presenza” di Cristo nel mondo ad essere il
grande segno della credibilità della rivelazione. È lui in persona il segno dell’amore del
Padre, l’Emmanuele, il Dio con noi. Le parole e le opere del Cristo, i suoi segni e miracoli, la sua
morte e resurrezione, sono indissolubilmente legati alla sua persona donata agli uomini: il “grande
segno” che invita alla fede è personale, è il Figlio stesso fattosi carne.
La storia della salvezza, dalla creazione ai patriarchi, dall’alleanza alla profezia, nelle parole e nei
segni, è preparazione a questa rivelazione definitiva (DV 3).
Il termine teologico Tradizione deriva dal latino tradere, che significa tramandare,
trasmettere. Cristo non ha espressamente domandato agli Apostoli la scrittura dei testi del Nuovo
Testamento, ma piuttosto ha chiesto loro di trasmettere ad ogni uomo tutto quanto egli aveva fatto ed insegnato
e, ultimamente, nella celebrazione dell’eucarestia, la sua stessa vita.
«La Parola di Dio, affidata da Cristo Signore e dallo Spirito Santo agli Apostoli, viene trasmessa
integralmente dalla sacra Tradizione ai loro successori, affinché questi, illuminati dallo Spirito di
verità, con la loro predicazione fedelmente la conservino, la espongano e la diffondano» (DV
9).
La Dei Verbum fa qui eco allo stesso Nuovo Testamento nel quale si afferma che la predicazione stessa
degli apostoli è Parola di Dio: essi dichiarano che il loro messaggio non è parola di uomini, ma
realmente Parola di Dio che opera in coloro che credono (cfr. 1 Ts 2,13). Le stesse comunità cristiane
sono definite «lettera di Cristo, conosciuta e letta da tutti gli uomini» (cfr. 2 Cor 3,2-3).
La Dei Verbum afferma così l’avvenimento peculiare che si compie nella Tradizione: in essa
«la Chiesa nella sua dottrina, nella sua vita e nel suo culto, perpetua e trasmette a tutte le
generazioni tutto ciò che essa è, tutto ciò che essa crede» (DV 8).
La Tradizione manifesta così la vitalità e la fecondità della Parola di Dio. Essa si
è fatta carne una volta per tutte, ma, da quel momento, opera continuamente nella voce e
nell’azione della Chiesa, trasmettendo agli uomini la rivelazione di Dio in Cristo Gesù e la
comunione con Lui. Di modo che la Chiesa non comunica solamente la propria fede, ma anche e soprattutto
“ciò che lei stessa è”, ciò che lei stessa ha ricevuto in dono. Dio stesso ha
voluto così che il vangelo proseguisse la sua corsa fino alla fine dei tempi.
La Tradizione conserva il deposito della fede e lo trasmette, ma al contempo «progredisce nella Chiesa
con l’assistenza dello Spirito Santo» (DV 8) la comprensione di questo deposito:
«La sacra Tradizione trasmette integralmente la parola di Dio, affidata da Cristo Signore e dallo
Spirito Santo agli apostoli, ai loro successori, affinché, illuminati dallo Spirito di verità,
con la loro predicazione fedelmente la conservino, la espongano e la diffondano; ne risulta così che la
Chiesa attinge la certezza su tutte le cose rivelate non dalla sola Scrittura e che di conseguenza l’una
e l’altra devono essere accettate e venerate con pari sentimento di pietà e riverenza» (DV
9).
È la Tradizione che ha stabilito quali libri siano ispirati e facciano parte del Canone biblico.
«È questa Tradizione che fa conoscere alla Chiesa l’intero canone dei libri sacri e nella
Chiesa fa più profondamente comprendere e rende ininterrottamente operanti le stesse Sacre Scritture.
Così Dio, il quale ha parlato in passato non cessa di parlare con la sposa del suo Figlio diletto, e lo
Spirito Santo, per mezzo del quale la viva voce dell’Evangelo risuona nella Chiesa e per mezzo di questa
nel mondo, introduce i credenti alla verità intera e in essi fa risiedere la parola di Cristo in tutta
la sua ricchezza (cfr. Col 3,16)» (DV 8).
Il magistero poi «non è superiore alla Parola di Dio ma la serve». Il suo ministero è
quello «d’interpretare autenticamente la Parola di Dio, scritta o trasmessa» e la sua
«autorità è esercitata nel nome di Gesù Cristo» (DV 10).
La Dei Verbum attesta il carattere divino delle Sacre Scritture:
«Le verità divinamente rivelate, che sono contenute ed espresse nei libri della Sacra
Scrittura, furono scritte per ispirazione dello Spirito Santo» (DV 11).
La Dei Verbum cita a questo proposito le parole dell’apostolo Paolo:
«Tutta la Scrittura è ispirata da Dio e utile per insegnare, per convincere, per correggere,
per educare alla giustizia, affinché l’uomo di Dio sia perfetto, addestrato ad ogni opera
buona» (2 Tim 3,16).
Dio stesso è autore della Sacra Scrittura e perciò essa, nonostante la molteplicità dei
suoi redattori umani, è un testo profondamente unitario, a motivo dell’unicità del suo
Autore:
«Tutti i libri sia dell’Antico che del Nuovo Testamento hanno Dio per autore e come tali sono
stati consegnati alla Chiesa» (DV 11).
Questa affermazione nulla toglie, però, al fatto che gli stessi autori sacri debbono essere riconosciuti
come veri autori dei libri che hanno scritto. Dio non è, infatti, intervenuto nei loro confronti in una
maniera simile a quella di una “dettatura”. Essi, piuttosto, hanno composto i loro scritti
mantenendo le peculiarità del loro modo di esprimersi:
«Per la composizione dei libri sacri, Dio scelse e si servì di uomini nel possesso delle loro
facoltà e capacità, affinché, agendo egli in essi e per loro mezzo, scrivessero come veri
autori, tutte e soltanto quelle cose che egli voleva fossero scritte» (DV 11).
Questa opera dello Spirito nulla ha tolto, quindi, alla condizione storica degli autori sacri, ognuno in
possesso di un proprio preciso e limitato bagaglio culturale. L’inerranza delle Sacre Scritture,
perciò, non riguarda ogni aspetto dei loro scritti e non è garanzia di verità di dettagli
scientifici o storici. Piuttosto la Scrittura non erra in tutto ciò che è relativo alla
“verità salvifica”:
«Poiché dunque tutto ciò che gli autori ispirati o agiografi asseriscono è da
ritenersi asserito dallo Spirito Santo, bisogna ritenere, per conseguenza, che i libri della Scrittura
insegnano con certezza, fedelmente e senza errore la verità che Dio, per la nostra salvezza [veritatem
nostrae salutis causa], volle fosse consegnata nelle sacre Scritture» (DV 11).
Il dono di scrivere sotto divina ispirazione è uno dei doni più grandi che lo Spirito Santo ha
distribuito alle prime comunità cristiane, ma non certamente l’unico, poiché l’intera
Tradizione è opera dello Spirito.
In Cristo, i verba multa (le molte parole) degli scrittori biblici diventano per sempre Verbum unum (l’unica Parola). Senza di Lui, invece, il legame si scioglie: di nuovo la parola di Dio si riduce a frammenti di “parole umane”; parole molteplici, non soltanto numerose, ma molteplici per essenza e senza unità possibile, perché, come constata Ugo di San Vittore, multi sunt sermones hominis, quia cor hominis unum non est (numerose sono le parole dell’uomo, perché il cuore dell’uomo non è uno).
(da Henri De Lubac, Esegesi medievale. I quattro sensi della Scrittura)
Soffermiamoci [...] sull’unità della Scrittura. È un dato teologico che non è,
tuttavia, attribuito solo dall’esterno ad un insieme in sé eterogeneo di scritti. L’esegesi
moderna ha mostrato come le parole trasmesse nella Bibbia divengano Scrittura attraverso un processo di sempre
nuove riletture: i testi antichi, in una situazione nuova, vengono ripresi, compresi e letti in modo nuovo.
Nella rilettura, nella lettura progrediente, mediante correzioni, approfondimenti e ampliamenti taciti, la
formazione della Scrittura si configura come un processo della parola che a poco a poco dischiude le sue
potenzialità interiori, che in qualche modo erano presenti come semi, ma si aprono solo di fronte alla
sfida di nuove situazioni, nuove esperienze e nuove sofferenze.
Chi osserva questo processo - certamente non lineare, spesso drammatico e tuttavia in progresso - a partire da
Gesù Cristo può riconoscere che nell’insieme c’è una direzione, che
l’Antico e il Nuovo Testamento sono intimamente collegati tra loro. Certo, l’ermeneutica
cristologica, che in Gesù Cristo vede la chiave del tutto e, partendo da Lui, apprende a capire la
Bibbia come unità, presuppone una scelta di fede e non può derivare dal puro metodo storico. Ma
questa scelta di fede ha dalla sua la ragione - una ragione storica - e permette di vedere l’intima
unità della Scrittura e di capire così in modo nuovo anche i singoli tratti di strada, senza
togliere loro la propria originalità storica.
L’«esegesi canonica» - la lettura dei singoli testi della Bibbia nel quadro della sua
interezza - è una dimensione essenziale dell’esegesi che non è in contraddizione con il
metodo storico-critico, ma lo sviluppa in maniera organica e lo fa divenire vera e propria teologia.
(da Joseph Ratzinger – Benedetto XVI, Gesù di Nazaret, Rizzoli, Milano, 2007, pp. 14-17)
La Scrittura è cresciuta nel e dal soggetto vivo del popolo di Dio in cammino e vive in esso. Si potrebbe dire che i libri della Scrittura rimandano a tre soggetti che interagiscono tra loro. Dapprima c’è l’autore singolo o il gruppo di autori, a cui dobbiamo un libro della Scrittura. Ma questi autori non sono scrittori autonomi nel senso moderno del termine, appartengono, invece, al soggetto comune «popolo di Dio»: partendo da esso parlano e a esso si rivolgono al punto che il popolo è il vero, più profondo «autore» delle Scritture. E ancora: questo popolo non è autosufficiente, ma sa di essere condotto e interpellato da Dio stesso che, nel profondo, parla attraverso gli uomini e la loro umanità. Per la Scrittura il rapporto con il soggetto «popolo di Dio» è vitale. Da una parte, questo libro - la Scrittura - è il criterio che viene da Dio e la forza che indica la strada al popolo, ma, dall’altra parte, la Scrittura vive solo in questo popolo, che nella Scrittura trascende se stesso e così - nella profondità definitiva in virtù della Parola fatta carne - diventa appunto popolo di Dio. Il popolo di Dio - la Chiesa - è il soggetto vivo della Scrittura; in esso le parole della Bibbia sono sempre presenza. Naturalmente, però, si richiede che questo popolo riceva se stesso da Dio, ultimamente dal Cristo incarnato e da Lui si lasci ordinare, condurre e guidare.
(da Joseph Ratzinger – Benedetto XVI, Gesù di Nazaret, Rizzoli, Milano, 2007, pp. 14-17)
La II sezione della mostra illustra attraverso originali, fac-simili ed immagini fotografiche la storia della
trasmissione del testo biblico.
La mostra vuole innanzitutto presentare i complessi rapporti esistenti tra il testo ebraico non vocalizzato,
testimoniato dai rotoli di Qumran, e la traduzione in greco della Bibbia opera dell’ebraismo ellenizzato
di Alessandria d’Egitto che, attraverso la leggenda dei settanta (o settantadue) traduttori, ha voluto
attribuire a Dio l’ispirazione del testo veterotestamentario in greco – la versione sarà
utilizzata poi dai cristiani che la citeranno nel Nuovo Testamento.
Il visitatore è poi invitato a soffermarsi sulla redazione e la prima trasmissione dei libri
neotestamentari che vengono scritti su papiro, per essere poi raccolti nei codici.
Vengono poi presentati i codici medioevali del testo ebraico vocalizzato, detto testo masoretico.
Conclude la sezione la presentazione della Vulgata, la traduzione latina di Girolamo; la sua importanza, oltre
che per la storia del testo e dell’interpretazione, le deriva dall’essere la versione utilizzata
nella definizione del Canone cattolico avvenuta con il Concilio di Trento.
Rotolo (Meghillah) di Ester |
L’esemplare esposto è stato ritrovato a Trento dopo la seconda guerra mondiale in una soffitta
nella quale, forse, una famiglia ebraica aveva cercato rifugio durante la persecuzione nazista.
La meghillah – che significa rotolo - di Ester viene letta interamente, nella liturgia
sinagogale, in occasione della festa di Purim. Il testo è scritto a mano e non vocalizzato,
caratteristica che contraddistingue tuttora tutti i rotoli biblici utilizzati nella liturgia ebraica.
Rotolo (Meghillah) di Ester ebraico |
Le foto in microfiches ritraggono, colonna per colonna, il manoscritto completo del rotolo di Isaia
rinvenuto nella prima grotta di Qumran. È denominato con la sigla 1QIsA. La seconda immagine presenta un
ingrandimento della prima colonna del rotolo.
Il testo non è vocalizzato. 1QIsA si differenzia dal testo di Isaia del Codice di Leningrado unicamente
per le matres lectionis (le consonati mute che servono ad individuare alcune vocali).
Nella stessa grotta è stato rinvenuto un secondo rotolo contenente Isaia, ma frammentario: esso è
denominato dagli studiosi 1QIsB.
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Il ritrovamento dei manoscritti di Qumran, località sulle rive occidentali del Mar Morto, rappresenta
senza dubbio una delle maggiori scoperte archeologiche del XX secolo.
Nel 1947 le sponde del Mar Morto erano allora sotto il protettorato inglese, così come la città
di Gerusalemme. Mohamad ed-Dhib, un beduino della tribù Ta’amireh, cercando una capra sperduta,
lanciò un sasso in una grotta al fine di far belare l’animale ed avvertì, invece, il rumore
di cocci che si rompevano. Tornato in seguito sul posto con il cugino, si calò nella grotta nella quale
trovò diverse giare, alcune delle quali sigillate. In esse c’erano rotoli manoscritti. I due ne
portarono un esemplare ad un antiquario della Chiesa siro-giacobita di Gerusalemme, soprannominato Kando, che a
sua volto lo consegnò al Metropolita della sua Chiesa Mar Athanasius Yeshue Samuel. Era soltanto
l’inizio di una serie di eccezionali ritrovamenti.
Mentre si profilava, alla partenza degli inglesi, la prima guerra arabo-israeliana del 1948-1949, il
metropolita riuscì a comprare dai beduini altri 5 rotoli, mentre un altro fu venduto
all’Università Ebraica di Gerusalemme. Mar Athanasius riuscì a farsi rivelare il luogo dei
ritrovamento e ad inviare Kando per un sopralluogo.
Finalmente il Metropolita, dopo essersi rivolto infruttuosamente in Siria ed in Libano, fece consultare tre dei
manoscritti al prof. E. L. Sukenik che comprese l’importanza di quei ritrovamenti. Erano i rotoli che
saranno poi chiamati Isaia B, il Rotolo della guerra e il Rotolo degli inni. Il
Metropolita portò altri rotoli all’ASOR (American School of Oriental Research), affermando di
averli rinvenuti nella biblioteca del monastero. Erano Isaia A, il Commento ad Abacuc, la
Regola della comunità e un Apocrifo della Genesi. Il 14 maggio gli inglesi lasciarono la
Palestina, il 15 fu dichiarato lo Stato di Israele e contemporaneamente scoppiò la guerra.
Il Metropolita fece portare i manoscritti al sicuro in America e, per un po’, non se ne seppe più
nulla. I manoscritti riapparvero il 1 giugno 1954 grazie ad un annuncio sul Wall Street Journal di New York che
li metteva in vendita. Il prof Y. Yadin, archeologo israeliano, figlio del Sukenik, era negli USA per una
conferenza e, avvisato da un amico del fatto, si affrettò ad acquistarli per 250.000 dollari. Fu il
primo gruppo di testi che dette successivamente origine al “Museo del Libro” di Gerusalemme.
Nel frattempo erano state fatte ricerche accurate in tutte le grotte che erano ora in territorio giordano e
tutti i testi ritrovati successivamente furono riuniti nel Museo archeologico che fu realizzato nella zona est
di Gerusalemme, dove anche i domenicani dell’École Biblique di Gerusalemme poterono cominciare a
studiarli. Dopo la guerra del 1967 tutto il materiale entrò in possesso dello Stato di Israele ed i
manoscritti furono riuniti nel “Museo del Libro”.
Oggi tutti i documenti, anche i frammenti più minuscoli, sono a disposizione in microfilm, per tutti gli
studiosi. È una leggenda quella che vuole che alcuni testi siano ancora tenuti nascosti da chissà
quale autorità politica o religiosa. È vero, invece, che non è stato possibile ancora
giungere ad una lettura unanime dei frammenti più piccoli che potrebbero riservare ancora qualche
sorpresa.
Esiste un sostanziale accordo fra gli studiosi che la comunità che ha abitato a Qumran sia appartenuta
al più ampio gruppo religioso degli esseni, uno dei tre principali gruppi del giudaismo di epoca
neotestamentaria testimoniati da Flavio Giuseppe. Gli altri due gruppi, quello dei farisei e quello dei
sadducei, sono ben conosciuti anche dalle fonti rabbiniche e neotestamentarie.
Esseni è termine conservatoci nel greco di Flavio Giuseppe e non altrimenti conosciuto. Designa,
nei suoi scritti, i discendenti degli assidei (o hassidim, che significa pii), dopo lo scisma
verificatosi nel movimento nel 152 a.C. Hassidim deriva a sua volta dall’aramaico hassaya
(pl. hasin), pio. Questo soprannome fu dato loro probabilmente dai farisei. Gli esseni avevano
regole di condotta ancor più rigorose dei farisei, accentuando l’aspetto legalistico
dell’osservanza della Torah.
La comunità di Qumran scelse di vivere non solo lontano dagli influssi dell’ellenismo e del
paganesimo, ma anche in una consapevole separazione dall’ebraismo praticato in Gerusalemme dai sadducei e
dai farisei che gli esseni ritenevano non pienamente conforme alla Torah ed alla volontà divina. I
manoscritti ritrovati testimoniano anzi che la visione del futuro della comunità era improntata
all’attesa di una guerra attraverso la quale, finalmente, Dio avrebbe riportato il culto del Tempio alla
purità desiderata, uccidendo gli ebrei che compivano sacrifici impuri.
Il sito di Qumran fu abbandonato intorno al 68 d.C. durante la prima guerra giudaica, prima della capitolazione
di Masada - l’ultima fortezza ad arrendersi, situata a breve distanza da Qumran. Prima della fuga, i
manoscritti in possesso della comunità furono accuratamente nascosti nelle grotte circostanti
probabilmente nella speranza di un futuro ritorno. Sappiamo da Flavio Giuseppe che numerosi esseni furono
uccisi dai Romani.
Le controversie più aspre sorte in seguito al ritrovamento dei testi del Mar Morto, riguardano le loro
relazioni con il Nuovo Testamento e il cristianesimo delle origini.
Le ipotesi di coloro che hanno voluto trovare collegamenti diretti tra gli esseni di Qumran e le prime
comunità cristiane appaiono oggi pressoché infondate.
Il nome e la figura di Gesù, ad esempio, fondamentale nel Nuovo Testamento, non è mai presente
nei manoscritti di Qumran. Ma, soprattutto, appare antitetica al Nuovo Testamento l’impostazione
qumranica legalista e la sua visione messianica caratterizzata dalla maledizione contro i figli delle tenebre
ed in attesa di uno scontro armato con loro.
La constatazione di differenze così decisive impediscono così di ammettere un influsso della
comunità di Qumran sul cristianesimo. È vero piuttosto che proprio il confronto tra gli esseni,
da un lato, e Gesù e la comunità dei suoi discepoli, dall’altro, permette di rilevare
ancora di più l’assoluta novità della proposta evangelica ed, insieme, la sua specifica
collocazione in relazione alle problematiche che si dibattevano nel giudaismo precedentemente all’anno 70
d.C.
I manoscritti nascosti presso Qumran dagli esseni si sono conservati - alcuni pressoché intatti - per
circa due millenni a motivo del clima desertico. Le undici grotte di Qumran hanno restituito circa 800
manoscritti, anche se molti di essi in forma frammentaria. La prima cifra della catalogazione dei manoscritti
indica la grotta dalla quale provengono (per esempio 4Q indica la quarta grotta di Qumran in ordine di
scoperta).
I diversi manoscritti sono databili tra il III secolo a.C. e il I secolo d.C. e sono stati composti o copiati a
Qumran. Alcuni potrebbero essere stati redatti in luoghi diversi e poi utilizzati dalla comunità di
Qumran. La maggioranza dei testi è in lingua ebraica; taluni manoscritti sono in aramaico e si trovano
anche alcuni testi scritti in greco.
I testi rinvenuti a Qumran confermano l’impostazione fortemente legalista del movimento essenico che era
già nota da documenti conosciuti precedentemente, in particolare il cosiddetto Documento di
Damasco ritrovato insieme ad altri manoscritti nel 1896-1897 nella gheniza della sinagoga di Ezra
nella parte vecchia del Cairo. Il testo, presente in ben dieci esemplari anche se frammentari nelle grotte di
Qumran, così si esprime in merito ad alcune regole alimentari o di purità:
«Quanto ai pesci, non li mangino a meno che non siano stati aperti vivi e versato il loro sangue. E
tutte le locuste, secondo il loro genere, saranno messe nel fuoco o in acqua quando sono ancora vive,
poiché questa è la norma delle loro specie. E tutti i legni e le pietre e la polvere che sono
contaminate con impurità dell’uomo, per contaminazione di olio in esse, secondo la loro
impurità renderanno impuro chi le tocca. E ogni utensile, chiodo o perno nel muro che è con un
morto nella casa, sarà impuro della stessa impurità degli utensili da lavoro».
Sempre nello stesso documento possiamo leggere alcune indicazioni normative molto restrittive riguardanti il
sabato:
«Nessuno aiuti a partorire un animale, il giorno del sabato. E se cade in un pozzo o in una fossa non
lo si tiri su, di sabato. Nessuno profani il sabato per ricchezza o guadagno, di sabato… E ogni uomo
vivo che cade in un luogo di acqua o in un luogo, nessuno lo tiri su con una scala, una corda o un utensile.
Nessuno offra nulla sull’altare di sabato, tranne il sacrificio del sabato, perché così
è scritto: soltanto le vostre offerte del sabato».
Lo stesso tenore legalista ha la celebre Regola della comunità, ritrovata a Qumran, che ci
informa sulla struttura gerarchica della comunità stessa e sulle regole per l’ammissione ad essa.
La linea è confermata anche dal cosiddetto Rotolo del Tempio che sembra fornire non tanto una
descrizione della prassi cultuale dell’ebraismo del tempo, quanto piuttosto il rituale che a Qumran si
riteneva dovesse essere osservato nei sacrifici e nella liturgia del Tempio.
I ritrovamenti di Qumran e della gheniza del Cairo sono altresì in sintonia con quanto Flavio
Giuseppe aveva rilevato nel presentare nella sua Guerra giudaica gli esseni, sottolineandone
l’osservanza scrupolosa di quei precetti che erano ritenuti volontà divina. Egli scrive, ad
esempio:
«Con più rigore di tutti gli altri giudei si astengono dal lavoro nel settimo giorno; non solo
infatti si preparano da mangiare il giorno prima, per non accendere il fuoco quel giorno, ma non ardiscono
neppure di muovere un arnese né di andare di corpo. Invece, negli altri giorni, scavano una buca della
profondità di un piede con la zappetta - a questa infatti assomiglia la piccola scure che viene
consegnata da loro ai neofiti -, e avvolgendosi nel mantello, per non offendere i raggi di Dio, vi si siedono
sopra. Poi gettano nella buca la terra scavata, e ciò fanno scegliendo i luoghi più solitari. E
sebbene l’espulsione degli escrementi sia un fatto naturale, la regola impone di lavarsi subito dopo come
per purificarsi da una contaminazione».
Molto importante per la comprensione degli ideali essenici è il Rotolo della guerra che affronta
il tema del conflitto tra i figli della luce ed i figli delle tenebre. Così recita il suo
inizio, annunciando la guerra con i popoli pagani e con l’ebraismo infedele alla Torah, simbolizzati dai
nemici veterotestamentari:
«E questo è il libro della regola della guerra. L’inizio si avrà allorché i
figli della luce porranno mano all’attacco contro il partito dei figli delle tenebre, contro
l’esercito di Belial, contro la milizia di Edom, di Moab, dei figli di Ammon, contro gli Amaleciti e il
popolo della Filistea, contro le milizie dei Kittim di Assur, ai quali andranno in aiuto coloro che agiscono
empiamente verso il patto».
Famoso per la curiosità che ha suscitato è il Rotolo di rame che è stato aperto a
fatica dagli studiosi a motivo dell’ossidazione del rame, il materiale di cui è costituito; il
testo contiene quelle che sembrano essere le indicazioni di tesori e monete nascosti che, comunque, non
è stato possibile ritrovare.
Nella quarta riga del frammento 4Q285 la forma verbale ebraica
והםיתו può essere letta wehemitu
o wehemito, non essendo il testo, come tutti i manoscritti
di Qumran, vocalizzato.
Il contesto dei frammenti è messianico e probabilmente il messia in
questione è da identificare con il maestro di giustizia atteso
dalla comunità essenica.
Se si legge wehemitu, “essi hanno messo a morte”,
il passo farebbe riferimento a coloro che metteranno a morte il messia. Questa
è la lettura adottata da R. Eisenman.
Si deve, invece, preferire la seconda vocalizzazione, come sostengono la maggioranza
degli studiosi, perché i frammenti fanno riferimento ad Is 11 nel quale
si afferma che “egli ha messo a morte lui” - wehemito
- cioè che il messia ha messo a morte l’empio. Il messia atteso
a Qumran farà uso della violenza per far scomparire il malvagio dalla
faccia della terra. È palese la distanza dalla predicazione di Gesù.
|
Con questo nome si indica la versione greca della Bibbia ebraica, la cui traduzione ebbe inizio nel III secolo
a.C. ad Alessandria d’Egitto a partire dal Pentateuco. A motivo della sua origine è detta anche
Bibbia “alessandrina”.
È invalso l’uso, nei secoli, di indicarla con il nome di Septuaginta o Settanta
(abbreviato nei testi scientifici con la sigla LXX) perché, secondo una antica tradizione
leggendaria testimoniata dalla Lettera di Aristeaa Filocrate (II a.C., ma la datazione è
discussa) e ripresa con alcune varianti nelle Antichità giudaiche di Flavio Giuseppe, la
traduzione greca sarebbe dovuta a 72 o 70 sapienti di Israele, sei per ogni tribù, guidati dal sommo
sacerdote Eleazar. Essi, esperti nella lingua ebraica ed in quella greca, sarebbero stati radunati dal re
Tolomeo Filadelfo (285-247 a.C.) per approntare la traduzione greca della Bibbia perché il sovrano ne
potesse disporre nella sua biblioteca di Alessandria.
La traduzione sarebbe avvenuta nell’isola di Faro (l’isola del famoso faro del porto di
Alessandria, una delle 7 meraviglie del mondo antico), nella quale i 70/72 sarebbero stati chiusi in clausura
in altrettante celle ed in 72 giorni avrebbero tradotto tutto il Pentateuco.
La Lettera di Aristea ha chiaramente un intento celebrativo della traduzione greca della Bibbia ebraica
per indicare che la traduzione sarebbe avvenuta per volontà divina: i traduttori sarebbero giunti
indipendentemente a traduzioni perfettamente identiche le une alle altre, in quanto ispirati da Dio stesso.
La traduzione fu, invece, probabilmente approntata ad uso degli ebrei ellenizzati che risiedevano in Egitto, i
quali non avevano più l’ebraico come lingua madre.
È certo, comunque, che una versione greca della Bibbia ebraica, iniziata per opera di diversi traduttori
nel III sec. a.C. era terminata nel I secolo a.C. Gli studiosi concordano, anzi, sul fatto che siano esistite
più traduzione antiche in greco, come rielaborazioni dei LXX o nella forma di vere e proprie
nuove traduzioni. Si conoscono, in particolare, la revisione detta καιγε
(kaighe) del I secolo d.C., le versioni di Aquila (I secolo d.C.), di Simmaco e di Teodozione (entrambe
del II secolo d.C.), oltre ad ulteriori versioni delle quali si ha notizia dagli scritti di Origene.
La Bibbia dei LXX, utilizzata dapprima dagli ebrei che risiedevano in Egitto, si diffuse poi in tutta la
Diaspora antica e divenne di uso comune nelle sinagoghe del mondo greco-romano e successivamente anche in
Giudea e Palestina.
Gli scrittori del Nuovo Testamento si riferiscono continuamente ad essa e dai LXX traggono
ordinariamente le loro citazioni veterotestamentarie. La Bibbia dei LXX passò poi nelle mani dei
Padri dalla Chiesa e fu la base di molte antiche versioni, tra cui le prime traduzioni latine.
Il Concilio di Trento ne promosse un’edizione ufficiale che fu pubblicata nel 1586, a partire dal
Codice Vaticano o Codice B. Tale edizione divenne il Textus Receptus dell’Antico
Testamento greco.
L’importanza della versione dei LXX proviene dal fatto che essa testimonia, anche se tramite una
traduzione, uno stato del testo ebraico anteriore al lavoro di unificazione operato dagli scribi.
La Bibbia dei LXX conosce 7 libri che non confluiranno nella Bibbia ebraica: Tobia, Giuditta, 1 e 2
Maccabei, Baruch e la lettera di Geremia (Bar 6), Siracide e Sapienza, oltre a brani di Daniele ed Ester
presenti solo in greco. Questi libri vengono chiamati “deuterocanonici” perché, pur mancando
nel canone ebraico, sono stati unanimemente accolti dalla Chiesa cattolica, fin dei primi secoli, come libri
ispirati, proprio perché presenti nella versione dei LXX che era di uso comune nella
liturgia.
Le comunità protestanti hanno, invece, successivamente optato per un canone ristretto, accogliendo nel
‘500 la decisione maturata nell’ebraismo intorno all’anno 90 d.C., quando i farisei si
pronunziarono contro la canonicità dei libri biblici scritti in greco.
Il Codice Vaticano (Codice B), uno dei due più antichi manoscritti completi della Bibbia (IV secolo), esposto in fac-simile |
Il Codice Vaticano è così chiamato in quanto, dal 1475, appare nel catalogo della Biblioteca
Vaticana, con il numero 1209. È un codice in pergamena ed è ritenuto la più antica copia
completa della Bibbia conservatasi.
Gli studiosi concordano nell’affermazione che il manoscritto da cui il Codice è stato copiato
appartiene alla cosiddetta famiglia alessandrina, cioè alla tradizione testuale di Alessandria
d’Egitto. Il Codice Vaticano sarebbe stato copiato intorno agli anni 350-370, perché la
disposizione dei libri sembra rispecchiare quella che risulta dalla 39a Lettera festale di
sant’Atanasio. Una seconda ipotesi è che sia stato copiato in età costantiniana quando
l’imperatore chiese la realizzazione di 50 copie della Bibbia per le chiese di Costantinopoli, lavoro che
fu realizzato a Cesarea di Palestina. La scrittura del Codice è, comunque, certamente da datare intorno
alla metà del IV secolo, con un oscillazione fra il regno di Costantino e quello di Costante.
Il Codice Vaticano è scritto con lettere unciali. Almeno due copisti vi hanno lavorato, ma il loro
numero potrebbe essere stato maggiore. Comprende attualmente un totale di 759 fogli (617 fogli per il solo AT).
Ciascun foglio misura cm. 27x27. Il testo su ciascuna pagina è organizzato in tre colonne di 40 righe
ciascuna, con 16-18 lettere per rigo.
Nei libri poetici il testo è diviso in versi, su due colonne. Tutte le lettere sono di uguale grandezza
ed in scriptio continua.
Il Codice Vaticano appare mutilo, con fogli aggiunti successivamente per le parti mancanti che sembrano essere
state completate nella prima metà del XV secolo (si è fatta l’ipotesi di una scrittura
precipitosa di queste pagine per offrire in dono il Codice in occasione del Concilio di Firenze, ma non vi
è alcuna prova documentaria per questo).
La situazione delle pagine è la seguente: i primi 20 fogli (Genesi 1-46,27) sono andati perduti,
così come una parte del foglio 178 (2 Sam 2,5-7;10-13, dove è da ricordare che nei LXX il II
libro di Samuele porta il nome di II libro dei Re) e 10 fogli a partire dalla pagina 348 (Sal 105,27-137,6),
oltre ad un imprecisabile numero di fogli al termine del Codice. Qualcuno degli scritti dei Padri apostolici
poteva forse essere presente dopo il libro dell’Apocalisse.
Gli scritti dei profeti minori precedono quelli dei profeti maggiori. Sono presenti gli scritti
veterotestamentari in greco, ma non i libri dei Maccabei.
Il timbro della Bibliothèque nationale di Parigi sotto quello della Biblioteca Apostolica Vaticana. Fu apposto quando il Codice fu annoverato per alcuni anni, dal 1797 al 1815, fra i manoscritti della biblioteca parigina dopo il “furto” delle truppe napoleoniche |
Del NT (142 fogli) sono andati perduti Eb 9,14-13,24, la lettera a Filemone, le lettere pastorali e
l’Apocalisse. Le epistole cattoliche sono poste dopo gli Atti e prima del corpus paolino.
Dalla numerazione peculiare del Codice si evince che esso è copia di un testo nel quale l’epistola
agli Ebrei era posta tra la lettera ai Galati e la lettera agli Efesini (mentre nel Vaticano la lettera agli
Ebrei è l’ultima del corpus). Come il Codice Sinaitico, il Vaticano non contiene la
“finale” lunga del vangelo di Marco, ma un notevole spazio lasciato vuoto farebbe pensare che lo
scriba fosse conscio della lacuna nel manoscritto da cui stava copiando.
Va ricordato che i formati di tali codici erano tanto grandi onde permetterne la consultazione a più di
un lettore alla volta. La rilegatura delle diverse pagine nella forma del codice sembra essere una invenzione
cristiana dovuta alla necessità di un testo che contenga insieme tutti i libri biblici.
Codice Sinaitico o Codice (aleph) o Codice S IV sec. d.C. |
Datato alla metà del quarto secolo, catalogato con la prima lettera dell’alfabeto ebraico
(aleph), conteneva in origine, sia il Nuovo che l’Antico Testamento, insieme alla Lettera di
Barnaba ed al Pastore di Erma, appartenenti ai cosiddetti Padri Apostolici, scritti anch’essi
in greco.
Ritrovato nel 1844 dal ricercatore Constantin von Tischendorf nella biblioteca del monastero di Santa Caterina
al monte Sinai, fu portato poi a San Pietroburgo. Nel 1933 fu venduto al British Museum di Londra ove é
attualmente conservato.
Il Codice Sinaitico consta di 346 e 1/2 fogli di pergamena. Ciascun foglio misura 43x38 cm. Calcolando che la
pelle conciata di una pecora può fornire due fogli di tale formato, debbono essere stati necessari non
meno di 170-180 animali per approntare il solo materiale scrittorio. Evidentemente il committente del
manoscritto doveva essere molto facoltoso (lo stesso vale per tutti gli antichi codici biblici).
Il codice presenta quattro colonne di testo per facciata; solamente i libri poetici in versi sono disposti in
due colonne di notevole larghezza. Le quattro colonne dipendono probabilmente dalla notevole grandezza dei
fogli utilizzati e dalla necessità di rendere più leggibile il testo in scriptio continua
(in scrittura continua, senza interruzioni tra le parole) spezzandolo più frequentemente.
Il manoscritto è in lettere unciali (cioè in maiuscole), senza accenti e spiriti o segni di
interpunzione, eccetto a volte l’apostrofo e il punto alla fine di un periodo. Le lettere sono di eguale
dimensione; non sono presenti ornamenti. I copisti non seguono la divisione del testo proposta da Eusebio di
Cesarea e che ci è testimoniata nella sua lettera a Carpiano, dato che fa ulteriormente propendere per
una datazione al IV secolo.
Il manoscritto ha subito varie mutilazioni, specialmente nei libri che vanno da Genesi ad Esdra. Ciò che
rimane (198 fogli) è costituito da frammenti di Genesi 23 e 24; Numeri 5-6 e 7; 1 Cronache 9,27-19,17;
Esdra 9,9-10,44; Lamentazioni 1,1-2,20. Integri sono invece i libri di Nehemia, Ester, Gioele, Abdia, Giona,
Nahum, Abacuc, Sofonia, Aggeo, Zaccaria, Malachia, Isaia, Geremia. Il manoscritto contiene anche i testi
veterotestamentari greci di Tobia, Giuditta, 1 Maccabei e l’apocrifo 4 Maccabei (mentre il Codice non ha
mai contenuto 2 Maccabei e l’apocrifo 3 Maccabei).
Il Nuovo Testamento (148 fogli) contiene tutti i libri considerati canonici, più la Lettera di
Barnaba (a Barnaba seguivano 6 fogli andati perduti, di cui non si conosce il contenuto) ed il Pastore
di Erma (incompleto). Le epistole di Paolo precedono gli Atti e la lettera agli Ebrei segue 2
Tessalonicesi. Il testo del Codice Sinaitico somiglia molto, per quel che riguarda il Nuovo Testamento, a
quello del Codice Vaticano. Per quel che riguarda l’Antico Testamento il testo del Sinaitico è
più simile, invece, a quello del Codice Alessandrino.
Il ritrovamento del Codice Sinaitico si deve a Constantin von Tischendorf. Fu lui stesso a raccontare come in
un romanzo l’avventurosa storia della scoperta. Von Tischendorf, studioso che all’età di
soli venticinque anni aveva già studiato e tradotto il Codice di Efrem rescritto, si trovava nel 1844
nel Monastero di S. Caterina alla ricerca di manoscritti antichi. Trovò casualmente nella libreria del
monastero una cesta contenente 43 fogli di pergamena di un antico manoscritto, probabilmente destinati ad
essere distrutti. Von Tischendorf si rese conto che quei fogli appartenevano ad una antica copia dei LXX
(l’Antico Testamento in greco) e contenevano brani di Geremia, Nehemia, 1 Cronache ed Ester.
I monaci, diffidenti, pur conoscendo l’esistenza di altre pagine del Codice, si rifiutarono di fargliele
esaminare. Von Tischendorf ottenne però in dono i fogli ritrovati che pubblicò in fac-simile nel
1846. Nel 1853 una seconda spedizione si rivelò infruttuosa: furono rinvenuti solo due ulteriori
frammenti del Libro della Genesi.
Nel 1859 von Tischendorf effettuò una terza visita al convento grazie all’aiuto dello Zar
Alessandro II, dal quale dipendevano allora tutti i monasteri greco-ortodossi. Un monaco mostrò allo
studioso un manoscritto che aveva trovato casualmente nella sua cella, nascosto tra vari oggetti. Si trattava
di un’ulteriore sezione del Codice, contenente gran parte dell’AT e tutto il NT con
l’aggiunta della Lettera di Barnaba e del Pastore di Erma. Il von Tischendorf che non era
riuscito a convincere i monaci a consegnargli il manoscritto iniziò a trascriverlo nel Monastero stesso.
Successivamente riuscì ad ottenere che fosse inviato in un monastero greco-ortodosso del Cairo per
potere continuare a copiarne il testo. Infine von Tischendorf riuscì a far regalare il manoscritto allo
Zar in cambio di una ricompensa. Il fac-simile dell’intero manoscritto venne pubblicato nel 1862 con il
nome di Codice Sinaitico.
Nel 1867 vennero pubblicati nuovi frammenti del Codice Sinaitico con brani della Genesi e dei Numeri. Erano
stati rinvenuti dall’Archimandrita Porfirio ed utilizzati in un primo tempo per riparare altri
manoscritti. Seguirono altri quattro rinvenimenti. Nel 1933 il Codice fu venduto dal governo sovietico alla
Corona inglese per 100.000 sterline. Recentemente nel monastero di S. Caterina sono stati ritrovati altri 9
fogli contenenti parte della Genesi.
Codice detto “di Efrem rescritto” o Codice C V sec. d.C. |
Questo manoscritto è un palinsesto (da palin, “di nuovo” e psao,
“raschio”). I palinsesti sono manoscritti il cui testo originale è stato lavato o raschiato
via per far posto ad un altro testo. Su 241 codici biblici in maiuscolo, 55 sono palinsesti. Il testo della
Bibbia del Codice di Efrem risale al V sec. d.C.
Intorno al XII secolo i fogli di pergamena furono lavati per cancellarne il testo della Scrittura e copiare i
38 trattati di Efrem in lingua greca. Dopo la caduta di Costantinopoli il Codice fu portato a Firenze, poi
passò a Parigi al seguito di Caterina de’ Medici. Ora esso appartiene alla Biblioteca Nazionale di
Parigi.
Il testo sottostante del NT fu decifrato nel 1834 dal Fleck e nel 1843 dal von Tischendorf con l’aiuto di
reagenti chimici. Nel 1845, von Tischendorf pubblicò il testo dell’AT. I reagenti chimici
utilizzati, purtroppo, presentavano l’inconveniente di annerire con il tempo la pergamena, rendendo in
tal modo il testo illeggibile. Oggi è possibile leggere il testo facendo uso dei raggi
ultravioletti.
Il Codice di Efrem rescritto è in pergamena, conta 209 fogli che misurano circa 33x27cm ciascuno. Il
testo è su una sola colonna per pagina. Lo scriba non inserì né spiriti, né
accenti, ma solo qualche apostrofo. Ciascun periodo è concluso da un punto. Sono frequenti lettere
evidenziate, come per il codice Alessandrino. Nel Codice originariamente era contenuta l’intera Bibbia.
Oggi si conservano 64 fogli dell’AT contenenti quasi tutto il Qoèlet, parte del Siracide e della
Sapienza, frammenti del Cantico dei Cantici e dei Proverbi. Del NT (145 fogli in tutto) rimangono porzioni di
tutti i libri, eccetto della seconda lettera ai Tessalonicesi e della seconda lettera di Giovanni. Nessun libro
è completo.
Codice di Beza Cantabrigiensis o Codice D V sec. d.C. |
Questo Codice deve il suo nome al fatto di essere appartenuto al riformatore Teodoro di Beza. Nato a Ginevra
nel 1519, divenne calvinista e fu il discepolo prediletto di Calvino. Divenuto direttore dell’Accademia
Teologica di Ginevra fece dono del Codice, nel 1581, all’università inglese di Cambridge (dove
è attualmente conservato) - da qui il nome di Cantabrigiensis (“di Cambridge”).
Beza scrisse, nella lettera di accompagnamento al Codice, che esso pervenne nelle sue mani dopo essere stato
sottratto dagli ugonotti al monastero di Sant’Ireneo in Lione, durante la guerra del 1562. Da Lione
proveniva anche Michele Serveto, messo al rogo nella Ginevra calvinista di quegli anni - Beza scrisse un
opuscolo a sostegno della sua esecuzione capitale.
Beza dichiara nei suoi scritti che il manoscritto giaceva da lungo tempo inutilizzato nel monastero lionese,
destinato solo a coprirsi di polvere. Gli studi recenti, al contrario, sostengono che il Codice sia stato
utilizzato nel 1546 nel corso del Concilio di Trento, a motivo di una lezione latina di Giovanni 21 (si eum
volo manere) utilizzata dai padri conciliari che è avallata solo dal testo greco del Codice.
Probabilmente, quindi, il Codice di Beza alla metà del XVI secolo si trovava in Italia.
Secondo K. e B. Aland il Codice sarebbe stato copiato in Egitto o nell’Africa del Nord da un copista la
cui lingua materna era il latino. Attualmente il Codice viene datato al V/inizi del VI secolo. Il manoscritto
è bilingue, greco e latino. Il testo greco è sul “lato d’onore”, quello
sinistro. Il testo latino dipende da quello greco e si discosta da tutte le altre versioni della tradizione
testuale latina del NT. Sono presenti correzioni, che interessano più il testo greco che quello latino,
con riferimento in particolare a Luca ed Atti; sembrano essere il frutto del lavoro di un esperto teologo. Il
manoscritto è in pergamena e conta 415 fogli di 26x21,5 cm. Il testo è su di una colonna per
pagina, con righe di diversa lunghezza, corrispondenti ad unità di senso, onde rendere più
agevole la lettura durante il servizio cultuale.
Il Codice contiene oggi solo i quattro Vangeli (nel seguente ordine: Matteo, Giovanni, Luca, Marco), gli Atti
degli Apostoli e pochi versi in latino della terza Lettera di Giovanni (vv. 11-15). Le parti mancanti del greco
o del latino sono integrate dalla mano di un copista del X secolo d.C.
Codice Alessandrino o Codice A V sec. d.C. |
Il codice Alessandrino o Codice A contiene AT e NT con lacune. Nel NT è andato quasi completamente
perduto il vangelo di Matteo. Il manoscritto è di qualità variabile, a seconda dei libri:
evidentemente essi furono copiati da diversi manoscritti. Il testo dei Vangeli è scadente, mentre
è di alta qualità il resto del Nuovo Testamento. Eccellente è poi il testo
dell’Apocalisse.
Gli studiosi datano il Codice A alla metà o all’inizio del V secolo d.C. Il Codice Alessandrino
è così chiamato poiché ne è documentata l’esistenza nella Biblioteca del
Patriarca di Alessandria fin dall’XI secolo. Fu poi donato al re d’Inghilterra Giacomo I, per
intercessione del Patriarca Cirillo Lukaris di Costantinopoli. Giacomo I morì prima di poterlo ricevere
ed il volume arrivò in Inghilterra nel 1627 nelle mani di suo figlio, Carlo I. Il manoscritto è
attualmente conservato presso il British Museum.
Il Codice Alessandrino è attualmente formato da 773 fogli di pergamena di cm. 32x26 (originalmente i
fogli debbono essere stati 822). La scrittura usata è l’onciale in scriptio continua.
Contiene i testi canonici dell’AT (622 fogli) ad eccezione di Genesi 14,14-17; 15,1-5.16-19; 16,6-9; 1Re
12,20- 14,9; Salmi 5,20- 80,11. Sono presenti anche tutti i libri greci dell’Antico Testamento. Il
manoscritto contiene anche i testi apocrifi del III e IV libro dei Maccabei.
Il NT (144 fogli) contiene i testi canonici ad eccezione di Matteo 1,1-25,6 (mancano 25 fogli); Giovanni
6,50-8,52 (due fogli); 2Corinzi 4,13-12,6 (3 fogli). Il NT contiene anche le due epistole del Padre apostolico
Clemente Romano (manca un foglio della 1Clemente ed i 2 fogli finali della 2Clemente). Una lista aggiunta al
Codice testimonia che anche il Libro dei Salmi di Salomone era incluso nel Codice; lo spazio che separa questo
libro dagli altri dell’AT lascia forse intendere che esso non fosse considerato canonico.
L’ordine dei libri del NT è il seguente: Vangeli, Atti, Epistole Cattoliche, Epistole Paoline (con
la lettera agli Ebrei posta prima delle lettere Pastorali), Apocalisse. Originariamente il Codice era in un
solo volume, attualmente è rilegato in quattro volumi le cui copertine recano impresse le insegne di
Carlo I. Tre volumi contengono l’AT ed uno il NT. Il testo è scritto su due colonne per pagina di
circa 49-51 righe per colonna. Ciascun nuovo paragrafo è indicato da una grossa lettera iniziale e
frequentemente da uno spazio. Non sempre la lettera evidenziata coincide con l’inizio di un paragrafo o
di una parola.
frammenti
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testo completo
|
I sec.
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II
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III
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IV
|
V
|
VI
|
VII
|
VIII
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IX
|
X
|
XI
|
XII
|
|
MATTEO dopo 70 d.C.
|
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||||||||||
MARCO prima 70 d.C.
|
|
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||||||||||
LUCA dopo 70 d.C.
|
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|||||||||||
GIOVANNI prima 90 d.C.
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|||||||||||
ARISTOTELE 384 - 322 a.C.
|
|
|||||||||||
CESARE 100 - 44 a.C.
|
|
|||||||||||
CICERONE 106 - 43 a.C.
|
|
|||||||||||
DEMOSTENE 384 - 322 a.C.
|
|
|||||||||||
ERODOTO ca. 484 - 425 a.C.
|
|
|||||||||||
ESCHILO 456 a.C.
|
|
|||||||||||
FLAVIO GIUSEPPE 37 - ca. 100 d. C.
|
|
|||||||||||
LIVIO 59 a.C. - 17 d.C.
|
|
|||||||||||
OMERO prima 800 a.C.
|
|
|||||||||||
ORAZIO 65 - 8 a.C.
|
|
|||||||||||
OVIDIO 43 a.C. - ca. 18 d.C.
|
|
|||||||||||
PLATONE 427 - 347 a.C.
|
|
|||||||||||
PLINIO 23 - 79 d.C.
|
|
|||||||||||
PLUTARCO ca 46 - 120 d.C.
|
|
|||||||||||
SAFFO prima 600 a.C.
|
||||||||||||
SENECA 65 d.C.
|
|
|||||||||||
SENOFONTE ca. 430 - 354 a.C.
|
|
|||||||||||
SOFOCLE 496 - 406 a.C.
|
|
|||||||||||
STRABONE 64a.C. - 19 d.C.
|
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|||||||||||
SVETONIO ca 70 - 150 d.C.
|
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|||||||||||
TACITO ca. 55 -ca. 120 d.C.
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VIRGILIO 70 - 19 a.C.
|
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Papiro Rylands 457 (P52) Inizi del II secolo d.C. |
Il Papiro 52 è il più antico manoscritto del NT che si è conservato. Sembra risalire alla
fine del primo quarto del II secolo. Nessun’altra opera dell’antichità ha testimonianze
manoscritte così vicine all’originale. Tra la redazione finale di Giovanni, posta dalla
maggioranza degli studiosi alla fine del I secolo d.C., e questo papiro vi sono comunque meno di 50 anni.
Il papiro appartiene alla John Rylands Library di Manchester, per cui è conosciuto anche come Papiro
Rylands 457. Il manoscritto ha provato che il IV Vangelo, benché scritto probabilmente in Asia, era
già conosciuto nella valle del Nilo, da cui proviene P52, verso il gli anni 120–130.
Nei pochi centimetri del papiro si sono conservati in forma frammentaria nel recto, i versetti 31-33 del
capitolo 18 del vangelo di Giovanni e nel verso i versetti 37-38 dello stesso capitolo.
Ecco in traduzione i vocaboli che sono leggibili nelle sette righe delle due facciate:
recto
|
verso
|
i giudei...a noi...
nessuno...cosicché la parola... disse indicando... Morire. Rientrò... pretorio Pilato e disse... dei giudei. |
(per questo) sono nato...
mondo per testimoniare... dalla verità. Gli dice... e questo... i giudei... nessuna... |
Il testo completo dei versetti 31-33 recita: «I giudei risposero a Pilato: “A noi non è
lecito mettere a morte nessuno”. Così si compiva la parola che Gesù disse indicando di
quale morte doveva morire. Pilato rientrò nel pretorio, fece chiamare Gesù e gli disse: “Tu
sei il re dei giudei?”».
Il testo dei versetti 37-38 dice, invece: «Per questo sono nato e per questo sono venuto nel mondo per
testimoniare la verità. Chiunque è dalla verità, ascolta la mia voce. Gli dice Pilato:
“Che cos’è la verità?” E detto questo, uscì di nuovo verso i giudei e
disse loro: “Non trovo in lui nessuna colpa”».
Papiro Bodmer II (P66) Fine II sec. d.C. |
Il Papiro 66 fa parte di una collezione costituita da una cinquantina di manoscritti in greco acquistati da
Martin Bodmer. P66, conosciuto anche come Bodmer II, è un codice papiraceo in maiuscola
(onciale biblica) comunemente datato al II secolo d.C. contenente il Vangelo di Giovanni. Misura 15,2 x 14 cm e
consta di sei fascicoli, dei quali restano 104 pagine. È conservato presso la Bibliotheca Bodmeriana a
Cologny (nei pressi di Ginevra).
La scoperta di P66 rappresentò qualcosa di assolutamente nuovo. Era il Vangelo di Giovanni in
forma di vero e proprio libro, con alcuni piccoli danneggiamenti ai margini. Il manoscritto conserva ancora
alcune delle cuciture originarie dei fascicoli con le strisce di papiro utilizzate a tale scopo.
Comprende quasi per intero Gv 1-14 e frammenti dei capitoli seguenti. P66 costituisce un
unicum per l’eccellente stato di conservazione e per l’importanza della sua tradizione
testuale. È stato il papiro che ha fornito la chiave per capire appieno i papiri Chester Beatty che sono
molto più frammentari ed il testo del Nuovo Testamento alla fine del II secolo d.C.
Papiri Bodmer XIV-XV (P75) Inizi del III secolo d.C. |
Il Papiro 75 (P75) apparteneva alla collezione Bodmer e si trovava nella Bibliotheca Bodmeriana di
Cologny (Ginevra). È stato donato alla Biblioteca Apostolica Vaticana nel 2006.
Contiene gran parte di vangeli di Luca e dei primi 15 capitoli di Giovanni. Oltre 27 fogli si sono conservato
quasi interamente, insieme ad alcuni frammenti della copertina. Lo studio di questo papiro rivoluzionò
le precedenti idee sulla storia della trasmissione testuale degli scritti neotestamentari. P75
è talmente simile al Codice Vaticano B, che è del IV secolo, da dimostrare che la teoria delle
“recensioni” (cioè di profonde rielaborazioni del testo che sarebbero avvenute nel secolo
IV), avanzata da alcuni, non aveva fondamento.
Papiro Chester Beatty 45 (P45) I metà del III sec. d.C. |
I papiri Chester Beatty (per il Nuovo Testamento sono importanti P45 e P46) prendono il
loro nome dall’americano di origine irlandese, Alfred Chester Beatty, che li acquistò nel 1930-31.
Attualmente si trovano a Dublino, nella Chester Beatty Library.
Il Papiro 45 (P45) conteneva in origine su 55 bifogli (110 fogli = 220 pagine) non solo i 4 Vangeli,
ma anche gli Atti degli Apostoli. Purtroppo è in pessimo stato di conservazione. Non rimane che Matteo
(da 20,24 a 21,19; da 25,41 a 26,33), Marco (da 4,36 a 9,31; da 11,27 a 12,28), Luca (da 6,31 a 7,7; da 9,26 a
14,33) e frammenti di Atti.
Papiro Chester Beatty (P46) Intorno al 200 d.C. |
È il più antico manoscritto delle lettere paoline che si sia conservato; è, infatti,
databile attorno al 200. Si sono salvati dall’usura del tempo 86 fogli. Il manoscritto contiene anche la
Lettera agli Ebrei (la cui canonicità si affermò più lentamente rispetto alle altre
lettere del corpus paolino). Il testo di P46 presenta delle lacune nel corso della I Lettera
ai Tessalonicesi, cosicché, a motivo delle pagine mancanti, non è possibile sapere se il papiro
contenesse in origine tutto l’epistolario paolino ed, in particolare, la II ai Tessalonicesi, la Lettera
a Filemone e le Lettere pastorali. Il papiro conferma comunque la notizia già nota dallo stesso NT della
raccolta delle lettere di Paolo in un unico testo probabilmente ancor prima dei 4 vangeli, come recita 2Pt
3,15-16: «La magnanimità del Signore nostro giudicatela come salvezza, come anche il nostro
carissimo fratello Paolo vi ha scritto, secondo la sapienza che gli è stata data; così egli fa in
tutte le lettere, in cui tratta di queste cose. In esse ci sono alcune cose difficile da comprendere e gli
ignoranti e gli instabili le travisano, al pari delle altre Scritture, per loro propria rovina». Verso la
metà del II secolo la raccolta delle 14 lettere doveva aver già raggiunto la sua compiutezza.
Alcuni fogli del papiro sono conservati nella biblioteca Ann Arbor dell’University of Michigan, mentre la
parte più consistente è nella Chester Beatty Library di Dublino.
Le due lettere di Pietro del papiro Bodmer VIII (P72) in fac-simile |
Il Papiro 72 (P72) comprendeva, nell’ordine, l’apocrifo detto Natività di
Maria, una corrispondenza apocrifa tra Paolo ed i Corinti, l’Ode XI di Salomone, la
Lettera di Giuda, un’Omelia di Melitone di Sardi sulla Pasqua, un frammento di un inno
cristiano, l’Apologia di Filea, i Salmi 33 e 34 ed infine le Lettere di
Pietro.
Il fatto che contenga la I e II Lettera di Pietro e quella di Giuda riunite insieme è interessante, dato
che la storia della formazione del canone mostra che la Lettera di Giuda fu accolta più lentamente degli
altri scritti neotestamentari come testo ispirato.
Il P72 è, per le epistole cattoliche, il testimone più antico. Il papiro non è
stato eseguito da un copista di grande scuola. Sono evidenti, infatti, la qualità non altissima della
scrittura e l’alto numero di errori. La lingua madre del copista doveva essere il copto (a p. 32 del
manoscritto è riportata a margine la parola copta per verità, πμεϊ, in
corrispondenza del termine greco). Al termine di ognuna delle due lettere petrine (come mostra l’immagine
riprodotta) il copista ha aggiunto un augurio di pace per se stesso e per il lettore
(ειρηνη τω γραψαντι
και τω
αναγινωσκοντι).
P72 è stato pubblicato per la prima volta nel 1959. Le due lettere di Pietro appartenenti a
P72 sono ora conservate nella Biblioteca Apostolica Vaticana, perché donate da Martin Bodmer
alla Santa Sede.
Il confronto fra i manoscritti ebraici e le antiche versioni, in particolare quella greca, mostra che il testo
della Bibbia si è conservato sostanzialmente integro ed, al contempo, evidenzia i luoghi nei quali, al
momento delle traduzioni, il testo non era ancora interamente stabilito, come, ad esempio, per i libri di Ester
o del Siracide.
I diversi manoscritti ebraici permettono altresì di verificare le differenti varianti dovute agli errori
dei copisti; proprio per valutare tali varianti e giungere ad un testo criticamente ricostruito, è
necessario conoscere la storia della trasmissione del testo e valersi delle antichissime versioni in greco. In
particolare la scoperta dei documenti di Qumran arricchisce enormemente la possibilità di comprendere
quale fosse lo stato del testo al I secolo d.C. confermando quello che già si sapeva dai LXX e
cioè che il testo ebraico era, per la stragrande maggioranza dei libri, sostanzialmente fissato.
Lo stadio precedente alla versione greca, ai manoscritti qumranici ed, in particolare, alla definitiva
fissazione del testo consonantico operata dai rabbini del I secolo d.C., viene chiamato di libera
trascrizione.
A questo stadio seguì, alla fine del I secolo d.C., uno stadio di unificazione del testo che dovette
avvenire anche in reazione all’utilizzo che del testo veterotestamentario facevano i cristiani. La
decisione che portò a questa definitiva fissazione viene collocata sul finire del I secolo d.C. quando,
a motivo delle conseguenze della I guerra giudaica, gruppi di rabbini dovettero abbandonare Gerusalemme e
dimorare in varie città, fra le quali viene più volte ricordata quella di Yavné (alcuni
vorrebbero che lì sia esistito ancora, dopo l’anno 70, per un certo periodo di tempo il gran
sinedrio). La Mishnà, nel trattato Iadaim III,5,26-30, fa riferimento alle discussioni sulla
canonicità del Cantico dei Cantici e del Qoèlet, che portarono alla definitiva accettazione di
questi libri, accogliendo la posizione di rabbi ‘Aqivà (ca. 50 d.C. - ca. 135 d.C.).
Gli scribi scelsero gli esemplari da loro ritenuti migliori, fecero eventualmente dei confronti e ne ricavarono
un testo definitivo, che si sforzarono di ricopiare con la massima fedeltà. Tutti gli altri esemplari
non conformi al testo così fissato andarono perduti (fanno ovviamente eccezione i manoscritti di
Qumran).
Il testo biblico venne successivamente suddiviso in versetti e si formò tutta una complessa tradizione
(in ebraico massorah) che portò alla fissazione della vocalizzazione del testo consonantico ed
alla redazione di una serie di indicazioni (la massorah magna, la massorah parva e la massorah
finalis) a commento del testo stesso. I masoreti (coloro che composero la massorah) furono
così gli inventori, tra il VI e il X secolo d.C., dei segni per indicare le vocali e gli accenti del
testo. Questi segni furono posti sopra o sotto le consonanti, per lasciare intatta appunto la loro grafia
consonantica.
Sorse così il testo masoretico (abbreviato generalmente con la sigla TM) che è riprodotto
oggi nelle diverse edizioni moderne della Bibbia ebraica.
Sono detti soferim (letteralmente contatori) i rabbini e gli scribi che, dal I al VI secolo, si
dedicarono a contare il numero di parole e di versetti del testo biblico per vigilare sulla fedeltà dei
manoscritti che venivano copiati di generazione in generazione.
Essi hanno iniziato, ad esempio, la tradizione di scrivere a fianco di Lev 8,8 l’espressione “la
metà della Torah secondo i versetti”, per indicare il versetto che cade esattamente al
centro del Pentateuco.
Sono inoltre a loro attribuite le osservazioni conservate dal testo masoretico su alcune espressioni bibliche
di difficile interpretazione, al fine di proporne una lettura conforme alla ortodossia ebraica. I commenti
testuali dei soferim tendevano insomma a spiegare, o almeno a segnalare, parole o espressioni che
creavano difficoltà. Dove hanno proposto alternative o integrazioni testuali, hanno,però, sempre
lasciato intatto il testo consonantico.
In concreto, almeno sei indicazioni più importanti, fra le molte che si ritrovano nel successivo testo
masoretico, vengono fatte risalire a loro:
Queste tecniche, usate dagli scribi, mostrano un atteggiamento di grande rispetto del testo consonantico che, anche dove non è compreso, non viene alterato.
Nel corso dei secoli si affermò nel giudaismo il sistema di vocalizzazione masoretica detto
tiberiense. Il nome deriva dalla “scuola” di Tiberiade, la città sull’omonimo
lago nella quale venne sviluppato.
Non fu, però, l’unico sistema di vocalizzazione esistente. Infatti, i maestri della Torah che
risiedevano a Babilonia elaborarono, a loro volta, un sistema che è detto babilonese ed è
noto altresì un terzo tipo di vocalizzazione detto palestinese, perché sviluppato nelle
località della Giudea e della costa. La vocalizzazione palestinese è testimoniata in alcuni degli
scritti rinvenuti nella gheniza (il magazzino adibito alla conservazione dei manoscritti sacri non
più in uso) della sinagoga del Cairo, costruito nell’882 d.C.
La scoperta recente di questi manoscritti, copiati tra il VI ed il IX secolo d.C., ha portato, fra
l’altro, alla scoperta dell’originale ebraico del libro del Siracide, anche se mutilo, che
precedentemente si riteneva perduto.
I testimoni più antichi della vocalizzazione tiberiense sono, invece, il Codice dei Profeti del
Cairo e il Codice di Aleppo.
Il Codice dei profeti del Cairo è stato trascritto nell’895-896 d.C.
È attribuito agli scribi della famiglia ben Asher, considerata dai rabbini medioevali come detentrice
della migliore tradizione nella trasmissione del testo vocalizzato della Bibbia. In particolare, il Codice
del Cairo è stato trascritto, come afferma il suo colophon, da Moses ben Asher, padre
dell’ancor più famoso Aaron ben Asher che è lo scrittore del cosiddetto Codice di
Aleppo; l’attendibilità del colophon - tradotto significa compimento ed è
l’indicazione del luogo, della data e dell’autore del manoscritto posta generalmente al termine di
esso - è discussa dagli studiosi.
Il Codice del Cairo contiene i “profeti anteriori” (quelli che la Bibbia cristiana chiama
“libri storici”) ed i “profeti posteriori” (quelli che sono noti nella Bibbia cristiana
con la semplice designazione di “libri profetici”), da Giosuè a Zaccaria.
Il Codice di Aleppo è ritenuto il miglior manoscritto esistente della Bibbia ebraica, pur essendo
incompleto a motivo della sua travagliata storia. Venne copiato da Shlomo ben Buya’a nel suo testo
consonantico e vocalizzato da Aaron ben Asher, figlio di Moses ben Asher, come afferma esplicitamente il suo
colophon, che è stato redatto circa un secolo dopo la scrittura del manoscritto, quando il Codice
venne affidato alla comunità caraita di Gerusalemme.
Poiché è noto un manoscritto del Pentateuco copiato da Shlomo ben Buya’a nel 929
(attualmente custodito a San Pietroburgo), la datazione del Codice di Aleppo viene unanimemente fissata dagli
studiosi agli anni 925-930 d.C.
Nei secoli il manoscritto giunse infine alla comunità ebraica di Aleppo che lo ha gelosamente custodito,
rifiutando anche che esso venisse riprodotto fotograficamente, fino al secondo dopo-guerra. Il 2 dicembre 1947,
durante un tumulto anti-ebraico, la sinagoga di Aleppo venne assalita e data alle fiamme. Si pensò, in
un primo momento, che il manoscritto fosse andato perduto, perché alcuni degli ebrei fuggiti affermarono
di averlo visto in terra, al momento della fuga.
Il Codice era stato, invece, parzialmente messo al sicuro e giunse di nascosto nel 1958 in Israele dalla Siria,
attraverso la Turchia, nascosto in una tela all’interno di una vecchia lavatrice, per essere consegnato
simbolicamente al presidente di Israele, che lo ricevette a nome dello Stato, e, successivamente,
all’Israel Museum.
Il Codice mancava delle prime sette pagine con il commentario masoretico (diqduq ha-massorah), delle
centodiciotto pagine comprendenti la Torah fino a Dt 28,17, di tre pagine dei Re (2 Re 14,21-18,13), di
tre pagine di Geremia (29,9-31,34), di tre pagine dei Dodici profeti (da Am 8,13 a Mic 5,1, con la perdita dei
libri di Abdia e Giona), di quattro pagine al termine dei Dodici profeti (dalla fine di Sofonia fino a Zac 9,17
con la perdita di Aggeo), di due pagine dei Salmi (Sal 15,1-25,1), di trentasei pagine dei Ketuvim (da
Ct 3,11 fino alla fine degli Scritti, con la perdita di Qoèlet, Lamentazioni, Ester, Daniele, Esdra,
Nehemia e Cronache), della pagina contenente il colophon e delle venti pagine finali con annotazioni
masoretiche.
Il manoscritto, però, non presentava tracce di bruciature. Alcune pagine sono successivamente ricomparse
ad opera di discendenti di ebrei di Aleppo che, probabilmente, nella precipitosa fuga, le avevano strappate al
fine di conservarle o, forse, poiché le ritenevano talismani capaci di salvaguardare coloro che le
avessero portate con sé. In particolare è giunta nel 1982 in Israele la pagina contenente 2 Cr
35,7-36,19 e, nel 1988, sono state pubblicate in copia fotografica negli Stati Uniti otto righe di una pagina
del capitolo ottavo dell’Esodo, noto come frammento Sabbagh perché in possesso di Sam Sabbagh,
anch’egli fuggito da Aleppo. Anche questo frammento è stato poi ceduto all’Israel Museum.
Esistono inoltre copie fotografiche, scattate un centinaio di anni fa, della pagina che contiene Gen 27 e del
testo dei Dieci comandamenti nella versione del Dt.
Il Codice di Aleppo è considerato il manoscritto più fedele della scuola della famiglia ben
Asher, la stessa a cui appartiene il Codice dei Profeti del Cairo. È il manoscritto utilizzato
per l’edizione critica The Hebrew University Bible (la pubblicazione è iniziata con Isaia
1-44).
Codice di Leningrado B 19a o Codice L Inizi del XI secolo d.C. |
Il Codice di Leningrado, noto anche con le abbreviazioni di Codice B 19a o Codice L,
risale al 1008-1009 d.C., come appare dal colophon del copista al termine del libro. Samuel ben Jacob vi
dichiara di aver copiato in quell’anno il manoscritto da un esemplare scritto da Aaron ben Asher,
l’autore della massorah del Codice di Aleppo.
È il più antico manoscritto della Bibbia ebraica conservatosi integralmente ed è stato
utilizzato nell’edizione critica del TM a partire dalla Biblia Hebraica (3ª edizione)
del Kittel (1937) e successivamente nella Biblia Hebraica Stuttgartensia (1966 ed edizioni successive).
Pur non essendo scritto direttamente da un membro della famiglia ben Asher, rappresenta, però,
l’esemplare meglio conservato di quella tradizione testuale.
È attualmente conservato a San Pietroburgo in Russia, presso la Biblioteca Nazionale Russa
(Saltykov-Schedrin) nella quale è custodito dalla metà dell’ottocento. Deve il suo nome al
fatto che, al momento della pubblicazione, la città di San Pietroburgo era stata ribattezzata dal regime
comunista con il nome di Leningrado.
Il Codice di Leningrado (Codice 19 A), in fac-simile, il più antico manoscritto completo della Bibbia ebraica (1008/1009 d.C.) |
Il testo contenuto nella pagina sopra riprodotta è Es 15,14b-16,3. Poiché la pagina contiene il
Canto del Mare, l’inno degli Israeliti dopo l’attraversamento del Mar Rosso, le note
masoretiche alla sommità della pagina sono disposte in modo da formare delle onde.
Con il nome di Vulgata si designa la versione latina della Bibbia che divenne di uso comune
(vulgata appunto) a partire dal VII secolo d.C.
Essa deriva da un complesso lavoro che vide certamente l’apporto decisivo di san Girolamo, ma che
iniziò ben prima di lui e proseguì dopo la sua morte.
Se non già dalla fine del I secolo d.C., almeno dal II secolo iniziò localmente la traduzione
della Bibbia in latino, per le esigenze delle comunità cristiane dell’Italia, dell’Africa,
della Gallia e della Spagna. Queste versioni non seguirono un progetto unitario ma, come nel caso dei LXX,
sembrano piuttosto rispondere all’esigenza comune di un testo comprensibile ai cristiani di lingua
latina. Con l’espressione Vetus latina si designa oggi questa prima traduzione latina; essa
è detta anche itala. È incerto se si avviò una prima recensione unitaria di essa a
Roma o altrove.
Quando nel 382 Girolamo giunse a Roma, papa Damaso gli affidò il compito di una revisione di questa
prima traduzione. Girolamo raccolse allora i diversi manoscritti greci e latini disponibili e, su di essi,
portò a termine una nuova edizione dei quattro vangeli e del salterio (quest’ultimo basato sulla
traduzione dei LXX) in latino.
Tornato in oriente, Girolamo venne a contatto con gli Hexapla di Origene (opera che affiancava in sei
colonne il testo ebraico non vocalizzato, l’ebraico traslitterato in greco e le versioni greche di
Aquila, Simmaco, dei LXX e di Teodozione), rendendosi conto che, per l’Antico Testamento, non era
sufficiente il ricorso ad alcune precisazioni del testo greco, ma che si doveva fare riferimento allo stesso
testo ebraico.
Tra il 390 ed il 404 Girolamo, allora, dopo aver studiato l’ebraico con il maestro Bar Anina, si
dedicò ad una nuova traduzione dell’Antico Testamento secondo l’hebraica veritas,
come egli amava chiamarla. Girolamo non arrivò mai a possedere completamente l’ebraico, ma la sua
versione superò di gran lunga la qualità della Vetus latina, poiché egli
poté servirsi del materiale esegetico allestito da Origene. Una volta assunta la decisione di attenersi
al testo ebraico, Girolamo ritenne non canonici i libri presenti solamente nei LXX e, nel cosiddetto
Prologus galeatus (il prologo con l’elmo) premesso alla sua traduzione dei libri di Samuele
e dei Re, i primi che egli tradusse direttamente dall’ebraico, affermò la sua convinzione che
Sapienza, Siracide, i Maccabei, Giuditta e Tobia non fossero da considerare ispirati.
Non è possibile, allo stato attuale degli studi, sciogliere il nodo se Girolamo stesso abbia curato la
revisione degli altri libri neotestamentari e quando e da chi siano stati inseriti nella Vulgata i libri
non considerati canonici da Girolamo. Certo è che già nel Codice Amiatino, che è
dei primi anni dell’VIII secolo, la Vulgata appare completa anche dei deuterocanonici.
Una questione a parte è quella della traduzione del Salterio: Girolamo lo tradusse due volte, a Roma
secondo i LXX ed a Betlemme secondo il testo ebraico. Prima di Alcuino, i manoscritti superstiti della
Vulgata contengono il salterio tradotto secondo l’hebraica veritas, ma a partire dalla
riforma carolingia si impose il salterio cosiddetto gallicano, cioè la traduzione geronimiana dei
Salmi secondo la versione che era in uso presso le chiese della Gallia. Per questo la Vulgata che si
è poi affermata conserva il salterio secondo i LXX. L’edizione critica moderna della
Vulgata ha scelto di presentare, l’uno a fianco dell’altro, i due Salteri. La scelta se il
testo da utilizzare per la traduzione sia l’ebraico o il greco è in alcuni punti questione
così complessa che anche alcune opere moderne, come il Salterio della comunità di Bose,
preferiscono riportare, ad esempio per il Salmo 110 (109), entrambe le versioni.
La Vulgata si impose in occidente solo a partire dal VII secolo, ma, da quel momento, esercitò un
enorme influsso linguistico e teologico. Fu il primo libro ad essere stampato da Gutenberg a Magonza; egli
presentò la prima Bibbia a stampa nel 1454, anche se non è certo se, a quella data,
l’edizione a stampa comprendesse già tutti i libri biblici.
Il Canone (dal greco kanon, regola) dei libri ispirati fu definito nella chiesa cattolica
solamente l’8 aprile 1546, nel corso del Concilio di Trento. Dinanzi alla riforma protestante che aveva
optato per il Canone ebraico veterotestamentario, non accogliendo i libri deuterocanonici presenti nei
LXX e nella Vulgata, i padri conciliari si richiamarono alla tradizione liturgica (la lex
orandi che è considerata nella chiesa lex credendi) ed alla Vulgata, affermando che la
chiesa accoglie come ispirati tutti i libri «interi, con tutte le loro parti, come si è soliti
leggerli nella Chiesa cattolica e si trovano nell’antica Vulgata latina».
Non si dichiarava così ispirato il testo della Vulgata, ma, molto più essenzialmente, si
affermava che, poiché nei secoli quel testo era stato il punto di riferimento nella fede e nella
liturgia, ciò comportava che tutta la Chiesa avesse con ciò implicitamente confermato che tutti i
libri contenuti in essa erano ispirati dallo Spirito Santo.
Venivano così definitivamente inclusi non solo i libri deuterocanonici, ma anche quelle pericopi che non
figuravano in tutti i manoscritti antichi, come, ad esempio, la finale del vangelo di Marco o il brano
dell’adultera perdonata in Giovanni, ma che erano stati accolti dalla Vulgata ed, in questo modo,
proclamati nella liturgia nel corso dei secoli.
Il Concilio di Trento domandò di approntare un’edizione emendatissima della Vulgata,
opera che fu iniziata durante il pontificato di Sisto V e si concluse durante quello di Clemente VIII nel 1592
ed è perciò nota con il nome di Vulgata Sisto-clementina. Il testo della Vulgata
così riveduto è alla base delle successive versioni cattoliche nelle lingue moderne.
Particolarmente importante, in Italia, è quella di Antonio Martini, che tradusse la Bibbia dal 1769 al
1781, ricevendo il plauso dell’Accademia della Crusca; la sua versione ebbe grande fortuna e si
affermò, di fatto, in Italia, fino al XX secolo.
Il progresso degli studi biblici su base critica e filologica, accentuatosi nei secoli XIX e XX, fece sentire
la necessità di una revisione della Vulgata Sisto-clementina. Si giunse così, nel 1979,
all’editio typica prior e, nel 1986, all’editio typica altera della Nova
Vulgata, nota più semplicemente come Neovulgata.
Nel 1943 Pio XII, con l’enciclica Divino Afflante Spiritu, dichiarò la preferenza della
Chiesa cattolica per una traduzione che attingesse direttamente ai testi originali, facendo passare in secondo
piano il testo della Vulgata. L’utilizzo delle lingue volgari nella liturgia poi, autorizzato da
Paolo VI a seguito del Concilio Vaticano II, tolse praticamente alla Vulgata il prestigio di testo
ufficiale della Chiesa cattolica.
Il suo valore risiede tuttora nell’essere uno dei grandi testimoni della Tradizione, la trasmissione
della fede cattolica. La Vulgata, oltre ad essere il punto di riferimento per il Canone cattolico,
testimonia infatti, a più riprese, già con la sua stessa lettera il sensus plenior delle
Scritture, rivelatosi in Cristo e manifestato appieno dallo Spirito Santo nella fede della Chiesa. È
esemplare, ad esempio, la traduzione di Gen 3,15. Il Testo Masoretico suona: «Essa [la progenie di
lei] ti schiaccerà il capo». I LXX affermano, invece: «Lui [il Messia]
insidierà il tuo capo». La Vulgata, traducendo al femminile - ipsa conteret –
legge, invece: «Lei [Eva vista come prefigurazione di Maria] ti schiaccerà il capo».
Cappella Baglioni (detta anche Cappella Bella), Collegiata di S. Maria Maggiore, Spello, terminata nel
1501, commissionata da Troilo Baglioni, allora priore di S. Maria Maggiore
Nella parete sinistra, Maria con il suo assenso permette che si compia il disegno del Padre, annunziato dai
profeti che la Vergine ha appena cessato di leggere, accogliendo nel suo grembo il Verbo.
Al centro, l’Adorazione dei pastori e dei magi che venerano l’Incarnazione.
A destra, Gesù dodicenne al Tempio si manifesta come la vera “sapienza” divina; a terra
tutti i libri, ormai superati. Maria trattiene Giuseppe, perché il Figlio deve occuparsi delle cose del
Padre suo.
La III sezione presenta in maniera esemplificativa alcune questioni sollevate intorno al valore della Bibbia
nel dialogo fra le religioni.
Vengono mostrati, innanzitutto, i due peculiari modi di leggere la Bibbia, propri dell’ebraismo e del
cristianesimo, a partire dalla stessa disposizione che i libri ricevono all’interno della Sacra
Scrittura. Viene poi presentato il rifiuto islamico della Scrittura poiché esso, pur radicato nella
storia biblica, prescinde totalmente dalla Bibbia stessa. Si accenna, infine, alle letture fondamentaliste
della Scrittura, che rifiutano, oltre alla tradizione ebraica e cristiana, anche i moderni metodi esegetici.
Con il termine Tanak si indica in ebraico la Bibbia. Il termine è l’acronimo di
Torah, Neviim, Ketuvim, le tre parti nelle quali è divisa la Bibbia secondo la
tradizione ebraica.
La prima parte, la Torah, comprende i primi cinque libri biblici (il Pentateuco è
l’equivalente in greco della Torah). La sua posizione iniziale indica la sua priorità e la
sua importanza. Nella liturgia sinagogale la Torah viene letta continuativamente, in maniera da
terminarne l’intera lettura in un anno.
Anche la finale della Torah, come evidenziano gli studi di J. L. Ska, indica la consapevolezza di questa
rilevanza:
«Non è più sorto in Israele un profeta come Mosè – lui con il quale il
Signore parlava faccia a faccia – per tutti i segni e prodigi che il Signore lo aveva mandato a compiere
[…] e per la mano potente e il terrore grande con cui Mosè aveva operato davanti agli occhi di
tutto Israele» (Dt 34,10-12).
Alla Torah seguono immediatamente i Neviim, i Profeti. Ad essi appartengono, nella Bibbia
ebraica, anche i libri che la Bibbia greca (e poi cristiana) chiama “libri storici”: essi sono,
infatti, raggruppati con il nome di “profeti anteriori”. In effetti, al loro interno, la presenza
profetica è rilevante, basti pensare alla storia di Elia, colui che rappresenta nel NT tutta la profezia
veterotestamentaria nell’episodio della Trasfigurazione.
La posizione dei libri profetici nella Bibbia ebraica, immediatamente a ridosso dei primi cinque libri,
suggerisce che il loro compito specifico è quello di commentare la Torah, di indirizzare a
comprenderla in profondità.
I versetti finali dell’ultimo dei libri profetici, il profeta Malachia (sia nella disposizione
della Bibbia ebraica che di quella cristiana), così recitano, rinviando al passato ed, insieme,
schiudendo il futuro:
«Tenete a mente la legge del mio servo Mosè, al quale ordinai sull’Oreb, statuti e norme
per tutto Israele. Ecco, io invierò il profeta Elia prima che giunga il giorno grande e terribile del
Signore, perché converta il cuore dei padri verso i figli e il cuore dei figli verso i padri;
così che io venendo non colpisca il paese con lo sterminio» (Mal 3,22-24).
Più lontani dal cuore del Tanak, rappresentato dalla Torah, stanno, nella Bibbia ebraica,
i Ketuvim, gli Scritti. Anche essi terminano (e con essi la Bibbia ebraica), facendo riferimento
al passato ma insieme preannunciando il disegno futuro che Dio realizzerà:
«Dice Ciro, re di Persia: Il Signore, Dio dei cieli, mi ha consegnato tutti i regni della terra. Egli
mi ha comandato di costruirgli un tempio in Gerusalemme, che è in Giuda. Chiunque di voi appartiene al
suo popolo, il suo Dio sia con lui e parta!» (2 Cr 36,23).
Il riferimento al Tempio implica la memoria di quello salomonico, ma anche il protendersi verso il futuro,
nell’attesa ricostruzione del secondo e nuovo Tempio.
La chiesa conserva alla lettera il testo dell’Antico Testamento. Il Nuovo Testamento lo cita in
continuazione, pur se nella versione dei LXX. Fin dalle origini del cristianesimo il rifiuto dei libri
dell’antica alleanza è stato condannato come eretico. Marcione, che nel II secolo d.C. non accolse
gli scritti veterotestamentari ritenendoli opera di un diverso dio dal Dio di Gesù Cristo, fu espulso
dalla chiesa a motivo della sua dottrina.
La Bibbia cristiana fa, però, seguire all’Antico Testamento il Nuovo. In Cristo avviene la
pienezza della rivelazione: come le Scritture veterotestamentarie sono testimoni della storia della salvezza
precedente la venuta di Cristo ed, insieme, suo preannuncio, così quelle neotestamentarie attestano
questa definitiva rivelazione.
BIBBIA EBRAICA
|
BIBBIA CRISTIANA
|
TANAK
|
ANTICO TESTAMENTO
|
NUOVO TESTAMENTO
|
È la venuta del Cristo a manifestare il significato più profondo delle Scritture dell’AT;
questo senso cristologico evidenziato dagli scrittori neotestamentari riceverà successivamente il nome
di sensus plenior.
La disposizione dei libri veterotestamentari nella Bibbia cristiana ne indica la loro peculiare lettura. I
Neviim vengono suddivisi in due gruppi, il primo dei quali è detto dei Libri storici, il
secondo, invece, dei Profeti. Quest’ultimo è posto dopo i Sapienziali - che
corrispondono ai Ketuvim della Bibbia ebraica - in maniera da precedere immediatamente il Nuovo
Testamento.
In questo modo i Profeti sono visti come prefigurazione e annuncio della nuova alleanza e sono posti al
termine dell’Antico Testamento, in modo da sottolinearne maggiormente il ruolo di ponte verso la venuta
del Cristo e meno quello di commento della Torah.
DISPOSIZIONE DEL
TANAK |
DISPOSIZIONE DELL’ANTICO
TESTAMENTO CRISTIANO |
TORAH
|
PENTATEUCO
|
NEVIIM (ANTERIORI E POSTERIORI)
|
LIBRI STORICI
|
KETUVIM
|
SAPIENZIALI
|
PROFETI
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L’interpretazione cristiana della Bibbia sbilancia così l’AT verso il NT e tutti gli eventi
veterotestamentari vengono riletti in relazione alla nuova alleanza.
La chiusa del Pentateuco, ad esempio, che narra della morte di Mosè a cui è interdetto
l’ingresso nella terra promessa, viene riletta nel NT non come punizione, bensì come segno ed
invito ad attendere l’ingresso in una nuova terra, la “patria celeste”, inaugurata dalla
venuta del Cristo. La Lettera agli Ebrei afferma così che Mosè non è entrato in
Israele, poiché la promessa di Dio guardava oltre. Egli diviene segno dell’attesa di una nuova
terra preparata da Dio:
«Nella fede morirono tutti costoro, pur non avendo conseguito i beni promessi, ma avendoli solo veduti
e salutati di lontano, dichiarando di essere stranieri e pellegrini sopra la terra. Chi dice così,
infatti, dimostra di essere alla ricerca di una patria... Per questo Dio non disdegna di chiamarsi loro Dio: ha
preparato infatti per loro una città» (Eb 11,13-16).
Un confronto dell’Islam con il testo biblico, nonostante quattordici secoli di rapporti fra cristiani e
musulmani, è paradossalmente ancora da iniziare.
Se, da un lato, infatti, il Corano afferma di essere erede della storia biblica, dall’altro dichiara il
suo rifiuto della Bibbia in quanto tale.
Maometto viene collocato certamente, dal Corano, come l’ultimo e supremo profeta di una storia che si
richiama alle figure dell’Antico e del Nuovo Testamento, come afferma R. Tottoli: «Una parte
consistente del Corano è dedicato a narrazioni sui personaggi dell’Antico e del Nuovo Testamento.
Se escludiamo qualche allusione alla storia araba preislamica, si può anzi affermare che tutti gli
accenni al passato che contiene il Corano siano le storie dei profeti biblici». In questo modo, dunque,
il Corano rivendica a sé la storia biblica e quasi tutti i profeti dell’Islam sono già
personaggi biblici.
Tuttavia, l’Islam non dichiara alcun interesse al testo biblico, non chiede di approfondirne lo studio,
se non per intenti di confronto esterno, poiché la Bibbia è, invece, rifiutata come menzognera.
L’anteriorità della Bibbia, la cui redazione precede cronologicamente di secoli il Corano, non
è ritenuta motivo sufficiente per rivolgersi ad essa per la conoscenza delle vicende di Abramo,
Mosè, Gesù o degli altri profeti. La vera storia di questi è integralmente rivelata nel
Corano e nessun aiuto possono dare l’AT od il NT.
La tradizione coranica afferma, infatti, che il testo biblico è la corruzione della vera rivelazione che
i profeti biblici hanno ricevuto da Allah:
«O genti del Libro, perché avviluppate nel falso il vero e nascondete il vero quando
sapete?» (Sura III,71, )
e ancora:
«Ve ne sono fra loro che rotolano le loro lingue con il Libro per farvi credere che si trova nel
Libro, mentre non è nel Libro; e dicono: “Viene da Dio”, mentre non viene da Dio. E dicono
menzogna contro Dio, mentre sanno» (Sura III,78)
e ancora:
«Coloro che nascondono quanto Dio ha rivelato del Libro e lo vendono a vile prezzo, si riempiono il
ventre di fuoco [si avvicinano all’inferno]. Dio non rivolgerà loro la parola il giorno della
resurrezione e non li purificherà. Ad essi un castigo doloroso» (Sura II,174).
Mentre la lettura cristiana dell’Antico Testamento, pur affermandone un sensus plenior rivelato in
Cristo, conserva e difende il valore letterale delle Scritture ebraiche, il Corano ne prescinde totalmente,
così come prescinde dal Nuovo Testamento.
Una volta affermata la non affidabilità del testo biblico, non viene ulteriormente posta alcuna
ulteriore questione sul valore della Bibbia. Le Scritture ebraico-cristiane sono semplicemente ignorate.
La questione dell’importanza della Bibbia resta così ancora da scandagliare nel dialogo
inter-religioso tra Islam e cristianesimo. Verrebbe da domandare, infatti, se non vi sia niente da aggiungere
all’affermazione che il testo biblico non ha niente da insegnare sulle figure profetiche accolte nel
Corano. Il che equivale a domandare se sia sufficiente rifarsi al solo Corano per conoscere le storie dei
personaggi dell’AT e del NT.
I personaggi biblici ricevono tutti, nel Corano, il nome di profeti.
Questo l’elenco dei “profeti” noti anche alla Bibbia di cui si parla più estesamente
nelle Sure coraniche: Adamo, Noè, Abramo, Lot, Giuseppe, Mosè, Davide, Salomone,
Gesù con sua madre Maria. Sono nominati però anche Ismaele, Isacco, Giacobbe, Aronne, Eliseo,
Giona, Elia, Giobbe, Zaccaria e Giovanni Battista. A questi nomi gli esegeti musulmani affiancano quelli di
Ezechiele, Geremia e Samuele ai quali alluderebbero alcuni versetti. La parte preponderante è
perciò costituita da personaggi dell’Antico Testamento.
Tutti gli altri personaggi biblici con le loro storie sono ignoti al Corano e, di conseguenza, non sono
venerati. Ricevono attenzione solo la ventina di profeti sopra menzionati.
In ordine ad un dialogo con l’Islam in merito, è possibile, per comodità, suddividere le
storie che riguardano i personaggi biblici in quattro gruppi, tenendo presente che non esiste alcuna citazione
biblica esplicita:
-alcuni episodi biblici sono conservati nel Corano non alla lettera, ma in una coincidenza approssimativa di
storia e di significato. Ad esempio, Abramo è definito “l’amico di Dio”, nella
Sura IV,125: è lo stesso titolo che il patriarca riceve in 2 Cr 20,7, Is 41,8 e Gc 2,23. Abramo
è anche nel Corano il padre di Ismaele ed Isacco.
-in alcuni racconti il Corano si allontana dai testi biblici in aspetti talvolta molto significativi,
affermando, ad esempio, la non ebraicità di Abramo. La Sura III,67 afferma: «Abramo non era
né un ebreo, né un cristiano: era nella sincerità e nella Sottomissione». Abramo era
cioè, secondo il Corano, semplicemente un hanif, termine con cui si intende un adepto della
religione monoteista. Si possono sottolineare anche le varianti importanti nell’episodio del
sacrificio del figlio, dove fra l’altro si omette il nome del giovane, che la tradizione islamica
identifica poi con Ismaele e non con Isacco (Sura 37,101-108): «E gli demmo la lieta notizia di
un giovane mite. E quando raggiunse l’età di andare con suo padre al lavoro, questi gli disse:
“Figlio mio, una visione in sogno mi dice che debbo immolarti al Signore: che cosa credi tu che io debba
fare?”. Rispose: “Padre mio, fai quel che ti è ordinato: tu mi troverai, a Dio piacendo,
paziente”. Ora, quando si furono rassegnati al volere di Dio e Abramo ebbe disteso il figlio con la
fronte a terra, allora gli gridammo: “Abramo! Tu ti sei conformato al sogno: Noi certo ricompensiamo
quelli che compiono il bene”. E questa fu prova decisiva e chiara. E riscattammo suo figlio con
sacrificio grande e lo benedicemmo tra i posteri».
-altri episodi sono sconosciuti alla Bibbia, come le storie coraniche relative alla venerazione della Pietra
nera (la futura Ka’ba della Mecca) da parte di Adamo e successivamente di Abramo, come afferma la
Sura 2,127-128: «E quando Abramo ed Ismaele ebbero levato le fondamenta della Casa, invocarono:
“Accettala da noi, o Signore, tu che tutto ascolti e conosci! O Signore nostro! Fa’ di noi due dei
musulmani e della nostra discendenza una comunità musulmana; mostraci i Tuoi santi riti e volgiti
benigno verso di noi, o Tu clemente, che sempre perdoni!». Si può ulteriormente ricordare la
lotta di Abramo contro il padre Azar politeista (nella Bibbia il nome del padre di Abramo è, invece,
Terach e non vi è alcuna questione religiosa fra i due; Abramo viene presentato nel testo di Genesi come
colui che intercede per i peccatori).
-in un quarto gruppo possono essere raccolti tutti gli episodi biblici – e sono la maggioranza –
completamente ignorati dal Corano.
Nelle affermazioni coraniche su Gesù è evidente la stessa impostazione che si è già
vista in relazione ai diversi personaggi biblici che il Corano chiama profeti.
La presentazione della vita del Cristo, nelle Sure, prescinde totalmente dai vangeli e dall’intero Nuovo
Testamento. Mai è citato esplicitamente un solo versetto evangelico ed il riferimento agli apostoli, che
non vengono mai chiamati per nome, è sbrigativo; si afferma solo che Gesù chiese degli aiutanti
per la sua missione e questi risposero di credere in lui.
Gesù, per il Corano, è una creatura come ogni uomo (Sura III,59: «E in
verità, presso Dio, Gesù è come Adamo: egli lo creò dalla terra, gli disse:
“Sii!” ed egli fu”»), ma pure è chiara l’affermazione della concezione
verginale di Maria. Gesù è così, da un lato, in nulla diverso dagli altri inviati e
profeti che lo precedettero, ma d’altro canto ha un posto di grande rilievo, come mostra il miracolo del
suo concepimento.
Nel Corano, Gesù annuncia il futuro arrivo di un inviato di nome Ahmad, che è un altro
nome per Maometto, come afferma la Sura 61,6: «O figli di Israele! Io sono certo profeta di Dio
mandato a voi per confermare la Torah che fu prima di me; per annunciarvi un profeta che verrà dopo di
me e il cui nome sarà il Gloriosissimo [Ahmad]. Ma quando questi giunge loro con prove evidenti, ecco
che dicono: “È una magia evidente”». È qui evidente, ma non esplicitato, il
riferimento all’affermazione giovannea dell’invio del Paraclito: lo Spirito promesso diventa, nel
Corano, l’ultimo profeta, Muhammad.
È rifiutata esplicitamente la realtà della crocifissione di Gesù:
«Per aver detto: “Abbiamo ucciso il Cristo, Gesù figlio di Maria, Messaggero di
Dio”, mentre né lo uccisero né crocifissero, bensì qualcuno fu reso ai loro occhi
simile a lui» (Sura IV,157).
Il giusto Gesù non può soffrire, e Dio non permette che egli abbracci la sofferenza della croce.
L’esegesi coranica, riflettendo sulla non chiara affermazione della Sura sopra citata «qualcuno
fu reso simile a lui», individua ora in Giuda, ora in Pietro, ora in un altro personaggio ancora,
colui che salì effettivamente sulla croce. È esclusa, comunque, la morte in croce di Gesù.
Il fatto evidenzia come i vangeli non siano ritenuti fonte di conoscenza sulla vita di Gesù. Anche qui
il Corano non offre argomentazioni sulla sua differenza dal testo biblico, ma semplicemente ne prescinde.
Nella letteratura islamica un rilievo particolare è dato ai detti attribuiti al profeta Muhammad,
chiamati hadith. Queste parole che egli avrebbe pronunciato in vita appaiono inferiori solamente al
Corano e vengono utilizzate per la chiarificazione di passi oscuri o per la soluzione di questioni non
affrontate direttamente dal Corano
Gli hadith sono stati trasmessi, secondo l’esegesi islamica, da catene di garanti che dapprima li
udirono direttamente da Muhammad, li trasmisero poi oralmente finché furono messi per iscritto.
La più illustre raccolta canonica degli hadith è il Sahih di al-Bukhari, composto
nel IX secolo d.C. Al-Bukhari, di origine iranica, nato intorno all’810 d.C., peregrinò 16 anni
per raccogliere questi detti attribuiti al Profeta. Anche il Sahih di Muslim (morto nell’875) gode
di grande autorità. Seguono poi le raccolte di Abu Dawwud, (morto nell’889), di Ibn Maga (morto
nell’896), di al-Nasa’i (morto nel 915) e di al-Tirmidhi (morto nell’892); sono da ricordare,
infine, quelle di Ahmad ibn Hanbal (morto nell’855) e di Malik ibn Anas (morto nel 795).
Le tradizioni sulle vicende bibliche narrate negli hadith sono ritenute veritiere dall’esegesi
islamica tradizionale. Ad esempio, nella raccolta di al-Bukhari è narrata la vicenda del viaggio alla
Mecca di Abramo, Agar ed Ismaele, con le loro peripezie e la narrazione dell’origine dei rituali meccani,
come la corsa che si svolge sette volte fra Safa e Marwa e la venerazione della fonte miracolosa di Zamzam.
Alcune tradizioni conservate dagli hadith si riferiscono al ritorno di Gesù come Messia
(al-masih) alla fine dei tempi. Se già il Corano parla del ritorno di Gesù al momento del
giudizio (Sura 43,61: «Ed egli non è che un presagio dell’Ora») gli
hadith precisano ulteriormente:
«Giuro su Dio che Gesù discenderà dal cielo e sarà giudice equo,
distruggerà la croce, ucciderà i maiali, toglierà la tassa ai non musulmani,
lascerà andare le cammelle più giovani, ma nessuno se ne interesserà; spariranno invece
l’odio, la gelosia e l’invidia e quando egli chiamerà la gente a prendere ricchezze, nessuno
lo farà».
Un altro hadith afferma:
«Sarà in quel momento che Dio manderà il messia Gesù, che discenderà dal
cielo presso il minareto bianco nella parte orientale di Damasco, tra due vesti tinte di color zafferano e con
le mani appoggiate sulle ali di due angeli. Quando abbasserà la testa, cadranno gocce di sudore dalla
sua testa e quando la solleverà si spargeranno invece gocce come perle. Tutti gli infedeli che
annuseranno l’odore del suo respiro moriranno e il suo respiro giungerà fin dove è in grado
di vedere. Si metterà allora a cercare l’Anticristo finché lo raggiungerà presso la
porta di Lod e lo ucciderà. Solo un popolo che Dio ha protetto da lui verrà da Gesù figlio
di Maria ed egli ripulirà i loro volti e racconterà loro del loro rango in paradiso. Sarà
allora che Dio rivelerà a Gesù: “Io ho preso tra i miei servi un popolo che nessuno
sarà in grado di combattere; porta in salvo questi miei servi al monte”… Gesù e i
suoi compagni supplicheranno Dio che manderà contro di loro degli insetti che si attaccheranno al collo.
Alla mattina seguente moriranno insieme, come una persona sola. Poi il profeta di Dio Gesù ed i suoi
compagni scenderanno sulla terra, ma non troveranno sulla terra neppure lo spazio di una spanna che sia privo
della loro putrefazione e del loro fetore… Sarà allora che Dio manderà un vento piacevole
che soffierà persino sotto le loro ascelle e prenderà la vita di ogni musulmano; solo i malvagi
resteranno e si salteranno addosso come asini, e poi verrà l’ora del Giudizio».
Il primo e l’ultimo libro della Bibbia, la Genesi e l’Apocalisse, sono i libri fatti più
frequentemente oggetto di letture fondamentaliste.
In gruppi minoritari e sette che si ispirano alla Bibbia, al di fuori della grande tradizione ecclesiale, si
incontrano spesso posizioni che difendono alla lettera la cosmologia di Genesi 1. Le letture
fondamentaliste affermano che il mondo è stato effettivamente creato in sette giorni e che lo sviluppo
dell’opera creativa di Dio ha seguito esattamente il corso descritto dal racconto biblico.
Tali letture ignorano completamente i moderni metodi storico-critici che individuano invece le diverse
tradizioni confluite nella redazione del testo finale; è evidente, ad esempio, che in Genesi 1
l’uomo è creato come ultima opera, nel sesto giorno, mentre in Genesi 2 l’uomo è
creato prima delle piante, chiaro segno indicatore che l’autore sacro non intendeva ricostruire
scientificamente l’evento della creazione, ma utilizzava simboli diversi a seconda del messaggio che
voleva esprimere.
Le letture fondamentaliste trascurano altresì la necessità di definire il genere letterario di
ogni brano della Bibbia; è noto che i primi capitoli di Genesi sono dei testi sapienziali, che
descrivono la verità tramite immagini di forte spessore poetico e teologico. Ad esempio, Genesi 1,
culminando con il riferimento al sabato, vuole esaltare il valore non solo dell’opera creatrice di Dio,
ma ancor più del suo riposo, della sua libertà di amare e godere dell’opera sua nel settimo
giorno. Il testo vuole così indicare che anche l’uomo, creato ad immagine di Dio, vivrà la
pienezza della sua libertà non solo attraverso l’opera creativa del proprio lavoro, ma anche e
soprattutto nella festa e nella liturgia, poiché solo in esse è dato di attingere il senso ultimo
dell’esistenza. Genesi 1 – affermano i moderni studi storici – è, infatti, un racconto
di origine sacerdotale (indicato con la lettera P, dal tedesco Priestercodex), che non si propone
di descrivere l’origine fisica delle singole realtà esistenti, bensì vuole invitare ad una
lettura “liturgica” unitaria dell’opera creatrice di Dio, esaltando il significato del
settimo giorno, come fine dell’universo, come giorno in cui, nel riposo e nella preghiera, salirà
a Dio la lode per la sua creazione.
Analoghi errori di prospettiva sono frequentemente compiuti dalle letture fondamentaliste quando esse rifiutano
il significato simbolico del testo. Di questo tenore è, ad esempio, l’interpretazione fornita dai
Testimoni di Geova del capitolo settimo dell’Apocalisse, nel quale si tratta dei 144.000segnati con il
sigillo.
Gli studi scientifici recenti confermano la lettura proposta dalla tradizione della Chiesa che ha sempre visto
nei 144.000 dell’Apocalisse un numero che simbolizza la Chiesa (è, infatti, la cifra
risultante dal numero delle tribù di Israele, moltiplicato per il numero degli apostoli, moltiplicato
per 1000, cioè arricchito da tutti coloro che nella storia sono segnati dal nome cristiano:
12x12x1000=144.000) e nella grande folla che appare subito dopo la schiera dei martiri («coloro
che sono passati attraverso la grande tribolazione», Ap 7,14).
La lettura dei Testimoni di Geova, ignara degli studi esegetici sul simbolismo numerico dell’Apocalisse,
vede invece nei due gruppi dei 144.000 e della grande folla, l’annunzio di due distinti
tipi di salvezza. Solo a 144.000 - né uno di meno, né uno di più - sarebbe riservato il
cielo, mentre la grande folla dovrebbe accontentarsi di abitare la terra paradisiaca nella quale,
però, la luce di Dio sarà preclusa. Un testo profondamente unitario viene così
piegato ad una interpretazione che presenta due classi differenti di salvati, con l’esistenza di due
condizioni eterne profondamente diverse.
Il documento della Pontificia Commissione Biblica, intitolato L'interpretazione della Bibbia nella
Chiesa e pubblicato nel 1993, afferma che nessuno dei moderni metodi di interpretazione della Bibbia
è da rifiutare. In particolare si sottolinea, in esso, la necessità del metodo storico-critico e
vengono evidenziate le ricchezze ed i limiti degli altri metodi ed approcci. Solo l’esegesi
fondamentalista è rifiutata in toto.
Il documento afferma infatti:
«La lettura fondamentalista parte dal principio che la Bibbia, essendo Parola di Dio ispirata ed
esente da errore, dev’essere letta e interpretata letteralmente in tutti i suoi dettagli. Ma per
“interpretazione letterale” essa intende un’interpretazione primaria, letteralista, che
esclude cioè ogni sforzo di comprensione della Bibbia, che tenga conto della sua crescita nel corso
della storia e del suo sviluppo. Si oppone perciò all’utilizzazione del metodo storico-critico per
l’interpretazione della Scrittura, così come ad ogni altro metodo scientifico. Il problema di base
di questa lettura fondamentalista è che, rifiutando di tener conto del carattere storico della
rivelazione biblica, si rende incapace di accettare pienamente la verità della stessa Incarnazione. Il
fondamentalismo evita la stretta relazione del divino e dell’umano nei rapporti con Dio. Rifiuta di
ammettere che la Parola di Dio ispirata è stata espressa in linguaggio umano ed è stata redatta,
sotto l’ispirazione divina, da autori umani le cui capacità e risorse erano limitate. Per questa
ragione, tende a trattare il testo biblico come se fosse stato dettato parola per parola dallo Spirito e non
arriva a riconoscere che la Parola di Dio è stata formulata in un linguaggio e una fraseologia
condizionati da una data epoca».
Le letture fondamentaliste hanno una falsa idea dell’inerranza biblica:
«Il fondamentalismo insiste in modo indebito sull’inerranza dei dettagli nei testi biblici,
specialmente in materia di fatti storici o di pretese verità scientifiche. Spesso storicizza ciò
che non aveva alcuna pretesa di storicità, poiché considera come storico tutto ciò che
è riferito o raccontato con verbi al passato, senza la necessaria attenzione alla possibilità di
un significato simbolico o figurativo. Il fondamentalismo porta inoltre a una grande ristrettezza di vedute:
ritiene infatti come conforme alla realtà, perché la si trova espressa nella Bibbia, una
cosmologia antica superata, il che impedisce il dialogo con una concezione più aperta dei rapporti tra
cultura e fede».
Ne risulta sfigurata anche la lettura degli eventi del tempo presente:
«Il fondamentalismo si basa su una lettura non critica di alcuni testi della Bibbia per confermare
idee politiche e atteggiamenti sociali segnati da pregiudizi, per esempio razzisti, del tutto contrari al
vangelo cristiano. Infine, nel suo attaccamento al principio del “sola Scriptura”, il
fondamentalismo separa l’interpretazione della Bibbia dalla Tradizione guidata dallo
Spirito».
Le letture fondamentaliste, rifiutando la grande tradizione della Chiesa, approdano, in realtà, ad un
rifiuto del pensiero e della riflessione:
«Manca loro la consapevolezza che il Nuovo Testamento si è formato all’interno della
Chiesa cristiana e che è Sacra Scrittura di questa Chiesa, la cui esistenza ha preceduto la composizione
dei suoi testi. Per questa ragione, il fondamentalismo è spesso antiecclesiale, ritenendo come
trascurabili i credo, i dogmi e le pratiche liturgiche che sono diventate parte della tradizione ecclesiastica,
così come la funzione di insegnamento della Chiesa stessa. Si presentacome una forma di interpretazione
privata, la quale non riconosce che la Chiesa è fondata sulla Bibbia e attinge la sua vita e la sua
ispirazione nelle Scritture. L’approccio fondamentalista è pericoloso, perché attira le
persone che cercano risposte bibliche ai loro problemi di vita. Tale approccio può illuderle offrendo
interpretazioni pie ma illusorie, invece di dire loro che la Bibbia non contiene necessariamente una risposta
immediata a ciascuno di questi problemi. Il fondamentalismo invita, senza dirlo, a una forma di suicidio del
pensiero. Mette nella vita una falsa certezza, poiché confonde inconsciamente i limiti umani del
messaggio biblico con la sostanza divina dello stesso messaggio».
Talvolta le letture fondamentaliste, per difendere i propri punti di vista, giungono paradossalmente ad
abbandonare la lettera del testo biblico originario, quando essa non collima con l’ideologia del gruppo
che ne propone la lettura.
Ad esempio nella Traduzione del nuovo mondo dei Testimoni di Geova, nel racconto evangelico
dell’ultima cena il verbo essere, presente nel greco, viene sostituito con il verbo
significare, assente nel testo, in accordo con le tesi contrarie all’eucarestia proprie del
gruppo. Così recita tale traduzione (in tondo sono state evidenziati i due luoghi nei quali si abbandona
la traduzione letterale):
«Gesù, preso un pane, rese grazie, lo spezzò, e lo diede loro, dicendo:
“Questo significa il mio corpo che dev’essere dato in vostro favore. Continuate a far questo
in ricordo di me. E il calice nella stessa maniera, dopo che ebbero preso il pasto serale, dicendo: Questo
calice significa il nuovo patto in virtù del mio sangue, che dev’essere versato in vostro
favore» (Lc 22,19-20).
Un secondo esempio di questa tendenza ad accomodare la traduzione della Bibbia a sostegno delle proprie tesi
è dato dall’inno cristologico della Lettera ai Colossesi. La versione ufficiale dei
Testimoni di Geova inserisce per ben cinque volte l’espressione altre, inesistente nel greco
originale
«Dio ci ha liberato dall’autorità delle tenebre e ci ha trasferiti nel regno del Figlio
del suo amore, mediante il quale abbiamo la nostra liberazione per riscatto, il perdono dei nostri peccati.
Egli è l’immagine dell’invisibile Iddio, il primogenito di tutta la creazione; perché
per mezzo di lui tutte le [altre] cose furono create nei cieli e sulla terra, le cose visibili e le cose
invisibili, siano essi troni o signorie o governi o autorità. Tutte le [altre] cose sono state
create per mezzo di lui e per lui. Ed egli è prima di tutte le [altre] cose e per mezzo di lui
tutte le [altre] cose furono fatte esistere, ed egli è il capo del corpo, la congregazione. Egli
è il principio, il primogenito dai morti, affinché divenga colui che è primo in tutte le
cose; poiché [Dio] ritenne bene di far dimorare in lui tutta la pienezza, e per mezzo di lui
riconciliare di nuovo con sé tutte le [altre] cose facendo la pace mediante il sangue [che egli
sparse] sul palo di tortura, siano esse le cose sulla terra o le cose nei cieli» (Col 1,13-20).
La traduzione vuole dare ad intendere che anche il Cristo sia da porre fra le realtà create: il Figlio
non sarebbe coeterno con il Padre, ma creato successivamente, come tutte le altre cose. Non ci si
accontenta così di sostenere una tesi teologica, ma si pretenda che essa sia sostenuta direttamente
dalla Lettera ai Colossesi, modificandone il testo.
Il nome di Dio ricorre più di 6800 nell’Antico Testamento ed è composto da quattro
consonanti: Yod, He, Waw, He [= YHWH]. Solitamente viene indicato come “il Tetragramma”,
cioè “le Quattro Lettere”.
La vocalizzazione del Tetragramma è stata volutamente alterata dai masoreti, a motivo del fatto che
l’esegesi rabbinica iniziò a ritenere, ad un certo momento della sua storia, che la pronunzia del
Tetragramma comportasse una violazione del comandamento di Es 20,7: «Non pronuncerai invano il nome di
Dio».
Ogni volta che nella Bibbia si incontra il Tetragramma, si legge così al suo posto ‘Adonay
(in ebraico il Signore) . Per aiutare il lettore a pronunciare ‘Adonay, i masoreti
vocalizzarono le quattro consonanti del Tetragramma (YHWH) con le vocali di ‘Adonay, e questa
strana somma di consonanti di un nome proprio e di vocali di un nome comune diedero il risultato di
«YeHoWaH», da cui lo strambo vocabolo “Geova”, mai esistito in ebraico.
Rabbi Ya‘aqov ben Aha (circa 300 d.C.) dice, a questo proposito: «Il nome viene scritto con (le
consonanti) Yod-He (= YHwh), ma viene letto con (le consonanti) Alef-Dalet (=
‘ADonay)». E Rabbi Nahman ben Yishaq (morto intorno al 356 d.C.) dice similmente:
«Questo mondo non è come il mondo futuro: in questo mondo (il nome di Dio) viene scritto con
Yod-He e letto con Alef-Dalet; ma nel mondo futuro è molto diverso: viene letto con Yod-He così
come viene scritto». E Rabbi Alina (morto intorno al 420 d.C.) scrive: «Il Santo – che Egli
sia lodato! – parlò: Io vengo scritto con Yod-He e vengo letto con Alef-Dalet».
Ma non sono solo le testimonianze dei rabbini a provare questa alterazione vocalica del nome. Lo stesso testo
biblico nei cinque casi nei quali al tetragramma segue immediatamente il nome divino ‘Adonay (Ab
3,19; Sal 68,21; Sal 109,21; 140,8; 141,8), sceglie invece, per il Tetragramma, le vocali di
‘Elohim, perché il lettore legga questa volta ‘Elohim ‘Adonay e non
‘Adonay ‘Adonay per evitare la ripetizione dello stesso nome divino.
Alcune letture fondamentaliste della Bibbia leggono, invece, oggi non ‘Adonay, ma Geova,
come se quest’ultimo fosse il vero nome divino. Questa lettura è tipica presso i Testimoni di
Geova.
La sezione, a partire dal Vangelo copto di Giuda, presenta gli scritti apocrifi neotestamentari. Vengono
presentati, in particolare, i tratti caratteristici dei vangeli di origine gnostica. Già il termine
apocrifo, nascosto, con cui molti di essi si autodesignano, manifesta la loro datazione tardiva.
La finzione letteraria del nascondimento è utilizzata dagli stessi autori degli apocrifi per
accreditarne una datazione più antica: attribuendoli ad un messaggio rivelato segretamente da
Gesù e segretamente trasmesso da qualcuno degli apostoli si cerca di farli apparire contemporanei degli
scritti neotestamentari che sono, invece, precedenti di almeno cinquant’anni.
Anche l’impostazione teologica tradisce la loro cronologia tardiva. L’insistenza sulla
divinità di Cristo e sulla pluripersonalità del mondo divino evidenzia come gli scrittori
gnostici siano stati conquistati dalla cristologia giovannea del Logos. Di essa rifiutano, però,
la dimensione umana, manifestando un ripetuto disprezzo per la corporeità: solo apparente è
quella di Gesù – e quella della Maddalena – mentre, più in generale, tutto ciò
che è materiale è, per ciò stesso, opposto al divino ed è, conseguentemente, da
rigettare.
Numerosi sono gli apocrifi che si richiamano al Nuovo Testamento, dal II al VII secolo d.C.
Essi vengono classificati, secondo il loro genere letterario, con la stessa terminologia dei testi canonici:
vangeli, atti di apostoli, epistole, apocalissi.
Considerandone, invece, il contenuto dal punto di vista della dottrina proposta, gli apocrifi vengono suddivisi
dagli studiosi in due gruppi fondamentali, quello che raggruppa gli scritti elaborati da comunità che
vogliono distanziarsi dalla fede espressa nel Nuovo Testamento e quello che comprende i diversi scritti che
vogliono riempire il vuoto di conoscenze lasciato dai testi canonici sull’infanzia di Gesù e prima
ancora di Maria, sui primi trent’anni di vita del Cristo e sulle vicende degli apostoli non narrate dal
Nuovo Testamento.
Gli scritti del primo gruppo hanno sovente una intonazione esoterica (dal greco esoterikos,
intimo, destinato a pochi). Tali testi hanno avuto origine in gruppi di ispirazione gnostica o
manichea che, volendo avvalorare un’origine antica della loro dottrina, hanno percorso la strada di
vantare una filiazione segreta dal Cristo stesso, nascosta ai non iniziati, tramite qualcuno degli
apostoli.
La Chiesa li contestò subito, non appena furono scritti, a partire dal II secolo, dichiarandone la
chiara lontananza dagli scritti precedenti già noti e dalla fede del I secolo. Alcuni di questi testi
possono essere anche relativamente antichi ma, comunque, mai precedenti il 130 d.C. Essi sono perciò
successivi dei primi scritti neotestamentari di almeno ottant’anni e seguono di ben cinquant’anni i
vangeli canonici.
Gli scritti del secondo gruppo sono, invece, testi composti da cristiani rimasti all’interno della
chiesa, ma con una elaborazione fantasiosa tesa a soddisfare la curiosità popolare. Sono anch’essi
testi di secondaria importanza per comprendere la vicenda storica del Cristo, utili invece per conoscere
aspetti popolari del cristianesimo del II secolo e dei secoli successivi. Di alcuni di essi era consigliata la
lettura privata, ma mai l’uso liturgico.
«Simon Pietro disse loro: “Maria se ne vada da noi, perché le donne non meritano la
vita!” Gesù rispose: “Ecco, io la trarrò così da renderla uomo. Così
anche lei diverrà spirito vivente, simile a voi uomini. Ogni donna che si fa uomo entrerà nel
regno dei cieli”».
(dal Vangelo di Tommaso 114)
Il materiale dei vangeli apocrifi gnostici ha tre fonti distinte:
a) Detti e fatti che ritroviamo in forma simile nei vangeli canonici, spesso riordinati per favorirne una
interpretazione gnostica. Gli studiosi concordano nell’attestare una dipendenza degli scritti gnostici da
quelli neotestamentari e, quindi, una posteriorità cronologica.
b) Detti e fatti costruiti ex novo, spesso di dottrina gnostica, come, ad esempio, l’ultimo
versetto del Vangelo di Tommaso sopra riportato.
c) In minima parte detti che potrebbero risalire a raccolte di loghia (detti) di Gesù di
cui si sarebbero serviti anche i quattro vangeli canonici, reinterpretati comunque a partire dalle dottrine
gnostiche del II secolo d.C. L’esistenza di questi loghia è attestata nei cosiddetti
Agrapha (non scritti) cioè parole di Gesù che ritroviamo in altri scritti
neotestamentari (come il famoso C’è più gioia nel dare che nel ricevere, attestato
negli Atti degli Apostoli) o nei Padri della Chiesa.
Nonostante l’arbitrio degli elementi gnostici o leggendari, questi scritti apocrifi furono a volte
veicolo parziale della trasmissione del messaggio cristiano in luoghi nei quali non esistevano altri testi a
disposizione.
«Ed i genitori di Maria tornarono a casa, meravigliati e lodando il Signore Dio perché la bimba non s’era voltata [per paura nel salire al tempio]. Ora Maria dimorava nel tempio del Signore, considerata come colomba. Il cibo lo riceveva dalla mano di un angelo».
(dal Vangelo di Giacomo)
«Ora io, Giuseppe, camminavo e non camminavo. Guardai l’aere e lo vidi colpito da stupore. Guardai la volta del cielo e la vidi immobile; gli uccelli del cielo, fermi. Abbassai lo sguardo al suolo e scorsi per terra un vaso: operai sedevano intorno con le mani nel vaso. Chi masticava non masticava più; chi prendeva qualcosa non sollevava più; chi portava alla bocca non portava più: i volti di tutti guardavano in alto. Ed ecco pecore spinte avanti; non andavano innanzi, ma stavano ferme. Il pastore sollevò la mano per percuoterle con il bastone; la mano restò in alto. Guardai giù alla corrente del fiume e vidi le bocche dei capretti poste sopra, ma non bevevano. Quindi tutto, in un istante, riprendeva il suo corso».
(dal Vangelo di Giacomo)
Il desiderio popolare di una ulteriore conoscenza della vita di Cristo, di Maria e degli apostoli che
completasse i vuoti degli scritti neotestamentari, offrì la motivazione per un complesso di opere
apocrife, sviluppatesi ai margini della canonicità, ma preziose testimonianze del cristianesimo
primitivo popolare.
Sono opere cariche di interesse pietistico e di fantasia. Talvolta nell’intento di servire la Chiesa,
ampliarono ed integrarono con aneddoti e leggende le poche notizie di tradizione sicura dei racconti canonici,
avvertiti come insufficienti per la curiosità popolare specie in relazione all’infanzia di
Gesù, ai tre giorni di Gesù nel sepolcro, alla vita ed all’assunzione della Vergine.
Il più antico fra essi è il cosiddetto Vangelo di Giacomo, la più antica leggenda
mariana. Il testo consiste nel racconto semplice ed insieme affascinante della vita di Maria. Vengono poste in
risalto, con una serie di tratti leggendari, la verginità fisica della Madonna, la discendenza davidica
e la santità interiore di Maria fin dalla più tenera età, per mostrarne la sua assoluta
eccellenza su ogni donna mai vissuta sulla terra.
Gli originali di queste opere furono tradotti nelle varie lingue della Chiesa antica e i racconti apocrifi di
carattere popolare, proprio per il loro intento di edificazione e di avvalorazione della divinità di
Cristo e della verginità di Maria, si imposero quasi dovunque, esercitando, nel tempo, un influsso
notevole nella devozione privata e liturgica, nella letteratura e in ogni forma d’arte. Anche gli altri
dogmi mariani vi sono spesso contenuti sotto forma di narrazione infantile e leggendaria.
Il ritrovamento del Vangelo di Giuda ha aggiunto un ulteriore tassello alla conoscenza scientifica dello
gnosticismo del II secolo d.C., già noto dall’antichità, ma, conosciuto attraverso
manoscritti completi a partire dalla scoperta nel 1945 della cosiddetta biblioteca di Nag Hammadi ad opera di
due fratelli di al-Qasr, l’antica Chenoboskion; essi portarono casualmente alla luce una giara che aveva
conservato nei secoli tredici codici rilegati in pelle che contenevano 52 trattati gnostici o
gnosticizzanti.
L’importanza del ritrovamento consiste nel fatto che sullo gnosticismo, un misto di religione e di
speculazione filosofica che caratterizzò soprattutto il II secolo d.C., fino ad allora si avevano
conoscenze solo indirette e polemiche attraverso gli scrittori cristiani della Grande Chiesa, mentre ora si
poteva ascoltare la viva voce degli gnostici.
Di quei trattati, che divennero immediatamente oggetto di accurato studio, si debbono ricordare almeno il
Vangelo di verità, il Vangelo di Tommaso, il Vangelo di Filippo e il Vangelo
degli Egiziani.
Ad essi si aggiunge ora il Vangelo di Giuda che è stato reso di pubblico dominio il 9 aprile del
2006.
Il codice che contiene il Vangelo di Giuda non proviene da un regolare scavo archeologico ma dal mercato
antiquario clandestino, con tutte le incertezze che ne conseguono circa la provenienza e la data di
rinvenimento. Sembra che sia stato ritrovato nel 1978 e, dagli schemi linguistici del testo che sono quelli
della lingua copto sahidica, si può ricavare che esso è originario del Medio Egitto. Anche il
luogo del ritrovamento sembra da collocarsi nel Medio Egitto: la candidatura più forte è quella
di Beni Masar, 16 km a nord di El Minya.
Il Codice venne in possesso di Hanna, un commerciante antiquario di Eliopoli, sobborgo del Cairo; mentre erano
in corso le trattative per la vendita, il codice venne trafugato in Europa. Ricomparso a Ginevra e ritornato in
possesso di Hanna, fu da lui messo al sicuro nel caveau di una banca, alla periferia di New York, dopo
che egli ebbe rifiutato l’offerta di 50.000 dollari.
Il 3 aprile dell’anno 2000 l’antiquaria Frieda Nussberger Tchacos acquistò il codice, avendo
tra l’altro la ventura di dare ad esso il nome: anche nella pubblicazione del 2006 il codice viene
chiamato «codice Tchacos». Lo stesso anno la Tchacos vendette il codice all’antiquario
statunitense Bruce Ferrini che lo congelò danneggiandolo gravemente, proprio mentre pensava di sottrarlo
al deperimento. Il Ferrini poi, perché insolvente, fu costretto a restituire il reperto. Pare non lo
abbia restituito integralmente, poiché pagine separate di esso sono successivamente comparse sul
mercato.
Le peripezie del codice Tchacos finirono il 19 febbraio 2001 quando esso entrò in possesso della
Maecenas Foundation for Ancient Art da poco costituitasi a Basilea. Le ulteriori tappe della storia del
codice, per fortuna finalmente positive, furono il (difficile) distacco di ogni singola pagina, il restauro e
la messa al sicuro di ogni pagina sotto vetro, la riproduzione fotografica, la decifrazione del testo, la
traduzione in inglese e, infine, la pubblicazione.
Questa è la ricostruzione storica che si ricava dal volume di presentazione della National Geographic
Society, ma articoli di giornali statunitensi, siti Internet, rapporti di polizia, lasciano
intravedere interessi privati e illegalità a non finire in tutta la vicenda. Basti pensare che la
Maecenas Foundation fu fondata ad hoc da Mario Jean Roberty, che egli è il legale della
signora Tchacos, che egli è l’unico agente della Foundation, che al codice è stato
dato il nome della Signora, che la National Geographic non ha acquistato dalla Foundation il
codice ma solo il suo contenuto perché il codice, provenendo dal mercato clandestino, non può
essere legalmente venduto, che il Vangelo di Giuda è stato lanciato nel commercio mondiale
«con una copertura mediatica senza precedenti, con tanto di diretta in mondo-visione sui canali del
network National Geographic» e, infine, che Herbert Krosney, autore del secondo libro edito dalla
National Geographic Society, è non a caso un produttore televisivo.
N.B. Il materiale di questa scheda storica è liberamente adattato dell’articolo Il Vangelo di
Giuda ed i vangeli canonici del prof. Giancarlo Biguzzi, apparso su Euntes docete. Commentaria
Urbaniana 2007.
Il Vangelo di Giuda non è l’unico testo che si trova nel Codice Tchacos il quale contiene invece quattro diversi trattati:
L’intero Codice viene diversamente datato dal Comitato degli editori: sarebbe stato scritto intorno al
280 secondo B. D. Ehrman e verso la prima metà del IV secolo secondo G. Wurst. Probabilmente i due
autori si rifanno all’uno o all’altro degli estremi della datazione al radiocarbonio
(l’ultimo quarto del II secolo e la prima parte del IV secolo).
Quanto al Vangelo di Giuda, a motivo dei danni subiti dal Codice nei decenni precedenti la sua
pubblicazione, è conservato per tre quarti del totale e molte lacune rendono incomprensibili ampi
stralci di testo.
La data di composizione invece viene stabilita in via ipotetica in base alla sua menzione da parte di Ireneo
che intorno al 180 d.C. scriveva: «[Gli gnostici Cainiti] dicono che Giuda aveva una conoscenza accurata
di tutto questo, che fu l’unico tra tutti i discepoli ad avere la conoscenza della verità, e che
compì perciò il mistero del tradimento (…). Essi presentano un’opera costruita in
questo senso cui danno il nome di “Vangelo di Giuda”».
Nel volume della National Geographic B. D. Ehrman scrive: «Gli studiosi discorderanno circa la
data della sua prima composizione, ma la maggior parte di esso dovrebbe risalire al 140-160».
N.B. Il materiale di questa scheda storica è liberamente adattato dell’articolo Il Vangelo di
Giuda ed i vangeli canonici del prof. Giancarlo Biguzzi, apparso su Euntes docete. Commentaria
Urbaniana 2007.
Dal Vangelo di Giuda (33 r. 1)
«Spiegazione segreta della rivelazione che Gesù rese conversando con Giuda per una
settimana, tre giorni prima di celebrare la Pasqua».
Dagli altri apocrifi
«Sono queste le parole segrete che Gesù, il vivente, ha proferito e Didimo Giuda Tommaso ha
messo in iscritto».
(dal Vangelo di Tommaso 1, titolo)
«Sono queste le parole segrete che il Salvatore ha detto a Giuda Tommaso e che io stesso, Matteo, ho messo per iscritto, Mentre passeggiavo, li udii discorrere insieme».
(dal Vangelo dell’atleta Tommaso 1, titolo)
«Io ho fatto conoscere tutte queste cose alle tue orecchie. Ma te le ho dette perché tu le metta per iscritto e le trasmetta in segreto a coloro che partecipano dello stesso Spirito, perché questo mistero è quello della generazione che non vacilla».
(dall’Apocrifo di Giovanni secondo la recensione lunga di Nag Hammadi, conclusione)
Molti scritti gnostici del II e III secolo d.C. si autodefiniscono “apocrifi”, cioè
“nascosti”. La ripetuta insistenza su termini che indicano la segretezza, il mistero,
il silenzio, il nascondimento che il Cristo stesso avrebbe voluto sulle dottrine esposte negli
“apocrifi” indica che si tratta di una forma letteraria escogitata per accreditare
l’antichità di testi più recenti degli scritti neotestamentari.
Infatti, l’insistenza sulla richiesta del Cristo di tenere nascoste le parole “rivelate”
dagli “apocrifi” manifesta la consapevolezza che quei testi si sarebbero scontrati con
l’ovvia obiezione che essi erano per nulla originari, né aderenti al Gesù reale,
bensì inventati successivamente.
Gli “apocrifi”, attraverso l’espediente del nascondimento, cercano così di dare una
motivazione plausibile al fatto che nessuno conoscesse anteriormente le dottrine in essi contenute.
«Rimasto solo, Jacques Saunière tornò a osservare la saracinesca d’acciaio. Era in
trappola; per riaprire la porta occorrevano almeno venti minuti. Prima che qualcuno facesse in tempo ad
arrivare a lui, sarebbe morto. Eppure, la paura che adesso l’attanagliava era assai superiore a quella
della morte. “Devo trasmettere il segreto”.
Alzandosi in piedi a fatica, richiamò alla mente tre fratelli assassinati. Pensò alle generazioni
venute prima di loro, alla missione affidata a tutt’e quattro.
“Un’ininterrotta catena di conoscenze”.
E all’improvviso, adesso, nonostante tutte le precauzioni e le misure di sicurezza, Jacques
Saunière era il solo legame rimasto, l’unico guardiano di uno dei più terribili segreti
mai esistiti.
Rabbrividendo, si rizzò in piedi.
“Devo trovare un modo…”
Era intrappolato all’interno della Grande Galleria ed esisteva solo una persona al mondo a cui passare
la fiaccola. Saunière guardò le pareti della sua ricchissima prigione. La collezione dei
più famosi dipinti del mondo pareva sorridergli come un gruppo di vecchi amici.
Stringendo i denti per il dolore, fece appello a tutte le sue forze e capacità. Sapeva che il compito
disperato che lo attendeva avrebbe richiesto fino all’ultimo istante di quel poco di vita che ancora gli
rimaneva».
(da Dan Brown, Il Codice da Vinci)
Solo il lettore attento si accorge che, per una ammissione dello stesso autore, nella trama narrativa
dell’opera il responsabile del mantenimento del segreto su Gesù è Saunière.
Egli, pur essendo un ricercatore del Louvre, non ha mai ritenuto opportuno scrivere un saggio su ciò che
afferma di sapere. Ed anche in punto di morte decide di consegnare il “segreto” in forma esoterica,
perché giunga all’“unica persona al mondo” capace di comprenderlo e di mantenerlo
nascosto. In maniera non coerente, il prosieguo del testo sosterrà poi che responsabile del
“segreto” è invece la Chiesa, da Costantino in poi.
Gesù rispose al sommo sacerdote: «Io ho parlato al mondo apertamente; ho sempre insegnato nella sinagoga e nel tempio, dove tutti i Giudei si riuniscono, e non ho mai detto nulla di nascosto. Perché interroghi me? Interroga quelli che hanno udito ciò che ho detto loro; ecco, essi sanno che cosa ho detto».
(dal Vangelo secondo Giovanni 18,20-21)
Dal Vangelo di Giuda (35 rr. 23-25)
«Allontanati dagli altri e io ti dirò i misteri del regno».
Dal Vangelo di Giuda 36, rr. 1-4
«Poiché un altro ti sostituirà al fine che i dodici possano giungere a completezza con il
dio loro».
Dagli altri apocrifi
«Gesù ha detto: “L’uomo è simile a pescatore intelligente, il quale ha gettato
la sua rete nel mare e l’ha tratta dal mare, piena di pesci piccoli. Il pescatore intelligente ha trovato
tra essi un grande pesce buono. Allora egli gettò in mare tutti i pesci piccoli e scelse il grande senza
difficoltà. Chi ha orecchi per intendere, intenda!”».
(dal Vangelo di Tommaso 7/8)
«Gesù disse: “Vi eleggerò uno tra mille e due tra diecimila e si leveranno come un solo individuo”».
(dal Vangelo di Tommaso 23)
«Un cieco e un veggente trovandosi ambedue nell’oscurità non differiscono tra loro. Presentandosi la luce, allora il veggente vedrà la luce, mentre il cieco rimarrà al buio».
(dal Vangelo di Filippo 56)
Secondo il Vangelo di Giuda solo Giuda comprende fino in fondo la divinità di Gesù. Il
traditore diviene simbolo di una fede che si pensa come esoterica, cioè destinata a pochi. Lo
gnosticismo del II secolo ritiene che gli uomini si dividano per natura, in gnostici (da gnosis,
conoscenza) e coloro che tali non sono. I primi possono essere definiti anche come perfetti o
pneumatici, cioè spirituali.
La distinzione non avviene a motivo della storia personale e della fede accolta, bensì è
originaria e iscritta in un destino che è eterno. Le anime che provengono dal plērōma
divino cadono in alcuni corpi, come scintille di luce imprigionate dalla carne; solo queste anime sono
destinate alla salvezza. Altri corpi di uomini non hanno ricevuto per nascita tale presenza divina e sono
destinati a perdersi.
Dal Vangelo di Giuda (52 rr. 14-21)
«Saklas disse ai suoi angeli, “Creiamo un essere umano a somiglianza e immagine”. E fecero
Adamo e sua moglie Eva. Ma ella è detta, nella nube, Zoe».
Dagli altri apocrifi
«Simon Pietro disse loro: “Maria deve andare via da noi! Perché le femmine non sono degne
della vita”. Gesù disse: “Ecco, io la guiderò in modo da farne un maschio,
affinché ella diventi uno spirito vivo uguale a voi maschi. Poiché ogni femmina che si fa maschio
entrerà nel Regno dei cieli”».
(dal Vangelo di Tommaso 114)
«Tre donne camminavano sempre con il Signore: Maria sua madre, la sorella di lei e la Maddalena, la quale è detta sua compagna. Maria, in realtà, è sorella, madre e coniuge di lui».
(dal Vangelo di Filippo 32)
«La Sofia detta sterile è la madre degli angeli; la compagna di Cristo è Maria Maddalena. Il Signore amava Maria più di tutti e la baciò più volte sulla bocca. Le altre donne, vedendo il suo amore per Maria, gli dissero: “Perché ami lei più di noi tutte?”. Il Salvatore rispose loro: “Come mai io non amo voi come lei?”».
(dal Vangelo di Filippo 55)
«Gesù disse: “Perciò ti dico che quando il talamo è vuoto, si riempirà di luce, quando invece è diviso [tra un uomo e una donna] si riempirà di oscurità».
(dal Vangelo di Tommaso 61b)
Nel Vangelo di Giuda, la figura femminile compare una sola volta. Eva è creata insieme ad Adamo
come essere di carne da Saklas (che forse significa sciocco), l’angelo servitore di Nebro, il
ribelle; ma i progenitori non sono immagine di Dio, bensì dell’Adamo e della Zoe (la
vita) della nube creati invece dall’Autogenerato, dal Figlio. Nella visione gnostica
esistono insomma il Dio creatore della parte divina dell’uomo, l’anima, ed una potenza negativa
che, con i suoi angeli, crea la realtà materiale dell’uomo.
Negli apocrifi la donna come essere di carne è sempre da rifiutare. Solo la Sofia spirituale, la
saggezza divina, è l’essere femminile da amare. Per gli gnostici Maria, la madre di Gesù,
Maria Maddalena e le altre Marie sono esseri intercambiabili, perché rappresentano la Sofia divina,
pneumatica, che Gesù bacia sulla bocca.
«Questo simbolo è l’icona originale di maschio. Un fallo rudimentale».
«Il simbolo femminile, come si può immaginare, è il suo opposto... ha la forma del ventre
femminile. Il simbolo comunica l’idea del ventre femminile, fertilità».
(da Dan Brown, Il Codice da Vinci)
Il Codice da Vinci ignora completamente l’opera di Leonardo da Vinci. Non conosce nemmeno i
disegni preparatori del maestro, fra i quali le mani di Giovanni evangelista.
La lettura che l’autore propone del Cenacolo vinciano di Santa Maria delle Grazie a Milano cerca di dare
ad intendere che Leonardo non avrebbe avuto altro da esprimere nel suo straordinario affresco che una forma
fallica ed una vulva femminile (quest’ultima proposta come chiave di volta della emancipazione della
donna!).
Come è noto, il capolavoro di Leonardo vuole rappresentare la reazione degli apostoli all’annuncio
del tradimento di Giuda: solo Giovanni, al posto di scandalizzarsi, comprende invece che il Cristo è il
vero protagonista della passione, poiché egli si offrirà, “amando sino alla fine”.
Dal Vangelo di Giuda (56 rr. 17-20)
«Ma tu [Giuda] sarai maggiore tra loro. Poiché sacrificherai l’uomo che mi
riveste».
Dagli altri apocrifi
«Dissero a Gesù i suoi discepoli: “Ventiquattro profeti parlarono in Israele e tutti
parlarono in te. Disse loro: “Voi avete lasciato chi è vivo davanti a voi e avete parlato dei
morti”».
(dal Vangelo di Tommaso 52)
«Alcuni dicono che Caino deriva dal Principato superiore e confessano che Esaù, Core e i Sodomiti
e tutti i loro simili sono loro parenti; e per questo sono stati combattuti dal creatore, ma nessuno di loro
è male accetto, perché la Sapienza strappava da loro per portarlo a sé ciò che
c’era di suo proprio. Dicono che Giuda conobbe accuratamente queste cose e proprio perché egli
solo conosceva la verità più degli altri, compì il mistero del tradimento, Per mezzo di
lui dicono che si sono dissolte tutte le cose terrestri e celesti. Presentano tale invenzione chiamandola il
Vangelo di Giuda».
(da Ireneo di Lione, Adversus haereses I, 31, 1)
L’affermazione che la materia è opera di un demiurgo, di un secondo creatore diverso
dall’unico Dio buono, porta ad una lettura in negativo dell’Antico Testamento. Il popolo ebraico ha
venerato un Dio diverso da quello annunciato da Cristo e bisogna rigettare i profeti per trovare Cristo. I
personaggi dei quali l’Antico Testamento parla negativamente sono, in realtà, le uniche figure
positive della stirpe ebraica, perché hanno lottato contro il creatore negativo testimoniato dalle
Scritture ebraiche.
Apice di questa rilettura è la nuova interpretazione proposta della figura di Giuda: egli solo, con il
tradimento, ha permesso che Gesù fosse salvato, liberando l’anima del Cristo dal corpo che la
teneva prigioniera.
Dal Vangelo di Giuda (35 rr. 14-20)
«Giuda disse a Gesù: “So chi tu sei e donde sei giunto: Tu vieni dal reame immortale di
Barbelo. E io non sono degno di pronunciare il nome di colui che ti ha inviato”».
Dagli altri apocrifi
«Gesù disse ai suoi discepoli: “Paragonatemi e ditemi a chi sono simile”. Gli disse
Simon Pietro: “Tu sei simile a un angelo giusto”. Matteo gli disse: “Tu sei simile a un
filosofo intelligente”. Tommaso gli disse. “Maestro la mia bocca non permetterà in alcun
modo che io dica a chi tu rassomigli”. Gesù disse: “Non sono io il tuo maestro, ché
tu hai bevuto e sei diventato ebbro alla sorgente zampillante che ho misurato?”. Egli lo prese, si
tirò indietro e gli disse tre parole. Quando poi Tommaso tornò ai suoi compagni, gli chiesero:
“Che cosa ti ha detto Gesù?”. Disse loro Tommaso: “Se vi dicessi una sola delle parole
che mi ha dette, prendereste sassi e li scagliereste contro di me».
(dal Vangelo di Tommaso 12-13)
«I Giudei, afferrato il Signore, correndo lo sospingevano e si dicevano: “Trasciniamo il Figlio di Dio”... alcuni lo frustavano dicendo: “Onoriamo il Figlio di Dio con questo onore”».
(dal Vangelo di Pietro 6.9)
«Cristo ha tutto in sé: l’uomo, l’angelo, il mistero e il Padre».
(dal Vangelo di Filippo 20)
Il Vangelo di Giuda, come gli altri apocrifi, insiste fortemente sulla divinità di Gesù. Egli viene da Barbelo – nome divino probabilmente derivante dall’ebraico be arba’, in quattro, allusione al Tetragramma divino. Gesù non può essere paragonato a nessun essere terrestre o celeste, tanto grande è la sua dignità divina. In ogni riferimento ad episodi noti già ai vangeli canonici, gli apocrifi accentuano a dismisura la dimensione soprannaturale dell’opera del Cristo.
Dal Vangelo di Giuda (33 rr. 18-21)
«Spesso non appariva ai suoi discepoli come se stesso, ma si trovava fra loro come un bambino».
Dagli altri apocrifi
«Egli [...] non si rivelò com’era veramente, ma si rivelò così come quelli
erano capaci di vederlo. A loro tutti si rivelò: ai grandi si rivelò grande; ai piccoli, piccolo;
agli angeli, angelo; agli uomini, uomo. Perciò il Logos sfuggì a tutti».
(dal Vangelo di Filippo 78)
«Apparve loro [ai dodici discepoli e sette donne] il Salvatore, ma non nel suo primo aspetto, bensì quale spirito invisibile. La sua figura era la figura di un grande angelo della luce».
(dalla Sofia di Gesù Cristo 2)
«Portarono due malfattori e crocifissero il Signore in mezzo a loro. Ed egli taceva come se non provasse alcuna sofferenza».
(dal Vangelo di Pietro 3)
«Gesù ha detto: “Chi riconoscerà il padre e la madre, sarà chiamato figlio di prostituta”».
(dal Vangelo di Tommaso 105)
«Gesù ha detto: “Guai alla carne che dipende dall’anima! Guai all’anima che dipende dalla carne!”».
(dal Vangelo di Tommaso 112)
È possibile ricostruire la riga 21 della pagina 33 del Vangelo di Giuda, facendo riferimento al manifestarsi di Cristo negli altri apocrifi gnostici. Egli, infatti, ha un corpo che è apparente e che può mutare di forma, divenendo come quello di un bambino. I vangeli apocrifi gnostici, infatti, ritengono che il Figlio non si sia incarnato, poiché la corporeità è negativa. La divinità di Cristo è stata sì prigioniera della carne, ma insieme non si è mai pienamente unita ad essa, essendo impossibile la comunione fra il divino e ciò che è materiale. Gli apocrifi sottolineano parimenti l’impassibilità di Cristo sulla croce, così come il disprezzo che l’anima deve portare verso il corpo, come ancora il rifiuto sdegnoso della dignità della generazione filiale.
Il filosofo H. G. Gadamer, indagando il valore di ogni testo letterario, ha chiamato “storia degli
effetti” l’azione esercitata da un testo che continua a vivere nelle sue molteplici letture
attraverso il tempo. La V sezione presenta, attraverso alcuni episodi simbolici, i molteplici eventi che
debbono alla Bibbia la loro ispirazione.
Innanzitutto, attraverso la riproduzione ad alta definizione dell’intera volta della Cappella Sistina
affrescata da Michelangelo e delle storie neotestamentarie della Maestà di Duccio di Buoninsegna, la
sezione introduce alla questione del ruolo dell’immagine nella teologia cristiana e, conseguentemente,
agli influssi che da questa sono derivate alla storia dell’arte.
La presentazione della decisione cristiana a favore dell’iconografia vuole sottolinearne certamente le
conseguenze estetiche, ma, ancor più, invitare a considerarne i presupposti teologici ed antropologici
con gli effetti storici conseguenti.
Successivamente una serie di schede tematiche si sofferma a cogliere, a mo’ di flash, alcuni effetti
storicamente conseguiti alla Bibbia ed alla rivelazione cristiana nei differenti campi del pensiero, della
società, della politica, della letteratura, della ricerca scientifica, invitando il visitatore ad un
personale approfondimento in merito.
C’è un odio di sé dell’Occidente che è strano e che si può considerare solo come qualcosa di patologico; l’Occidente tenta sì in maniera lodevole ad aprirsi pieno di comprensione a valori esterni, ma non ama più se stesso; della sua propria storia vede oramai soltanto ciò che è deprecabile e distruttivo, mentre non è più in grado di percepire ciò che è grande e puro.
(da Joseph Ratzinger, Europa. I suoi fondamenti spirituali ieri, oggi e domani)
La fede cristiana è all’origine, insieme alla civiltà greco-latina, del fiorire
dell’arte pittorica e scultorea come rappresentazione iconografica non solo della persona umana, ma anche
della rivelazione di Dio nel tempo e nello spazio.
L’intera storia biblica e, soprattutto, il suo culmine nell’Incarnazione del Cristo sono il
presupposto teologico della raffigurazione con immagini di Dio stesso. Egli, infatti, secondo il Nuovo
Testamento, non solo ha “parlato” agli uomini, ma, nella carne di Cristo, è apparso
“in forma umana”, come afferma la lettera ai Colossesi: «È in Cristo che abita
corporalmente tutta la pienezza della divinità» (Col 2,9).
A motivo di questo, la chiesa, fin dalle origini, ha utilizzato il registro iconografico, superando il divieto
veterotestamentario delle raffigurazioni. L’importanza dell’utilizzo delle immagini, come
conseguenza della realtà dell’Incarnazione, ha fatto sì che non fosse nemmeno concepibile
l’edificazione di un edificio di culto senza immagine alcuna.
Se diversi sono gli stili di una chiesa paleocristiana o romanica, rinascimentale o barocca, tuttavia sempre in
esse la raffigurazione iconografica è stato un elemento caratterizzante.
In diversi stili figurativi, gli artisti hanno lavorato nei secoli alla rappresentazione non solo di Cristo, ma
della stessa Trinità. Sempre, a fianco del Cristo, Maria sua Madre, Giovanni Battista il precursore, gli
apostoli e gli evangelisti, così come i santi ed i martiri di ogni epoca – immagine della
comunione di tutti i santi – sono stati rappresentati insieme al patrono cui la chiesa è
dedicata.
Le storie vetero e neotestamentarie hanno avuto largo sviluppo, ad iniziare da quella di Adamo ed Eva, sempre
presenti a ricordare il Dio creatore ed il peccato d’origine.
L’importanza dell’utilizzo delle immagini nella fede cristiana ha avuto solenne consacrazione al
termine della crisi iconoclasta. È discusso quali siano le origini storiche della lotta contro le
immagini che divampò nell’VIII secolo d.C. in Oriente ed in particolare a Costantinopoli, dando
inizio all’iconoclastia (“distruzione delle immagini”).
Certo è che il Concilio Niceno II (celebrato nel 787 d.C.) risolse la questione con affermazioni
dogmatiche che furono riconosciute in Occidente ed Oriente.
Così si pronuncia il Concilio:
«Uomini scellerati e trascinati dalle loro passioni hanno accusato la Santa Chiesa sposata a Cristo
Dio e, non distinguendo il sacro dal profano, hanno messo sullo stesso piano le immagini di Dio e dei suoi
santi e le statue degli idoli diabolici. […] Se qualcuno rifiuta che i racconti evangelici siano
rappresentati con disegni, sia anatema. Se qualcuno non saluta queste (immagini), (fatte) nel nome del Signore
e dei suoi santi, sia anatema. Se qualcuno rigetta ogni tradizione ecclesiastica, sia scritta che non scritta,
sia anatema».
La motivazione della rappresentabilità della storia salvifica e di Dio stesso, che ne è il
protagonista, consiste per il Concilio Niceno II nell’affermazione della realtà
dell’Incarnazione: solo chi nega la realtà del Figlio di Dio fatto carne può rifiutare le
immagini che la ripropongono agli occhi dei fedeli. In particolare, così afferma il Concilio Niceno
II:
«Se qualcuno non ammette che Cristo, nostro Dio, possa essere limitato, secondo
l’umanità, sia anatema».
Conseguentemente, secondo la dottrina del Niceno II, le immagini non solo sono permesse, ma se ne afferma
l’obbligatorietà. Il Concilio rifiuta l’accusa di latria rivolta alla venerazione
delle immagini, poiché l’adorazione è riservata solo a Dio. Tuttavia le immagini ricevono
la doulia dei fedeli, cioè la giusta venerazione come mezzi che aiutano ad adorare Dio stesso e
la sua manifestazione in Cristo:
«Seguendo in tutto e per tutto l’ispirato insegnamento dei nostri santi padri e
l’insegnamento della chiesa cattolica – riconosciamo, infatti, che lo Spirito Santo abita in essa
– noi definiamo con ogni accuratezza e diligenza che, a somiglianza della preziosa e vivificante Croce,
le venerande e sante immagini sia dipinte sia in mosaico o di qualsiasi altra materia adatta debbono essere
esposte nelle sante chiese di Dio, nelle sacre suppellettili e nelle vesti, sulle pareti e sulle tavole, nelle
case e sulle vie; siano esse l’immagine del Signore e Dio e Salvatore nostro Gesù Cristo, o quella
della immacolata Signora nostra, la Santa Madre di Dio, degli angeli degni di onore, di tutti i santi e pii
uomini. Infatti, quanto più continuamente essi vengono visti nelle immagini, tanto più quelli che
le vedono sono portati al ricordo e al desiderio di quelli che esse rappresentano e a tributare ad essi
rispetto e venerazione. Non si tratta, certo, secondo la nostra fede, di un vero culto di latria, che è
riservato solo alla natura divina, ma di un culto simile a quello che si rende all’immagine della
preziosa e vivificante croce, ai santi evangeli e agli altri oggetti sacri, onorandoli con l’offerta di
incenso e di lumi, com’era uso presso gli antichi. L’onore reso all’immagine, infatti, passa
a colui che essa rappresenta; e chi adora l’immagine, adora la sostanza di chi in essa è
riprodotto».
Al centro le Storie della Genesi, nei Tondi fra gli Ignudi Storie dei Re di Giuda e Israele, fra le vele i troni dei Profeti e delle Sibille, nelle vele gli antenati della famiglia di Gesù, nei pennacchi quattro episodi biblici che narrano la salvezza inaspettata di Israele. |
Storie della passione e della resurrezione di Cristo, sul retro della Maestà del Duomo di Siena (ora custodita nel Museo dell’Opera metropolitana del Duomo di Siena), 1308-1311. |
(da Giovanni Pico della Mirandola, Discorso sulla dignità dell’uomo)
[Dio] accolse l’uomo come opera di natura indefinita e postolo nel centro dell’universo così
gli parlò:
«Né un determinata posto, né un aspetto tuo peculiare, né alcuna prerogativa tua
propria ti diedi, o Adamo, affinché quel posto, quell’aspetto, quelle prerogative che tu stesso
avrai desiderato, secondo il tuo volere e la tua libera persuasione tu abbia e possieda. La definita natura
degli altri esseri è costretta entro leggi da me stabilite.
Tu, non costretto da nessun limitato confine, definirai la tua stessa natura secondo la tua libera
volontà, alla cui potestà ti consegnai. Ti ho collocato al centro dell’universo
affinché più comodamente, guardandoti attorno, tu veda ciò che esiste in esso.
Non ti ho fatto né celeste né terreno, né mortale né immortale, affinché tu,
quasi libero e sovrano artefice, ti plasmassi e ti scolpissi secondo la forma che preferirai. Potrai degenerare
verso gli esseri inferiori, che sono i bruti, potrai, seguendo l’impulso dell’anima tua,
rigenerarti nelle cose superiori, cioè in quelle divine».
(da Christian Bobin, Il mestiere dello scrittore)
L’amore funziona solo con la libertà.
La libertà funziona solo con l’amore.
(da Agostino d’Ippona, Commento alla prima lettera di Giovanni)
Una volta per tutte dunque ti viene imposto un breve precetto: ama e fa’ ciò che vuoi; sia che tu
taccia, taci per amore; sia che tu parli, parla per amore; sia che tu corregga, correggi per amore; sia che
perdoni, perdona per amore; sia in te la radice dell’amore, poiché da questa radice non può
procedere se non il bene.
(dalla dichiarazione Dignitatis Humanae del Concilio Vaticano II)
Questo Concilio Vaticano dichiara che la persona umana ha il diritto alla libertà religiosa. [...] A
motivo della loro dignità, tutti gli esseri umani, in quanto sono persone, dotate cioè di ragione
e di libera volontà e perciò investiti di personale responsabilità, sono dalla loro stessa
natura e per obbligo morale tenuti a cercare la verità, in primo luogo quella concernente la religione.
E sono pure tenuti ad aderire alla verità una volta conosciuta e ad ordinare tutta la loro vita secondo
le sue esigenze.
Ad un tale obbligo, però, gli esseri umani non sono in grado di soddisfare, in modo rispondente alla
loro natura, se non godono della libertà psicologica e nello stesso tempo dell’immunità
dalla coercizione esterna. Il diritto alla libertà religiosa non si fonda quindi su una disposizione
soggettiva della persona, ma sulla sua stessa natura. [...] Ognuno ha il dovere e quindi il diritto di cercare
la verità in materia religiosa, utilizzando mezzi idonei per formarsi giudizi di coscienza retti e veri
secondo prudenza.
La verità, però, va cercata in modo rispondente alla dignità della persona umana e alla
sua natura sociale: e cioè con una ricerca condotta liberamente, con l’aiuto dell'insegnamento o
dell’educazione, per mezzo dello scambio e del dialogo con cui, allo scopo di aiutarsi vicendevolmente
nella ricerca, gli uni rivelano agli altri la verità che hanno scoperta o che ritengono di avere
scoperta; inoltre, una volta conosciuta la verità, occorre aderirvi fermamente con assenso personale.
[...]
I gruppi religiosi hanno anche il diritto di non essere impediti di insegnare e di testimoniare pubblicamente
la propria fede, a voce e per scritto. [...]
Un elemento fondamentale della dottrina cattolica, contenuto nella parola di Dio e costantemente predicato dai
Padri, è che gli esseri umani sono tenuti a rispondere a Dio credendo volontariamente; nessuno, quindi,
può essere costretto ad abbracciare la fede contro la sua volontà. Infatti, l’atto di fede
è per sua stessa natura un atto volontario, giacché gli essere umani, redenti da Cristo Salvatore
e chiamati in Cristo Gesù ad essere figli adottivi, non possono aderire a Dio che ad essi si rivela, se
il Padre non li trae e se non prestano a Dio un ossequio di fede ragionevole e libero.
(dalla Lectio che papa Benedetto XVI avrebbe dovuto tenere all'Università La Sapienza di Roma il
17 gennaio 2008)
L’uomo vuole verità. In questo senso si può vedere l’interrogarsi di Socrate come
l’impulso dal quale è nata l’università occidentale. Penso ad esempio – per
menzionare soltanto un testo – alla disputa con Eutifrone, che di fronte a Socrate difende la religione
mitica e la sua devozione. A ciò Socrate contrappone la domanda: «Tu credi che fra gli dei
esistano realmente una guerra vicendevole e terribili inimicizie e combattimenti… Dobbiamo, Eutifrone,
effettivamente dire che tutto ciò è vero?» (6 b – c).
In questa domanda apparentemente poco devota – che, però, in Socrate derivava da una
religiosità più profonda e più pura, dalla ricerca del Dio veramente divino – i
cristiani dei primi secoli hanno riconosciuto se stessi e il loro cammino. Hanno accolto la loro fede non in
modo positivista, o come la via d’uscita da desideri non appagati; l’hanno compresa come il
dissolvimento della nebbia della religione mitologica per far posto alla scoperta di quel Dio che è
Ragione creatrice e al contempo Ragione-Amore.
Per questo, l’interrogarsi della ragione sul Dio più grande come anche sulla vera natura e sul
vero senso dell’essere umano era per loro non una forma problematica di mancanza di religiosità,
ma faceva parte dell’essenza del loro modo di essere religiosi. Non avevano bisogno, quindi, di
sciogliere o accantonare l’interrogarsi socratico, ma potevano, anzi, dovevano accoglierlo e riconoscere
come parte della propria identità la ricerca faticosa della ragione per raggiungere la conoscenza della
verità intera.
(da Henri de Lubac, Il mistero del soprannaturale)
[Dal fatto che, come afferma san Bonaventura, “nulla che sia inferiore a Dio può accontentare
l’uomo”], deriva, in questa creatura a parte, tale “costituzione ontologica instabile”,
che la fa nello stesso tempo più grande e più piccola di se stessa.
Da questo deriva questa specie di procedere sbilenco, questo misterioso zoppicare, che non è soltanto
del peccato, ma prima ancora e più radicalmente proprio d’una creatura fatta di nulla, che,
stranamente, confina con Dio: Deo mente consimilis. Nello stesso tempo, indissolubilmente,
“nulla” e “immagine”; radicalmente nulla, e tuttavia sostanzialmente immagine: Esse
imaginem non est homini accidens, sed potius substantiale.
Per la sua stessa creazione, l’uomo è “compagno di schiavitú” di tutta la
natura; ma allo stesso tempo, per il suo carattere d’immagine - in quantum est ad imaginem Dei -
è “capace della conoscenza beatifica”, ed ha ricevuto, nel fondo di se stesso, come diceva
Origene, “il precetto della libertà”.
(da Francesco d’Assisi, Cantico delle creature)
Altissimu, onnipotente bon Signore,
Tue so’ le laude, la gloria e l’honore et onne benedictione.
Ad Te solo, Altissimo, se konfano,
et nullu homo ène dignu te mentovare.
Laudato sie, mi’ Signore cum tucte le Tue creature,
spetialmente messer lo frate Sole,
lo qual è iorno, et allumeni noi per lui.
Et ellu è bellu e radiante cum grande splendore:
de Te, Altissimo, porta significatione.
Laudato si’, mi Signore, per sora Luna e le stelle:
in celu l’ài formate clarite et pretiose et belle.
Laudato si’, mi’ Signore, per frate Vento
et per aere et nubilo et sereno et onne tempo,
per lo quale, a le Tue creature dài sustentamento.
Laudato si’, mi’ Signore, per sor Aqua,
la quale è multo utile et humile et pretiosa et casta.
Laudato si’, mi’ Signore, per frate Focu,
per lo quale ennallumini la nocte:
ed ello è bello et iocundo et robustoso et forte.
Laudato si’, mi’ Signore, per sora nostra matre Terra,
la quale ne sustenta et governa,
et produce diversi fructi con coloriti flori et herba.
Laudato si’, mi’ Signore, per quelli che perdonano per lo Tuo amore
et sostengono infirmitate et tribulatione.
Beati quelli ke ‘l sosterranno in pace,
ka da Te, Altissimo, sirano incoronati.
Laudato si’ mi’ Signore, per sora nostra Morte corporale,
da la quale nullu homo vivente po’ skappare:
guai a quelli ke morrano ne le peccata mortali;
beati quelli ke trovarà ne le Tue sanctissime voluntati,
ka la morte secunda no ‘l farrà male.
Laudate et benedicete mi Signore et rengratiate
e serviateli cum grande humilitate.
(dalla dichiarazione di indipendenza degli Stati Uniti d'America, ratificata a Filadelfia il 4 luglio
1776)
Quando nel corso degli umani eventi si rende necessario ad un popolo sciogliere i vincoli politici che lo
avevano legato ad un altro ed assumere tra le altre potenze della terra quel posto distinto ed eguale cui ha
diritto per la Legge naturale e del Dio creatore, un giusto rispetto per le opinioni dell’umanità
richiede che esso renda note le cause che lo costringono a tale secessione. Noi riteniamo che le seguenti
verità siano di per se stesse evidenti; che tutti gli uomini sono stati creati uguali, che essi sono
dotati dal loro Creatore di alcuni Diritti inalienabili, che fra questi sono la Vita, la Libertà e la
ricerca delle Felicità; che allo scopo di garantire questi diritti, sono creati fra gli uomini i
Governi, i quali derivano i loro giusti poteri dal consenso dei governati; che ogni qual volta una qualsiasi
forma di Governo, tende a negare tali fini, è Diritto del Popolo modificarlo o distruggerlo, e creare un
nuovo governo, che ponga le sue fondamenta su tali principi e organizzi i suoi poteri nella forma che al popolo
sembri più probabile possa apportare Sicurezza e Felicità. La Prudenza, anzi, imporrà che
i Governi fondati da lungo tempo non andrebbero cambiati per motivi futili e transitori; e di conseguenza ogni
esperienza ha dimostrato che l’umanità è più disposta a soffrire, finché i
mali sono sopportabili, che a cercare giustizia abolendo le forme alle quali sono abituati. Ma quando una lunga
serie di abusi e di usurpazioni, che perseguono invariabilmente lo stesso obiettivo, evince il disegno di
ridurre il popolo a sottomettersi a un dispotismo assoluto, è il loro diritto, è il loro dovere,
rovesciare tale governo e affidare la loro sicurezza futura a dei nuovi Guardiani. Tale è stata la
paziente sopportazione di queste Colonie; e tale è oggi la necessità che le costringe ad alterare
i loro precedenti Sistemi di Governo.
(Assemblea Nazionale francese, Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino, 20-27 agosto
1789, recante in alto l’immagine di Dio sotto forma di un triangolo)
I rappresentanti del popolo francese, costituiti in Assemblea Nazionale, comprendendo che l’ignoranza,
l’oblio o la non curanza dei diritti dell’uomo sono le sole sorgenti delle pubbliche
calamità e della corruzione dei governi, decisero di esporre in una dichiarazione solenne i diritti
naturali, inalienabili e sacri dell’uomo, affinché questa dichiarazione, sempre presente a tutti i
membri del corpo sociale, ricordi ad essi continuamente i loro diritti e doveri [...]
In vista di ciò, l’Assemblea nazionale riconosce e dichiara, alla presenza e sotto gli auspici
dell’Essere supremo, i seguenti diritti dell’uomo e del cittadino [...]
(da Roberto Benigni nello spettacolo TuttoDante)
«È Gesù che ha inventato la carità, l’amore. Non c’era prima, non
c’era la carità prima di Gesù! È Cristo che l’ha destata in noi. Dinanzi ai
giochi del Colosseo, Seneca li criticava dicendo: “Mi annoiano!” Gesù ci ha fatto fare un
balzo in avanti di un milione di anni! Non c’era la carità prima!»
(dalla sceneggiatura di Film blu, di Krzysztof Kieślowski e Krzysztof Piesiewicz)
In quel momento sentiamo una musica. È la parte di concerto che aveva scritto Patrick. Julie ci guida
con il dito fino al punto in cui appaiono le prime parole del coro. Le parole sono cantate in greco e
dicono:
Coro (off): Quand’io parlassi le lingue degli uomini e degli angeli,
se non ho amore,
divento un rame risonante
o uno squillante cembalo...
Nella musica fa il suo ingresso il motivo che Julie ha chiamato “memento”. Il ritmo è
più lento e la musica, un canto gioioso sull’amore che – così sicuramente pensava
Patrick – può essere la salvezza per l’Europa e per il mondo, diventa grave, annuncia
qualcosa di oscuro, di minaccioso.
(da Krzysztof Kieślowski e Krzysztof Piesiewicz a colloquio con Marina Fabbri su Tre colori. Film
blu, Film bianco, Film rosso)
Krzysztof Kieślowski: Io non parlerei tanto di “mancanza”, quanto di nostalgia
dell’amore. Il nostro tema non è tanto l’“assenza” dell’amore, quanto la
sua ricerca ed è stato scelto semplicemente perché fa parte della nostra vita naturalmente, tocca
ognuno di noi.
Krzysztof Piesiewicz: Di recente ho rivisto al cinema Film blu e sono rimasto colpito
perché, ancora al momento del montaggio, avevo l’impressione che l’inno all’amore
della Lettera ai Corinzi di San Paolo, usato nel film, finisse per avere un’insistenza forte, che fosse
esagerato, patetico. Mentre oggi, nel gennaio del 1994, mi sembra quasi che sia fin troppo poco, di fronte a
ciò che succede intorno. Mi sembra che quel canto, quel grido o richiamo alla necessità della
fratellanza tra gli uomini, alla necessità dell’amore, oggi sia del tutto adeguato a quel che sta
succedendo intorno a noi. E succedono cose assolutamente orribili, come una sorta di calco del passato, delle
cose peggiori accadute in questo continente, e di molte altre cose che forse ancora non accadono, ma i cui echi
lontani sentiamo già avvicinarsi.
(da Alexis de Tocqueville, La democrazia in America)
È il dispotismo che può fare a meno della fede, non la libertà. La religione è
assai più necessaria nella repubblica [...] che non nella monarchia [...] e nelle repubbliche
democratiche più che in tutte le altre.
(da papa Giovanni Paolo II, Evangelium vitae)
Un pensiero speciale vorrei riservare a voi, donne che avete fatto ricorso all’aborto. La Chiesa sa
quanti condizionamenti possono aver influito sulla vostra decisione, e non dubita che in molti casi
s’è trattato d’una decisione sofferta, forse drammatica. Probabilmente la ferita nel vostro
animo non s’è ancor rimarginata. In realtà, quanto è avvenuto è stato e
rimane profondamente ingiusto. Non lasciatevi prendere, però, dallo scoraggiamento e non abbandonate la
speranza. Sappiate comprendere, piuttosto, ciò che si è verificato e interpretatelo nella sua
verità. Se ancora non l’avete fatto, apritevi con umiltà e fiducia al pentimento: il Padre
di ogni misericordia vi aspetta per offrirvi il suo perdono e la sua pace nel sacramento della Riconciliazione.
Vi accorgerete che nulla è perduto e potrete chiedere perdono anche al vostro bambino, che ora vive nel
Signore. Aiutate dal consiglio e dalla vicinanza di persone amiche e competenti, potrete essere con la vostra
sofferta testimonianza tra i più eloquenti difensori del diritto di tutti alla vita. Attraverso il
vostro impegno per la vita, coronato eventualmente dalla nascita di nuove creature ed esercitato con
l’accoglienza e l’attenzione verso chi è più bisognoso di vicinanza, sarete artefici
di un nuovo modo di guardare alla vita dell'uomo.
(da papa Paolo VI, Lettera alle Brigate rosse)
Io scrivo a voi, uomini delle Brigate Rosse: restituite alla libertà, alla sua famiglia, alla vita
civile l’onorevole Aldo Moro.
Io non vi conosco, e non ho modo d’avere alcun contatto con voi. Per questo vi scrivo pubblicamente,
profittando del margine di tempo, che rimane alla scadenza della minaccia di morte, che voi avete annunciata
contro di lui, Uomo buono ed onesto, che nessuno può incolpare di qualsiasi reato, o accusare di scarso
senso sociale e di mancato servizio alla giustizia e alla pacifica convivenza civile.
Io non ho alcun mandato nei suoi confronti, né sono legato da alcun interesse privato verso di lui. Ma
lo amo come membro della grande famiglia umana, come amico di studi, e a titolo del tutto particolare, come
fratello di fede e come figlio della Chiesa di Cristo.
Ed è in questo nome supremo di Cristo, che io mi rivolgo a voi, che certamente non lo ignorate, a voi,
ignoti e implacabili avversari di questo uomo degno e innocente; e vi prego in ginocchio, liberate
l’onorevole Aldo Moro, semplicemente, senza condizioni, non tanto per motivo della mia umile e affettuosa
intercessione, ma in virtù della sua dignità di comune fratello in umanità, e per causa,
che io voglio sperare avere forza nella vostra coscienza, d’un vero progresso sociale, che non deve
essere macchiato di sangue innocente, né tormentato da superfluo dolore.
Già troppe vittime dobbiamo piangere e deprecare per la morte di persone impegnate nel compimento
d’un proprio dovere. Tutti noi dobbiamo avere timore dell’odio che degenera in vendetta, o si piega
a sentimenti di avvilita disperazione.
E tutti dobbiamo temere Iddio vindice dei morti senza causa e senza colpa.
Uomini delle Brigate Rosse, lasciate a me, interprete di tanti vostri concittadini, la speranza che ancora nei
vostri animi alberghi un vittorioso sentimento di umanità.
Io ne aspetto pregando, e pur sempre amandovi, la prova.
Dal Vaticano, 21 aprile 1978
PAULUS PP. VI
(da Rosario Livatino, conferenza tenuta a Canicattì nel 1986)
Il compito del magistrato è quello di decidere. Orbene decidere è scegliere e a volte tra
numerose cose, o strade o soluzioni e scegliere è una delle cose più difficili che l’uomo
sia chiamato a fare. Ed è proprio in questo scegliere per decidere, decidere per ordinare, che il
magistrato credente può trovare un rapporto con Dio, un rapporto diretto perché il rendere
giustizia è realizzazione di sé, è preghiera, è dedizione di sé a Dio, un
rapporto indiretto per il tramite dell’amore verso la persona giudicata.
(da Joachim Jeremias, Teologia del Nuovo Testamento)
Che significa diventare di nuovo come un bambino? Il tertium comparationis è forse
l’umiltà? È ben difficile, poiché l’ambiente di Gesù non offre alcun
caso parallelo in cui il bambino figuri come tipo dell’umiltà. Oppure il termine di paragone
è la purezza dei bambini? Anche questa idea non è familiare all’antico giudaismo
palestinese. [...] Questa sarà in realtà la soluzione: diventar di nuovo bambino significa
imparare a dir di nuovo abbà. [...] Convertirsi vuol dire imparare a dire di nuovo
abbà, riporre tutta la propria fiducia nel Padre celeste, ritornare nella casa paterna e tra le
braccia del Padre. La prova che questa interpretazione non sia del tutto errata ce la fornisce Lc 15,11-32. La
penitenza del figliol prodigo consiste nel tornare a casa da suo padre.
(da Friedrich Nietzsche, Historia in nuce, in Umano, troppo umano)
La parodia più seria che abbia mai udito è questa: In principio era il Non-Senso, e il Non-Senso
era presso Dio, e il Non-Senso era Dio.
(da Dante Alighieri, Divina Commedia, Inferno canto XXVI)
“O frati”, dissi, “che per cento milia
perigli siete giunti a l’occidente,
a questa tanto picciola vigilia
d’i nostri sensi ch’è del rimanente
non vogliate negar l’esperïenza,
di retro al sol, del mondo sanza gente.
Considerate la vostra semenza:
fatti non foste a viver come bruti,
ma per seguir virtute e canoscenza”.
Li miei compagni fec’io sì aguti,
con questa orazion picciola, al cammino,
che a pena poscia li avrei ritenuti;
e volta nostra poppa nel mattino,
de’ remi facemmo ali al folle volo,
sempre acquistando dal lato mancino.
(da papa Giovanni Paolo II, Messaggio per la giornata della pace 2002, Non c’è pace senza
giustizia, non c’è giustizia senza perdono)
La vera pace, in realtà, è «opera della giustizia» (Is 32,17). [...] La vera pace
è frutto della giustizia, virtù morale e garanzia legale che vigila sul pieno rispetto di diritti
e doveri e sull’equa distribuzione di benefici e oneri.
Ma poiché la giustizia umana è sempre fragile e imperfetta, esposta com’è ai limiti
e agli egoismi personali e di gruppo, essa va esercitata e in certo senso completata con il perdono che risana
le ferite e ristabilisce in profondità i rapporti umani turbati. Ciò vale tanto nelle tensioni
che coinvolgono i singoli quanto in quelle di portata più generale ed anche internazionale.
Il perdono non si contrappone in alcun modo alla giustizia, perché non consiste nel soprassedere alle
legittime esigenze di riparazione dell’ordine leso. Il perdono mira piuttosto a quella pienezza di
giustizia che conduce alla tranquillità dell’ordine, la quale è ben più che una
fragile e temporanea cessazione delle ostilità, ma è risanamento in profondità delle
ferite che sanguinano negli animi. Per un tale risanamento la giustizia e il perdono sono ambedue essenziali.
(da Galileo Galilei, Lettera a Madama Cristina di Lorena, Granduchessa di Toscana, 1615)
Il motivo, dunque, che loro [i teologi] producono per condennar l’opinione della mobilità della
Terra e stabilità del Sole, è, che leggendosi nelle Sacre lettere, in molti luoghi, che il Sole
si muove e che la Terra sta ferma, né potendo la Scrittura mai mentire o errare, ne séguita per
necessaria conseguenza che erronea e dannanda sia la sentenza di chi volesse asserire, il Sole esser per se
stesso immobile, e mobile la Terra.
Sopra questa ragione parmi primieramente da considerare, essere e santissimamente detto e prudentissimamente
stabilito, non poter mai la Sacra Scrittura mentire, tutta volta che si sia penetrato il suo vero sentimento;
il qual non credo che si possa negare essere molte volte recondito e molto diverso da quello che suona il puro
significato delle parole.
Dal che ne séguita, che qualunque volta alcuno, nell’esporla, volesse fermarsi sempre nel nudo
suono literale, potrebbe, errando esso, far apparir nelle Scritture non solo contradizioni e proposizioni
remote dal vero, ma gravi eresie e bestemmie ancora: poi che sarebbe necessario dare a Iddio e piedi e mani e
occhi, non meno affetti corporali ed umani, come d’ira, di pentimento, d’odio, ed anco tal volta la
dimenticanza delle cose passate e l’ignoranza delle future; le quali proposizioni, sì come,
dettante lo Spirito Santo, furono in tal guisa profferite da gli scrittori sacri per accomodarsi alla
capacità del vulgo assai rozzo e indisciplinato, così per quelli che meritano d’esser
separati dalla plebe è necessario che i saggi espositori ne produchino i veri sensi, e n’additino
le ragioni particolari per che e’ siano sotto cotali parole profferiti: ed è questa dottrina
così trita e specificata appresso tutti i teologi, che superfluo sarebbe il produrne attestazione
alcuna. […]
Stante, dunque, ciò, mi par che nelle dispute di problemi naturali non si dovrebbe cominciare dalle
autorità di luoghi delle Scritture, ma dalle sensate esperienze e dalle dimostrazioni necessarie:
perché, procedendo di pari dal Verbo divino la Scrittura Sacra e la natura, quella come dettatura dello
Spirito Santo, e questa come osservantissima essecutrice de gli ordini di Dio. […]
Io qui direi che quello che intesi da persona ecclesiastica costituita in eminentissimo grado, ciò
è l’intenzione delle Spirito Santo essere d’insegnarci come si vadia al cielo, e non come
vadia il cielo.
(da Davide Rondoni, L’uomo contemporaneo di fronte alla Pala di Gand. L'assordante belato che sale
dal mondo)
Di più che un tradimento e un ravvedimento. Qualcosa di più radicale. Di più misterioso
che non la sola conoscenza del male e del bene. […]
Doveva accadere che male e bene si incontrassero fino al punto più alto della loro forza
contraddittoria. Fino al punto più alto e profondo del loro combattimento. Fino alla figura e alla
vicenda che non lascia nemmeno spazio tra il bene e il male, perché li assume insieme,
contemporaneamente. In una figura sola, in una agonia. Che è dell’innocente sull’altare.
Il punto in cui il bene non si accontenta di succedere al male. Non si accontenta di tenergli testa. Di
vincere. Come se non bastasse nemmeno quel superamento. Quel mettere in fila, e nella successione giusta,
l’esperienza del male e quella del bene. Come se si dovessero addirittura abbracciare. E,
scandalosamente, baciare. Cosa è infatti l’innocente che muore se non l’atto imprevedibile
dove il male è usato dal bene? Dove non si cancella il male superandolo, lasciandoselo alle spalle come
l'albero spogliato. Ma il male diviene attore del bene.
Mistero dei misteri. Figura unica adombrata da sempre sotto ogni latitudine e usanza: il sacrificio
dell’innocente.
Ma qui c’è ancora da stupire. Da trasalire. Perché non basta che il male sia usato dal
bene. Che il sangue coli per un bene. Non basta andare oltre la sola dinamica colpa e punizione. Perché
l’agnello, e il sacrificio stavolta è Dio stesso. Non è colui che attende perduto nei reami
celesti. No, è lui a belare, a farsi embrione, vecchio da spostare sul letto, bambini uccisi a
colazione, donna che supplica in video, ragazzetto morto di fame, lui è l’essere indifeso che
poggia la testa e offre la giugulare.
È Dio stesso che lascia i cieli e posa la testa sulla pietra. E bela come un abbandonato.
(da Daniel Lifschitz, a cura di, Uomo e donna immagine di Dio. Il sabato. L’Aggadah su Genesi
2)
La figlia di Rabbi Gamaliel disse: «Se Adamo avesse visto Eva mentre veniva creata, sicuramente
l’avrebbe disprezzata». Perciò il Santo, benedetto sia, nella sua grande saggezza, fece
cadere un sonno profondo su Adamo, poi modellò il corpo di Eva, diverso da quello di Adamo, dandole la
meravigliosa capacità di dare alla luce dei figli.
Eva, la donna destinata a diventare la vera compagna dell’uomo, fu tratta dal corpo di Adamo
perché «solo quando uno è unito ad un suo simile, l’unione è
indissolubile».
Perciò è detto: «Il Signore Dio plasmò, con la costola che aveva tolto
all’uomo, una donna e la condusse all’uomo».
Perché plasmò dalla costola e non dalla testa? Per evitare che la donna dominasse l’uomo.
Perché non dal piede? Per evitare che l’uomo la dominasse. Dalla costola, perché avessero
pari dignità.
(da Isidor Grunfeld, Lo Shabbath)
Il lavoro può rendere liberi, ma si può anche esserne schiavi. È detto
nel Talmud che quando Dio creò il cielo e la terra, essi continuarono a girare senza posa come due
rocchetti di filo, sino a quando il Creatore ordinò: «Basta».
L’attività creativa di Dio fu seguita dallo Shabbath, allorché
deliberatamente Egli cessò la Sua opera creatrice. Questo fatto, più di ogni altra cosa, ci
presenta Dio come libero creatore, che liberamente controlla e limita la creazione da Lui attuata
secondo la Sua volontà.
Non è quindi il lavoro, ma la cessazione del lavoro che Dio scelse come segno della Sua libera
creazione del mondo. L’ebreo, cessando il suo lavoro ogni Shabbath, nel modo prescritto
dalla Torah, rende testimonianza della potenza creatrice di Dio.
E, inoltre, rende manifesta la vera grandezza dell'uomo. Le stelle e i pianeti, una volta iniziato il
loro moto rotatorio che durerà in eterno, continuano a girare ciecamente, senza interruzione, mossi
dalla legge naturale di causa ed effetto. L’uomo invece può, con un atto di fede, porre un limite
al suo lavoro, affinché non degeneri in una fatica senza senso.
Osservando lo Shabbath, l’ebreo diviene, come dissero i nostri Saggi, simile a Dio
stesso. Similmente a Dio, egli è padrone del suo lavoro, non schiavo di esso.
(da Iacopone da Todi, Lauda 39, O Amor, devino Amore)
O Amor, devino Amore,
Amor, che non èi amato!
Amor, la tua amicizia
è plena de letizia;
non cade mai en trestizia
lo cor che tt’à assaiato.
O Amor amativo,
Amor consumativo,
Amor conservativo
del cor che tt’à abergato!
O ferita ioiosa,
ferita delettosa,
ferita gaudiosa,
chi de te è vulnerato!
Amor, et und’entrasti,
che ssì occulto passasti?
Nullo signo mustrasti
dónne tu fuss’entrato.
O Amore amabele,
Amore delettabele,
Amore encogetabele
sopr’onne cogitato!
Amor, devino foco,
Amor de riso e ioco,
Amor, non dài a ppoco,
cà è’ ricco esmesurato.
(da papa Giovanni Paolo II, Lettera apostolica Tertio millennio adveniente)
Un [...] capitolo doloroso, sul quale i figli della Chiesa non possono non tornare con animo aperto al
pentimento, è costituito dall'acquiescenza manifestata, specie in alcuni secoli, a metodi di
intolleranza e persino di violenza nel servizio alla verità.
È vero che un corretto giudizio storico non può prescindere da un’attenta considerazione
dei condizionamenti culturali del momento, sotto il cui influsso molti possono aver ritenuto in buona fede che
un’autentica testimonianza alla verità comportasse il soffocamento dell’altrui opinione o
almeno la sua emarginazione. Molteplici motivi spesso convergevano nel creare premesse di intolleranza,
alimentando un’atmosfera passionale alla quale solo grandi spiriti veramente liberi e pieni di Dio
riuscivano in qualche modo a sottrarsi.
Ma la considerazione delle circostanze attenuanti non esonera la Chiesa dal dovere di rammaricarsi
profondamente per le debolezze di tanti suoi figli, che ne hanno deturpato il volto, impedendole di riflettere
pienamente l’immagine del suo Signore crocifisso, testimone insuperabile di amore paziente e di umile
mitezza.
Da quei tratti dolorosi del passato emerge una lezione per il futuro, che deve indurre ogni cristiano a tenersi
ben saldo all’aureo principio dettato dal Concilio: «La verità non si impone che in forza
della stessa verità, la quale penetra nelle menti soavemente e insieme con vigore (Dignitatis
Humanae, 1)».
(da Voltaire, Dizionario filosofico)
Fra tutte le religioni, quella che esclude nel modo più assoluto i preti da ogni autorità civile,
è senza dubbio quella di Gesù: «Date a Cesare quel che è di Cesare».
«Non ci sarà, tra voi, né primo né ultimo». «Il mio regno non è
di questo mondo».
(da Gilbert Keith Chesterton, Ortodossia)
[Nel presentare la dottrina del peccato originale che egli chiama «l’unica visione lieta»
della vita umana, perché ci ricorda che «abbiamo abusato di un mondo buono, e non siamo
semplicemente intrappolati in una realtà malvagia»].
Certi nuovi teologi mettono in discussione il peccato originale, la sola parte della teologia cristiana che
possa effettivamente essere dimostrata. Alcuni, nel loro fin troppo fastidioso spiritualismo, ammettono
bensì che Dio è senza peccato – cosa di cui non potrebbero aver la prova nemmeno in sogno
– ma, viceversa, negano il peccato dell’uomo che può esser visto per la strada.
I più grandi santi, come i più grandi scettici, hanno sempre preso come punto di partenza dei
loro ragionamenti la realtà del male. Se è vero (come è vero) che un uomo può
provare una voluttà squisita a scorticare un gatto, un filosofo della religione non può trarne
che una di queste deduzioni: o negare l’esistenza di Dio, ed è ciò che fanno gli atei; o
negare qualsiasi presente unione fra Dio e l’uomo, ed è ciò che fanno tutti i
cristiani.
I nuovi teologi sembrano pensare che vi sia una terza più razionalistica soluzione: negare il gatto.
(da John Locke, Lettera sulla tolleranza, 1689)
Illustrissimo Signore,
poiché chiedete la mia opinione sulla tolleranza reciproca tra i Cristiani, vi rispondo in poche parole
che la ritengo il principale distintivo della vera Chiesa. Infatti, per quanto alcuni possano vantare
antichità di luoghi di culto e di titoli o magnificenza di riti; altri la riforma a cui hanno sottoposto
il loro insegnamento; tutti, infine, l’ortodossia della loro fede (perché ciascuno è
ortodosso per sé stesso), questi, ed altri dello stesso genere, possono essere segni di una contesa tra
uomini, per il potere e il dominio, anziché segni della Chiesa di Cristo. Uno che possegga tutte queste
doti, non è ancora cristiano, se manca di carità, di mitezza e benevolenza verso tutti gli uomini
in generale, anche quelli che non professano la fede cristiana. «I re dei Gentili esercitano su di loro
il dominio, voi non fate così» dice ai suoi discepoli il nostro Signore (Lc 22,25-26) […].
Se infatti dobbiamo prestare fede al Vangelo e agli Apostoli, nessuno può essere cristiano senza
carità e senza la fede che agisce con l’amore, non con la forza. Ora, forse quelli che con il
pretesto della religione perseguitano, torturano, riducono in miseria e uccidono gli altri fanno tutto
ciò da amici benevoli?
(da Robert Baden-Powell, in L’educazione non finisce mai)
Mi è stato chiesto di descrivere più approfonditamente ciò che avevo in mente per quanto
concerne la religione quando fondai lo Scautismo [...]. Mi è stato chiesto: Come c’entra la
religione?
La mia risposta è stata che la religione non ha da “entrarci”, perché è
già dentro. Essa è il fattore fondamentale che pervade lo Scautismo.
Per me la meraviglia delle meraviglie è che alcuni insegnanti abbiano trascurato [lo studio della
natura], un mezzo di educazione facile ed infallibile, ed abbiano lottato per imporre un’istruzione
biblica come primo passo per condurre il ragazzo irrequieto e pieno di vita a pensare a cose più
elevate.
Ti suggerisco due cose.
La prima è la lettura di quell’antico ed ammirabile libro che è la Bibbia, nella quale
scoprirai, oltre alla Rivelazione divina, un compendio straordinariamente interessante di storia, di poesia e
di morale.
La seconda è la lettura di un altro vecchio libro meraviglioso: quello della Natura, con
l’osservazione e lo studio di tutto quanto puoi trovare tra le bellezze e i misteri che essa ti offre per
la tua gioia.
Ed infine rifletti al modo in cui puoi meglio servire Dio finché ancora possiedi la vita che Egli ti ha
prestato.
(da Ingrid Betancourt)
Ho scoperto la fede in Dio durante la mia prigionia. Fino ad allora, la mia fede era basata sul ritualismo:
come molti cattolici, andavo a messa, pregavo, ma la mia conoscenza di Dio era molto limitata. Quando mi sono
ritrovata nella giungla, ho avuto molto tempo e per unica lettura la Bibbia. Ho avuto il piacere, in sei anni,
di leggerla, di meditarla. Se avessi avuto altre cose da fare, avrei fatto altro, perché si è
sempre pigri per riflettere sull’essenziale.
Forse era una prigionia necessaria. Essa mi ha permesso di capire chi è Dio, di stabilire una relazione
con lui, con molta ammirazione, molto amore ma – soprattutto – comprendendo chi è,
attraverso la sua parola. Per me non si tratta di parole vuote ma di una realtà: leggendo la Bibbia, ho
compreso il carattere di Dio; non è solo una luce, un’energia o soltanto una forza, ma è
una Parola, qualcuno che vuole comunicare con me. Non ho avuto illuminazioni, no! Ho semplicemente letto la
Bibbia, razionalmente. Sono stata colpita da tutti i brani che mi hanno connesso emozionalmente e interiormente
con la parola di Dio. Ho sentito la voce di Dio in un modo assai umano e molto concreto.
Leggevo e rileggevo alcuni passaggi dicendomi: «Questo è stato scritto per me!». Avevo
sentito a lungo senza capire e, di colpo, è stato come se mi fossi collegata alla presa di corrente
giusta. In un momento, la luce si accende e si capiscono tutte le cose che erano rimaste oscure. Ancora una
volta, non si tratta di un’esperienza mistica ma razionale, che ha profondamente trasformato la mia
vita.
Come sono cambiata! Oggi il mio tempo non è il tempo di prima. Avevo sempre voglia che le cose andassero
in fretta. Oggi non mi preoccupo più: so che tutto capita al tempo giusto. La mia speranza dunque
è più forte. Il passaggio attraverso la prigionia non ha ucciso la mia volontà, anzi ha
cambiato la natura della mia speranza.
La sola risposta alla violenza è una risposta d’amore. Questa risposta d’amore, questo
atteggiamento non violento, per me, ha avuto origine dalla fede cristiana. Ho scoperto che si può essere
condotti ad odiare una persona, a odiarla con tutte le forze del nostro essere e, allo stesso tempo, a trovare
nell’amore il sollievo rispetto a questo odio. Non si può amare qualcuno che vi fa del male. Ma si
può trovare, e io l’ho trovato in Cristo, un punto di appoggio, come un trampolino.
Mi dicevo: «Per Te, Signore, non dico che lo detesto». Il fatto di non aver sulla bocca queste
parole di odio era un conforto. Talvolta vedevo arrivare un guerrigliero crudele e spaventoso. Veniva a sedersi
davanti a me ed io ero capace di sorridergli. L’amore è necessario. Ho cominciato un cammino di
perdono. Sono riuscita a perdonare, e non solo ai miei sequestratori. Ho perdonato anche quelli che erano
prigionieri con me, con i quali talvolta ci sono stati momenti molto difficili.
Ho perdonato quei miei amici che non si sono ricordati di noi, quelle persone sulle quali si fa affidamento e
che sono mancate; quelle persone che amavo e che hanno detto delle cose orribili, come, ad esempio, che la
prigionia me l’ero cercata. Oggi credo più profondamente che possiamo cambiare il mondo
perché io stessa sono stata trasformata. Ma, in questo mondo di dominio e di possesso, so come è
nel cuore che si generano i cambiamenti essenziali. La pace, che sogniamo, sarà possibile il giorno in
cui ci sarà un atteggiamento diverso nei cuori.
(N.d.R. Il testo è stato raccolto per il settimanale francese «La Vie» da Elisabeth
Marshall e pubblicato in italiano da Avvenire del 21 gennaio 2009, con il titolo Ingrid, la fede e il perdono.
Ingrid Betancourt, candidata alle presidenziali in Colombia, viene rapita nel 2002 tre mesi prima delle
elezioni, dalle Farc, sigla che designa le Forze Armate Rivoluzionarie. È stata liberata il 2 luglio
2008, dopo 6 anni di prigionia)
La sezione, attraverso le foto scattate da Riccardo Aperti, vuole presentare i luoghi romani legati alle diverse figure neotestamentarie per le quali è accertato o ipotizzato un legame con la città di Roma.
Roma, soprattutto Roma, deve il suo oggi a ciò che avvenne nell’ombra della casa di Nazareth, o ai bordi delle pietrose, avare radure attorno a Betlemme. Comunque la si viva è storia, non teologia: è un dato scritto nell’incessante riprodursi di forme, immagini, suoni che assemblano l’antico e lo riflettono, non museale e schiacciato dal solo ricordo, negli occhi delle persone che attraversano le vie della città per ammirarla, per dire una preghiera, o per vivere e basta.
(da Paolo Garuti, Introduzione a Natalis in Urbe)
«Antonio si fece avanti [nel Senato] e spiegò che anche ai fini della guerra contro i Parti era conveniente che Erode fosse re. Questa proposta fu accettata e votata da tutti... Terminata la riunione del senato, Antonio e Cesare [Ottaviano] uscirono avendo Erode in mezzo a loro, mentre i consoli precedevano gli altri magistrati, per andare a sacrificare ed esporre il decreto in Campidoglio. Così Antonio ospitò Erode nel suo primo giorno di regno, che egli ricevette nella centottantaquattresima olimpiade, sotto il consolato di Gneo Domizio Calvino, per la seconda volta, e di Gaio Asinio Pollione».
(da Flavio Giuseppe, Antichità giudaiche 14, 385-389)
Erode, che passerà alla storia come “Erode il Grande”, dopo aver lasciato i suoi familiari
assediati da Antigono nella fortezza di Masada, si imbarcò in cerca di aiuti, giungendo prima ad
Alessandria d’Egitto, dove incontrò Cleopatra, poi a Roma dove giunse nel 40 a.C. La sua richiesta
era che venisse fatto re il fratello di sua moglie, al posto di Antigono, ultimo sovrano della dinastia degli
asmonei.
Antonio ed Ottaviano, invece, lo fecero proclamare re dinanzi al Senato riunito nella Curia, ritenendolo il
più affidabile per governare in sintonia con il potere romano.
Durante il suo regno nacque Gesù.
«Salpato Archelao alla volta di Roma… anche Antipa(tro) si mise in viaggio per sostenere le sue
pretese al trono… In Roma si riversò su di lui la simpatia di tutti i parenti che non potevano
sopportare Archelao…
Cesare (Ottaviano Augusto) radunò il consiglio dei magistrati romani e dei suoi amici nel tempio di
Apollo sul Palatino, che aveva fatto costruire egli stesso, adornandolo con splendida magnificenza... Sentite
le due parti, Cesare sciolse il consiglio, ma pochi giorni dopo assegnò la metà dei regno ad
Archelao col titolo di «etnarca», promettendogli di farlo re, qualora se ne fosse mostrato degno.
L’altra metà la divise in due tetrarchie e le assegnò agli altri due figli di Erode: una a
Filippo e l’altra ad Antipa che aveva conteso il trono ad Archelao. Antipa ottenne la Perea e la
Galilea... mentre a Filippo furono attribuite la Batanea, la Traconitide, l’Auranitide...
Dell’etnarchia di Archelao facevano parte l’Idumea, l’intera Giudea e la
Samaria».
(da Giuseppe Flavio, La guerra giudaica 2,18-20; 80-98)
Alla morte di Erode il Grande, scoppiò una disputa sulla sua successione. Nell’ultimo suo
testamento egli aveva designato re il figlio Archelao. Erode Antipa – conosciuto anche come Antipatro
– facendosi forza su di un precedente testamento aspirava anch’egli al trono. Si presentarono
così entrambi a Roma, al cospetto di Ottaviano Augusto, che infine decise per la divisione del regno in
tre parti, pronunciando sul Palatino il suo giudizio.
Ad Erode Antipa, toccò la Galilea. Per questo motivo il tetrarca sarà poi coinvolto nel processo
di Gesù, perché l’attività pubblica del Cristo si svolgerà nei territori a
lui assoggettati. A Filippo (che era fratellastro di entrambi) fu assegnata la regione settentrionale della
Galilea nella quale egli fondò la città di Cesarea di Filippo. Il luogo è noto nei
vangeli, perché nei suoi pressi Gesù condusse i dodici per porre loro la domanda sulla sua
identità: «Voi, chi dite che io sia?».
Ad Archelao toccò la Giudea con Gerusalemme. Fu, però, deposto nel 6 d.C. poiché si era
reso impopolare. Augusto decise allora di nominare al suo posto un prefetto direttamente dipendente da
Roma.
In occasione di un ulteriore viaggio a Roma avvenuto sotto Tiberio (descritto in Antichità
giudaiche 18,109 ss) Erode Antipa si fermò ad alloggiare presso Erode Filippo e si innamorò
della di lui moglie Erodiade, figlia del re nabateo Areta IV. Da questo fatto nacquero le vicende che portarono
alla morte di Giovanni il Battista ed alla guerra fra Erode Antipa ed Areta. Erode, spinto dalla moglie
Erodiade, venne ancora in Italia, questa volta a Baia, da Caligola, per chiedere la benevolenza
dell’imperatore contro il re Agrippa. Avvisato da quest’ultimo Caligola fece, invece, esiliare la
coppia a Lione, in Gallia.(Giuseppe Flavio, Antichità giudaiche, 18, 240-255).
«In quei giorni un decreto di Cesare Augusto ordinò che si facesse il censimento di tutta la terra. Questo primo censimento fu fatto quando era governatore della Siria Quirinio. Andavano tutti a farsi registrare, ciascuno nella sua città. Anche Giuseppe, che era della casa e della famiglia di Davide, dalla città di Nazaret e dalla Galilea salì in Giudea alla città di Davide, chiamata Betlemme, per farsi registrare insieme con Maria sua sposa, che era incinta».
(dal vangelo secondo Luca 2,1-5)
«Nell’anno decimoquinto dell’impero di Tiberio Cesare, mentre Ponzio Pilato era governatore della Giudea, Erode tetrarca della Galilea, e Filippo, suo fratello, tetrarca dell’Iturèa e della Traconìtide, e Lisània tetrarca dell’Abilène, sotto i sommi sacerdoti Anna e Caifa, la parola di Dio scese su Giovanni, figlio di Zaccaria, nel deserto».
(dal vangelo secondo Luca 3,1-2)
Gesù nacque mentre a Roma veniva edificato da Cesare Ottaviano Augusto il Tempio di Marte Ultore, nei
Fori Romani.
Augusto ne decise l’edificazione già nel 42 a.C., come atto votivo prima della battaglia di
Filippi contro gli uccisori di Cesare, perché il dio lo sostenesse in questo atto di vendetta. Esso fu,
però, terminato solo nel 2 a.C. Il tempio di Marte divenne il luogo nel quale si recavano a sacrificare
prima della loro missione tutti i condottieri dell’esercito romano, così come i capi
dell’amministrazione imperiale delle diverse province.
Ponzio Pilato offrì così sacrifici a Marte ultore, nel Tempio a lui dedicato, prima di partire in
missione come prefetto della Giudea (magistratura che ricoprì dal 26 al 36 d.C.). Ad Augusto era nel
frattempo succeduto Tiberio che aveva eretto, sempre nello stesso Tempio, gli archi di Druso e Germanico. Solo
con gli imperatori successivi il titolo di prefetto fu mutato in quello di procuratore.
Nato sotto Augusto, Gesù fu crocifisso sotto Tiberio, essendo prefetto della Giudea Ponzio Pilato.
«Il Signore conceda misericordia alla famiglia di Onesìforo, perché egli mi ha più
volte confortato e non s’è vergognato delle mie catene; anzi, venuto a Roma, mi ha cercato con
premura, finché mi ha trovato...
Cerca di venire presto da me, perché Dema mi ha abbandonato avendo preferito il secolo presente ed
è partito per Tessalonica; Crescente è andato in Galazia, Tito in Dalmazia. Solo Luca è
con me. Prendi Marco e portalo con te, perché mi sarà utile per il ministero. Ho inviato
Tìchico a Efeso. Venendo, portami il mantello che ho lasciato a Troade in casa di Carpo e anche i libri,
soprattutto le pergamene.».
(dalla seconda Lettera di Paolo a Timoteo 1,16-17; 4,9-13)
Timoteo è stato il più fedele collaboratore di Paolo. L’epistolario paolino lo vede
mittente insieme all’apostolo di molte lettere (1-2 Ts, 2 Cor, Fil, Flm, Col) e gli Atti lo citano a
fianco di Paolo nella fondazione di molte chiese. Infine, a Timoteo fu affidato il compito di guidare la chiesa
di Efeso.
Paolo lo richiamò da lì, richiedendo la sua presenza al suo fianco nei momenti che precedettero
il martirio. Il fatto non è storicamente in discussione anche se le cosiddette “lettere
pastorali” a Timoteo ed a Tito fossero di mano di un discepolo di Paolo o dello stesso Timoteo, come
recentemente proposto, che avrebbe assemblato materiale paolino da lui conosciuto oralmente.
«Vi salutano i fratelli che sono con me. Vi salutano tutti i santi, soprattutto quelli della casa di Cesare».
(dalla Lettera di Paolo ai Filippesi 4,12)
In alcune delle sue lettere (Filemone, Filippesi, Colossesi), Paolo fa chiaramente riferimento ad una
situazione di prigionia nella quale egli si trova. Tali lettere vengono perciò abitualmente designate
come “lettere dalla prigionia”. Secondo il racconto degli Atti, Paolo venne recluso sia a
Gerusalemme – e successivamente a Cesarea Marittima - in occasione del suo appello a Cesare per potersi
recare nell’urbe, sia a Roma stessa. Tradizionalmente le lettere paoline scritte dalla reclusione vengono
ambientate nel corso della prigionia romana, ma sempre più si fa strada l’ipotesi che potrebbero
essere invece state spedite da Efeso, nel corso di un ulteriore periodo di detenzione subito
dall’apostolo.
In particolare, la lettera ai Filippesi, fa riferimento alla presenza di cristiani appartenenti “alla
casa di Cesare”.
Se la lettera fosse stata scritta da Roma, si tratterebbe di convertiti al cristianesimo fra i dipendenti del
Palazzo imperiale, mentre, se la redazione è avvenuta in Efeso, si tratta di dipendenti
dell’autorità romana nella città dell’Asia minore.
«Partimmo [da Pozzuoli] alla volta di Roma. I fratelli di là, avendo avuto notizie di noi, ci vennero incontro fino al Foro di Appio e alle Tre Taverne. Paolo, al vederli, rese grazie a Dio e prese coraggio. Arrivati a Roma, fu concesso a Paolo di abitare per suo conto con un soldato di guardia».
(dagli Atti degli Apostoli 28,14-16)
La finale degli Atti, con l’arrivo di Paolo a Roma, appartiene alle cosiddette “sezioni-noi”, in tedesco Wir-stücken, degli Atti (At 16,10-17; 20,5-21; 27,1-28,16), cioè a quei brani dell’opera che hanno il soggetto alla prima persona plurale. In questi testi Luca stesso, o almeno qualcuno che è una sua fonte, appare come testimone oculare presente a fianco di Paolo. Essi arrivarono così insieme nell’urbe. La tradizione colloca la residenza di Luca a Roma nella zona sottostante la chiesa di S. Maria in via Lata.
«[A Corinto, Paolo] trovò un Giudeo chiamato Aquila, oriundo del Ponto, arrivato poco prima dall'Italia con la moglie Priscilla, in seguito all'ordine di Claudio che allontanava da Roma tutti i Giudei. Paolo si recò da loro e poiché erano del medesimo mestiere, si stabilì nella loro casa e lavorava. Erano infatti di mestiere fabbricatori di tende».
(dagli Atti degli Apostoli 18,2-3)
«I giudei che tumultuavano continuamente per istigazione di (un certo) Cresto, egli [Claudio] li scacciò da Roma».
(da Svetonio, Claudius 25)
«Salutate Prisca e Aquila, miei collaboratori in Cristo Gesù; per salvarmi la vita essi hanno rischiato la loro testa, e ad essi non io soltanto sono grato, ma tutte le Chiese dei Gentili; salutate anche la comunità che si riunisce nella loro casa».
(dalla Lettera di Paolo ai Romani 16,3-5)
La lettera ai Romani conosce per nome una trentina di persone della prima comunità di Roma (Rm 16), ma
il numero dei cristiani era più numeroso. Fra queste persone care a Paolo, di Aquila e Priscilla
è possibile affermare che la fede cristiana fosse antecedente all’anno 49, l’anno
dell’editto di espulsione dei giudei da Roma emesso da Claudio imperatore. I due coniugi sono così
i più antichi cristiani di Roma di cui si possa datare con certezza la conversione prima di
quell’anno. La comunità cristiana di Roma era stata probabilmente fondata da missionari dei quali
non si è conservato il nome, forse commercianti o soldati o liberti; essi, divenuti cristiani in oriente
si erano poi trasferiti in Roma ed avevano lì annunciato il vangelo.
La loro testimonianza era così vivace da attirare l’attenzione delle cronache; lo storico
Svetonio, infatti, testimonia che già nell’anno 49 d.C. la presenza cristiana faceva talmente
discutere nelle sinagoghe della capitale da spingere appunto l’imperatore Claudio alla decisione di
espellere i giudei da Roma. Il motivo dell’agitazione verificatasi nelle sinagoghe era, infatti,
“l’istigazione di un certo Chresto”. Per il fenomeno dello iotacismo, che porta
all’equivalenza dei suoni “e” ed “i”, Chresto è da identificarsi con
Cristo; il suo nome è causa di discussione nella comunità ebraica di Roma già in
quell’anno.
Aquila e Priscilla dovettero così lasciare Roma, conobbero Paolo a Corinto e poterono poi tornare
nell’urbe ed accoglierlo quando egli giunse finalmente a Roma.
«A quanti sono in Roma diletti da Dio e santi per vocazione, grazia a voi e pace da Dio, Padre nostro, e dal Signore Gesù Cristo. Anzitutto rendo grazie al mio Dio per mezzo di Gesù Cristo riguardo a tutti voi, perché la fama della vostra fede si espande in tutto il mondo. Quel Dio, al quale rendo culto nel mio spirito annunziando il vangelo del Figlio suo, mi è testimone che io mi ricordo sempre di voi, chiedendo sempre nelle mie preghiere che per volontà di Dio mi si apra una strada per venire fino a voi. Ho infatti un vivo desiderio di vedervi per comunicarvi qualche dono spirituale perché ne siate fortificati, o meglio, per rinfrancarmi con voi e tra voi mediante la fede che abbiamo in comune, voi e io. Non voglio pertanto che ignoriate, fratelli, che più volte mi sono proposto di venire fino a voi - ma finora ne sono stato impedito - per raccogliere qualche frutto anche tra voi, come tra gli altri Gentili. Poiché sono in debito verso i Greci come verso i barbari, verso i dotti come verso gli ignoranti: sono quindi pronto, per quanto sta in me, a predicare il vangelo anche a voi di Roma».
(dalla lettera di Paolo apostolo ai Romani 1,7-15)
Paolo scrisse la lettera ai Romani in prospettiva del suo viaggio nella capitale. Probabilmente ciò
avvenne durante la permanenza di tre mesi a Corinto (At 20,3), nel corso del suo III viaggio missionario. Paolo
non era ancora mai stato a Roma, ma conosceva almeno una trentina di cristiani della città (Rm 16,1-16),
che doveva aver incontrato nei suoi viaggi (si pensi, ad esempio, ad Aquila e Priscilla).
La lettera ai Romani è una esposizione del vangelo di Cristo. Paolo non è pressato da contingenze
concrete ed espone la sua comprensione del cuore diviso dell’uomo e dell’amore di Dio che solo
salva tramite la fede.
L’apostolo decise di recarsi a Roma durante la sua permanenza ad Efeso (At 19,21) e riuscì a
realizzare il suo progetto quando, arrestato a Gerusalemme con la falsa accusa di aver profanato il Tempio, si
appellò a Cesare e scelse di essere giudicato a Roma, possedendo fin dalla nascita la cittadinanza
romana. Secondo il racconto degli Atti, in quella circostanza fu il Cristo stesso, apparsogli mentre era
imprigionato nella Fortezza Antonia costruita a sorveglianza del Tempio di Gerusalemme, a chiedergli di recarsi
a Roma (At 23,11).
«Vi saluta la comunità che è stata eletta come voi e dimora in Babilonia; e anche Marco, mio figlio».
(dalla prima Lettera di Pietro 5,13)
«Non sussiste alcuna differenza fra chi viene lavato in mare o in uno stagno, in un fiume o in una fonte, in un lago o in una vasca, né c’è alcuna differenza fra coloro che Giovanni battezzò nel Giordano e Pietro nel Tevere, a meno che l’eunuco che Filippo battezzò con l’acqua trovata per caso lungo la strada abbia ottenuto in misura maggiore o minore la salvezza!»
(da Tertulliano, De baptismo 2,3)
Se la morte di Pietro è databile con certezza al 64 d.C., anno della prima persecuzione romana dei
cristiani ad opera di Nerone, sul momento del suo arrivo a Roma sono possibili solo congetture.
Egli dovette, comunque, risiedere per un certo periodo nella città, prima del suo martirio. Il ricordo
della sua presenza in Roma è testimoniata dalle due lettere attribuite a Pietro, che si presentano
scritte da “Babilonia”; il termine indica nella tradizione veterotestamentaria ed apocalittica la
città nemica di Dio e del suo popolo e nelle lettere petrine stesse la capitale dell’impero romano
che, idolatrando l’imperatore, perseguita chi gli rifiuta un culto divino.
La prima lettera di Pietro ha frequenti richiami al battesimo, quel battesimo che Pietro dovette amministrare
in Roma, come ricorda Tertulliano nei primi anni del III secolo, nel fiume Tevere.
«Né interventi umani, né largizioni del principe, né sacrifici agli dei riuscivano a soffocare le voce infamante che l'incendio fosse stato comandato [da Nerone stesso]. Allora, per mettere a tacere ogni diceria, Nerone dichiarò colpevoli e condannò ai tormenti più raffinati coloro che il volgo chiamava Crestiani, odiosi per le loro nefandezze. Essi prendevano nome da Cristo, che era stato suppliziato ad opera del procuratore Ponzio Pilato sotto l’impero di Tiberio; repressa per breve tempo, quella funesta superstizione ora riprendeva forza non soltanto in Giudea, luogo d’origine di quel male, ma anche nell’urbe, in cui tutte le atrocità e le vergogne confluiscono da ogni parte e trovano seguaci. Furono dunque arrestati dapprima coloro che confessavano, poi, sulle rivelazioni di questi, altri in grande numero furono condannati non tanto come incendiari quanto come odiatori del genere umano. E alle morti furono aggiunti i ludibri, come il rivestirli delle pelli di belve per farli dilaniare dai cani o, affissi a delle croci e bruciati quando era calato il giorno, venivano accesi come fiaccole notturne. Nerone aveva offerto i suoi giardini per tali spettacoli e dava dei giochi nel circo ora mescolandosi alla plebe vestito da auriga, ora stando ritto sul cocchio».
(da Tacito, Annales 15,44,2-5)
Tacito racconta nei suoi Annali della persecuzione dei primi martiri di Roma – i protomartiri
romani – nella quale fu ucciso anche Pietro. Il fatto avvenne nei giardini neroniani, cioè nel
Circo di Gaio e Nerone che era alle pendici del colle Vaticano. L’attuale obelisco di piazza S. Pietro
era al centro della spina di tale Circo che segnava il percorso sul quale si sfidavano le quadrighe nelle
corse.
L’obelisco fu spostato da Papa Sisto V che volle erigerlo dinanzi alla basilica. Il sito originario in
cui era posto è attualmente indicato da una lapide in terra posta alla sinistra della basilica vaticana,
poco oltre l’attuale nartece, che ricorda così l’ubicazione del Circo nel quale furono
martirizzati Pietro ed i suoi compagni nell’anno 64 d.C.
Sul fianco destro del Circo, proprio sotto l’attuale basilica, sorgeva una necropoli a cielo aperto,
nella quale Pietro venne sepolto dopo il martirio. Parte della necropoli è stata riportata alla luce
dagli archeologi nel secolo scorso. Essi hanno potuto così raggiungere nei loro scavi il luogo della
sepoltura del primo degli apostoli. Il sito è attualmente visitabile, con ingresso proprio a fianco del
luogo dove era anticamente eretto l’obelisco.
«Se la donna ripudia il marito e ne sposa un altro, commette adulterio».
(dal Vangelo secondo Marco 10,12)
Solo nel diritto romano erano previsti casi nei quali era la donna a poter divorziare dal marito. Tale
situazione non era prevista, invece, dal diritto rabbinico.
Il vangelo di Marco è l’unico vangelo ad estendere alla donna le parole pronunciate da Gesù
sul divorzio.
Anche i latinismi invitano a vedere in Marco un vangelo fortemente legato ad un ambiente di lingua latina: se
alcuni di questi sono comuni agli altri vangeli (denarion, modios, kensos,
krabbatos, legion, phragelloun), altri sono presenti esclusivamente nel primo vangelo, in
particolare xestes, boccale (7,4), spekoulator, guardia (6,27), kodrantes, quadrante o
spicciolo (12, 42), hikanon poiein, dare soddisfazione (15,15), kentyrion, centurione
(15,39.44-45), praitorion, pretorio (15,16).
L’analisi interna del testo conferma così le parole di un frammento di Papia, vescovo di Gerapoli
in Asia Minore, del 130 d.C., in cui si dice:
«Marco, divenuto interprete di Pietro, scrisse senza un ordine, ma con esattezza, ciò che
ricordava delle cose dette e fatte da Gesù. Egli non aveva udito il Signore, né l’aveva
seguito; più tardi seguì Pietro».
La tradizione pone la residenza dell’evangelista nel luogo dove poi sorgerà la basilica di S.
Marco in Campidoglio; in quel luogo Marco avrebbe scritto il suo vangelo.
«Vi salutano gli emigrati dall’Italia».
(dalla lettera agli Ebrei 13,24)
La lettera agli Ebrei fu scritta probabilmente per essere inviata in Italia (e, quindi, a Roma stessa) come si
deduce dalla sezione finale nella quale vengono acclusi i saluti da parte di “quelli che provengono
dall’Italia”, probabilmente emigrati italiani nella città dalla quale fu spedita la lettera:
essi desiderano salutare i loro connazionali rimasti in patria.
Gli studiosi ritengono che l’epistola debba essere stata scritta prima dell’anno 70, l’anno
della distruzione del Tempio da parte dei romani.
Infatti, pur essendo incentrata sulla questione del confronto fra l’antico culto veterotestamentario ed
il nuovo culto cristiano, non fa alcun cenno alla cessazione dell’attività cultuale nel Tempio di
Gerusalemme.
La lettera presenta Cristo come l’unico vero sacerdote: egli, infatti, non ha offerto animali o
sacrifici, ma piuttosto se stesso, per amore, fino alla morte di croce.
«Qui sta la sapienza. Chi ha intelligenza calcoli il numero della bestia: essa rappresenta un nome d'uomo. E tal cifra è seicentosessantasei».
(dal libro dell’Apocalisse 13,18)
«L'angelo mi trasportò in spirito nel deserto. Là vidi una donna seduta sopra una bestia
scarlatta, coperta di nomi blasfemi, con sette teste...
Sulla fronte aveva scritto un nome misterioso: “Babilonia la grande, la madre delle prostitute e degli
abomini della terra”. E vidi che quella donna era ebbra del sangue dei santi e del sangue dei martiri di
Gesù... Qui ci vuole una mente che abbia saggezza. Le sette teste sono i sette colli sui quali è
seduta la donna; e sono anche sette re».
(dal libro dell’Apocalisse 17,3.5-6.9)
L’Apocalisse fu scritta durante il regno di Domiziano, l’imperatore che fece erigere lo Stadio che
portava il suo nome, la cui conformazione è ancora oggi ricalcata dall’andamento di piazza Navona
che sorge sulle sue rovine.
L’autore dell’Apocalisse scrisse il suo libro nell’isola di Patmos, nelle Sporadi, ad un
giorno di navigazione da Efeso e Mileto, dove era stato allontanato, forse esiliato, “a causa della
parola di Dio e della testimonianza di Gesù” (Ap 1,9). L’azione contro Giovanni si situa in
un contesto più ampio di persecuzioni contro i cristiani messe in atto dal potere politico.
Gli studiosi sostengono a ragione che l’Apocalisse ben si situi negli anni dell’imperatore
Domiziano (81-96) che ad Efeso volle fosse eretto un tempio agli imperatori divinizzati della famiglia Flavia
cui apparteneva. Questo ben combacia con i versetti dell’Apocalisse che parlano di un drago,
personificazione del maligno, che cede il suo potere a due bestie, la seconda delle quali erige una statua
perché la prima sia adorata. Dinanzi a questa manifestazione di apparente potenza, Giovanni insiste che
colui che si fa adorare è solamente “un uomo”. Proprio il numero 666 – la metà
di 12, il numero di Israele e della Chiesa, il numero dei benedetti da Dio e dei salvati – indica che
quel potere è fallimentare e finirà miseramente per scomparire.
Gli ultimi capitoli dell’Apocalisse profetizzano questa vittoria di Dio e della sua Chiesa, quando
annunziano che Babilonia, personificazione del potere idolatrico romano che si erige a Dio, “colei che
siede sui sette colli”, cadrà miseramente e scomparirà per lasciare il posto alla
Gerusalemme che scende dal cielo, alla città di Dio.
La sezione presenta la revisione della traduzione della Bibbia in italiano che è stata curata dalla Conferenza Episcopale Italiana e pubblicata nel 2008. In particolare, la nuova edizione viene confrontata con quella del 1971-1974 per fare emergere, attraverso alcune esemplificazioni significative, i criteri utilizzati nella revisione.
1/ La revisione è stata condotta innanzitutto facendo riferimento a scelte testuali ritenute
migliori di quelle utilizzate nella Bibbia CEI del 1971-1974. In particolare, per l’Antico
Testamento, si è preferita una maggiore aderenza al Testo Masoretico rispetto alla versione dei
Settanta. Nella nuova edizione viene generalmente tradotto il testo ebraico anche in quei versetti che sono una
crux interpretum e per i quali ci si rivolgeva al greco.
Ad esempio il Sal 65,2 che nella versione CEI del ’74 seguendo la vocalizzazione dei LXX recitava A te
si deve lode, o Dio, in Sion è stato tradotto con Per te il silenzio è lode, o Dio, in
Sion seguendo la vocalizzazione del Testo Masoretico.
Similmente il Sal 74,19, che seguendo la vocalizzazione dei LXX era tradotto con Non abbandonare alle fiere
la vita di chi ti loda, è divenuto ora Non abbandonare ai rapaci la vita della tua tortora
secondo il Testo Masoretico.
Ancora, in Sal 22,22, la Bibbia CEI 2008 aggiunge, rispetto alla precedente, Tu mi hai risposto,
presente nel Testo Masoretico ed assente nei LXX.
2/ Si è preferito sostituire i termini italiani ritenuti obsoleti e non più di uso
corrente, sempre attenendosi, però, ad una fedeltà letterale e cercando di evitare parafrasi e
circonlocuzioni che facessero perdere la struttura grammaticale dell’originale.
Ad esempio vessillo è divenuto bandiera, monte è divenuto montagna,
empio è divenuto malvagio. Si è discusso se sostituire genti con i termini
nazioni o pagani, ma, infine, la traduzione di questo vocabolo è rimasta invariata.
3/ Ci si è attenuti il più possibile ad una traduzione che conservasse il medesimo termine
italiano per lo stesso vocabolo delle lingue originali, a meno che ragioni differenti non obbligassero a
procedere altrimenti.
Ad esempio, l’ebraico hesed era tradotto nella Bibbia CEI 1971-1974 con 6 diversi termini
(misericordia, grazia, fedeltà, bontà, amore,
benevolenza); la nuova versione lo traduce sempre con amore. Eterna è la sua
misericordia della CEI 1971-1974 è così divenuto Il suo amore è per sempre.
È il metodo delle cosiddette “equivalenze fisse” che rende più facilmente percepibile
il termine originario sottostante, ma indebolisce talvolta la scorrevolezza e la bellezza della traduzione,
rinunciando ai sinonimi. Solo in alcuni casi si è scelto di variare la traduzione di un termine.
4/ Sono stati corretti errori o imprecisioni messi in rilievo dal progredire degli studi esegetici. Ad
esempio, la ricerca biblica ha ormai stabilito con chiarezza che la riflessione cristologica della Lettera agli
Ebrei sottolinea che Gesù è misericordioso e degno di fede e non semplicemente
misericordioso e fedele (Eb 2,17).
Nella Bibbia CEI 2008 sono state inoltre aggiunte alcune note esplicative al testo, per facilitarne la
comprensione. Esse, però, non sono state passate al vaglio né dell’episcopato italiano
né della Santa Sede, come è invece avvenuto per la traduzione, e sono perciò pubblicate
esclusivamente sotto la responsabilità della Segreteria Nazionale della CEI.
La traduzione CEI (Conferenza Episcopale Italiana) del 1971-1974
Nel 1965, a seguito delle esigenze poste dalla riforma liturgica voluta dal Concilio Vaticano II, la CEI diede
inizio ai lavori per la realizzazione di una nuova traduzione della Bibbia che fu pubblicata nel 1971 ed in una
seconda edizione rivista nel 1974.
In realtà, non si trattò di una nuova traduzione dai testi originali, ma di una revisione della
Bibbia edita dalla UTET nel 1963, a cura di P. Rossano, A. Penna ed E. Galbiati. La revisione del testo fu
affidata ad un gruppo di biblisti e italianisti sotto la guida del cardinal E. Florit.
La traduzione del 1974, nata per un uso eminentemente liturgico, è poi divenuta il testo più
diffuso in Italia ed il più utilizzato anche nell’ambito dello studio teologico e della vita
spirituale.
Dalla seconda edizione della Bibbia CEI del 1974 sono tratti i testi delle pericopi bibliche dei Lezionari
liturgici e della Liturgia delle ore che sono stati fino ad oggi in uso.
La revisione della Bibbia CEI del 2008
La Santa Sede, già nel 1965, avviò una revisione della Vulgata latina di San Girolamo. Nel
1986 si giunse alla pubblicazione della Nova Vulgata Bibliorum Sacrorum Editio, editio typica
altera (Nova Vulgata), dichiarata typica, in particolare per l’uso liturgico.
Questa circostanza, unita alle esigenze di miglioramenti emerse dallo studio dei biblisti e
dall’esperienza nell’uso dei lezionari liturgici, hanno condotto la CEI alla decisione di
provvedere ad una revisione della traduzione italiana alla luce del testo della Nova Vulgataeditio
altera, migliorando nel contempo la qualità della traduzione stessa.
Il lavoro di revisione fu affidato ad un gruppo di lavoro guidato successivamente dai vescovi G. Costanzo
(1988-1991), W. Egger (1991-1994), F. Festorazzi (1994-2000) e composto da biblisti, liturgisti, italianisti e
musicisti. Il lavoro fu orientato da indicazioni e criteri stabiliti dalla CEI ed, in seguito, poté
avvalersi delle indicazioni dell’Istruzione Liturgiam authenticam (2001) relativa alla traduzione
dei testi liturgici, che invita a rivedere i testi biblici utilizzati nell’azione liturgica in base ai
testi originali presupposti dalla NovaVulgata.
La traduzione fu inviata poi a tutto l’episcopato italiano per ulteriori suggerimenti. Due terzi delle
osservazioni pervenute attraverso questa consultazione furono accolte ed un gruppo di vescovi guidato da mons.
A. Caprioli ebbe l’incarico di valorizzare le correzioni proposte. L’allora segretario generale
della CEI, mons. Giuseppe Betori, partecipò a tutti questi lavori.
Il testo, una volta approvato dall’Assemblea generale della CEI praticamente all’unanimità,
fu inviato presso la Congregazione per il culto per la recognitio delle pericopi liturgiche. Il Santo
Padre Benedetto XVI richiese la recognitio totale del testo.
Il primo esemplare dell’editio princeps della nuova traduzione fu infine donato al Papa il 29
maggio 2008.
Nel corso dei lavori di revisione si è tenuto conto anche di apporti di carattere ecumenico e
interreligioso. In particolare è stato chiesto un confronto sulla traduzione del Nuovo Testamento alla
Federazione delle Chiese Evangeliche d’Italia; altre osservazioni, relative alla traduzione del
Pentateuco, sono state richieste alla presidenza dell’Assemblea dei Rabbini d’Italia.
Bibbia CEI 1971-1974
«Eppure l’hai fatto poco meno degli angeli,
di gloria e di onore lo hai coronato».
Bibbia CEI 2008
«Davvero l’hai fatto poco meno di un dio,
di gloria e di onore lo hai coronato».
Nella Bibbia CEI 2008 si è scelto il Testo Masoretico che ha la lezione heloim, dio. La
Bibbia CEI 1971-1974 traduceva dal greco dei LXX nella quale si trova il termine aggelous,
angeli. Probabilmente la versione greca già conosce la lezione ebraica, ma preferisce attenuarne
la forza, scegliendo il paragone dell’uomo con gli angeli piuttosto che con il plurale divino.
Bibbia CEI 1971-1974
«Pietà di me, o Dio, secondo la tua misericordia,
nella tua grande bontà cancella il mio peccato».
Bibbia CEI 2008
«Pietà di me, o Dio, nel tuo amore (hesed);
nella tua grande misericordia (rahamim)
cancella la mia iniquità».
Il termine hesed, nella Bibbia CEI 2008, è sempre tradotto con amore, mentre
rahamim è tradotto con misericordia.
Bibbia CEI 1971-1974
«E non ci indurre in tentazione».
Bibbia CEI 2008
«E non ci abbandonare alla tentazione».
I termini antichi eisfèrein greco ed inducere latino avevano un significato concessivo
(non lasciar entrare), mentre il termine indurre in italiano si è sovraccaricato di una
connotazione volitiva giungendo a significare introdurre, spingere dentro. Nella versione della
Bibbia CEI 2008 si è, perciò, scelta l’espressione non ci abbandonare alla per
rendere la frase più aderente al testo originale. La nuova versione lascia aperta
l’interpretazione se la preghiera in questione abbia di mira l’essere preservati dall’entrare
nella tentazione o piuttosto l’essere soccorsi quando si è nella tentazione.
Bibbia CEI 1971-1974
«Entrando da lei, disse: “Ti saluto, o piena di grazia, il Signore è con
te”».
Bibbia CEI 2008
«Entrando da lei disse: “Rallégrati, piena di grazia: il Signore è con
te” ».
La nuova versione della Bibbia CEI 2008 traduce con tutta la forza espressiva il chaire greco che non
è un semplice saluto, ma un invito alla gioia.
Bibbia CEI 1971-1974
«Allora Maria disse all’angelo: “Come è possibile? Non conosco
uomo”».
Bibbia CEI 2008
«Allora Maria disse all’angelo: “Come avverrà questo, poiché non conosco
uomo?”».
La nuova versione, in piena fedeltà all’originale greco pōs estai touto, riesce a
differenziare la domanda di Maria da quella che esprimerebbe una persona incredula. Maria si interroga non
sulla realtà dell’evento annunciato dall’angelo, ma piuttosto sul modo della sua
realizzazione.
Bibbia CEI 1971-1974
«Perché mi hai veduto, hai creduto: beati quelli che pur non avendo visto
crederanno!».
Bibbia CEI 2008
«Perché mi hai veduto, tu hai creduto; beati quelli che non hanno visto e hanno
creduto!».
La versione della Bibbia CEI 2008 traduce correttamente l’aoristo pisteusantes. Il verbo al
passato fa riferimento a coloro che hanno già creduto all’annuncio della Maddalena che ha visto il
Signore. La traduzione non elimina la beatitudine di coloro che crederanno in seguito, ma la fonda su quella
già ricevuta dagli apostoli.
Bibbia CEI 1971-1974
«E se anche distribuissi tutte le mie sostanze e dessi il mio corpo per esser bruciato, ma non
avessi la carità, niente mi giova».
Bibbia CEI 2008
«E se anche dessi in cibo tutti i beni e consegnassi il mio corpo per averne vanto, ma non avessi
la carità, a nulla mi servirebbe».
Nella Bibbia CEI 2008 si è scelta, probabilmente a torto, la lectio difficilior che contiene il
verbo kauchēsōmai, avere vanto al posto di kauthēsomai, essere
bruciato. La scelta testuale indebolisce l’argomentare di Paolo che propone azioni apparentemente
perfette, ma vuote se prive della carità: nella lectio scelta il vanto rende già evidente
la falsità del gesto compiuto, senza bisogno alcuno di chiamare poi in causa la carità.
Bibbia CEI 1971-1974
«[1p] Poi il re fece scrivere queste cose nelle cronache e anche Mardocheo le mise in iscritto. [1q] Il
re costituì Mardocheo funzionario della corte e gli fece regali in compenso di queste cose. [1r] Ma vi
era anche Amàn figlio di Hammedàta, l’Agaghita, che era potente davanti al re e
cercò il modo di far del male a Mardocheo e al suo popolo per l’affare dei due eunuchi del re.
1Al tempo di Assuero, di quell’Assuero che regnava dall’India fino all’Etiopia
sopra centoventisette province, 2in quel tempo, dunque, il re Assuero che sedeva sul trono del suo
regno nella cittadella di Susa, 3l’anno terzo del suo regno fece un banchetto a tutti i suoi
principi e ai suoi ministri. I capi dell’esercito di Persia e di Media, i nobili e i governatori delle
province furono riuniti alla sua presenza».
Bibbia CEI 2008
TESTO GRECO
«[1p] Poi il re fece scrivere questi fatti nelle cronache e anche Mardocheo li mise per iscritto. [1q] Il
re costituì Mardocheo funzionario della corte e gli fece regali in compenso di queste cose. [1r] Ma vi
era anche Aman figlio di Amadàta, il Bugeo, che era molto stimato presso il re e cercò il modo di
far del male a Mardocheo e al suo popolo, per questa faccenda che riguardava i due eunuchi del re.
1Dopo queste cose, al tempo di Artaserse - quell’Artaserse che regnava dall’India sopra
centoventisette province -, 2proprio in quel tempo il re Artaserse, che regnava nella città
di Susa, 3l’anno terzo del suo regno fece un banchetto per gli amici e per quelli delle altre
nazionalità, per i nobili dei Persiani e dei Medi e per i prefetti delle province».
TESTO EBRAICO
«1Al tempo di Assuero, di quell’Assuero che regnava dall’India fino
all’Etiopia sopra centoventisette province, 2in quel tempo, dunque, il re Assuero che sedeva
sul trono del suo regno nella cittadella di Susa, 3l’anno terzo del suo regno fece un
banchetto a tutti i suoi prìncipi e ai suoi ministri. I capi dell’esercito di Persia e di Media, i
nobili e i governatori delle province furono riuniti alla sua presenza».
La Bibbia CEI 2008 ha scelto di presentare in parallelo le due forme testuali del libro di Ester che la
tradizione ha trasmesso, annotando che «il testo greco di Ester è stampato nella parte
superiore della pagina per segnalare la sua preminenza nella liturgia della Chiesa cattolica».
La decisione di proporre le due versioni è motivata – afferma una nota al testo – dalla
«convinzione generale nella Chiesa che tutte e due le forme testuali del libro di Ester, la greca
e l’ebraica, sono ispirate». La versione più lunga dei LXX, infatti, è stata sempre
utilizzata dalle Chiese d’Oriente ed essa era in uso anche nella Chiesa latina, fino alla Vulgata
di Gerolamo. Egli tradusse, invece, il testo ebraico più breve e mise in appendice gli ampliamenti del
greco (che sviluppano il tema della presenza di Dio nella storia e della preghiera che a Lui si rivolge).
In diverse edizioni recenti, le sei aggiunte di Ester greco erano state nuovamente trasferite nel loro
contesto logico. La volontà di mantenere, però, anche le peculiarità del testo ebraico
aveva costretto a ricostruire un testo che non seguiva alla lettera né l’ebraico, né il
greco, ma, ove necessario, operava una sintesi fra i due. Anche la Bibbia CEI 1971-1974 aveva scelto questa
soluzione.
Bibbia CEI 1971-1974
«9Il timore del Signore è gloria e vanto,
gioia e corona di esultanza.
10Il timore del Signore allieta il cuore
e dà contentezza, gioia e lunga vita» (Sir 1,9-10).
Bibbia CEI 2008
«11Il timore del Signore è gloria e vanto,
gioia e corona di esultanza.
12Il timore del Signore allieta il cuore
dà gioia, diletto e lunga vita.
Il timore del Signore è dono del Signore,
esso conduce sui sentieri dell’amore» (Sir 1,11-12).
Il testo originale ebraico del Siracide, escluso dal canone rabbinico quando esso si fissò
definitivamente sul finire del I secolo d.C. e, conseguentemente, non più letto in sinagoga, un
po’ alla volta andò perduto. Si conservò, invece la precedente versione greca dei LXX in
due recensioni, una detta testo breve ed una conosciuta come testo lungo. Alla fine del XIX
secolo sono stati riportati alla luce ampi brani dell’originale ebraico, rinvenuti in una sinagoga del
Vecchio Cairo, a cui si sono aggiunte altre sezioni recuperate a Qumran ed a Masada. Attualmente non si
possiede, comunque, l’intero libro in ebraico.
Nella Bibbia CEI 2008 si è scelto di tradurre il testo greco lungo del Siracide, segnalando in corsivo i
versetti che sono, invece, assenti nel testo greco breve del libro.
La scelta del testo greco lungo della Bibbia CEI 2008 dipende dalla decisione di attenersi in questo alla
Nova Vulgata che segue, appunto, tale recensione, conformandosi alla tradizione della Vetus
latina e della Vulgata. Si è preferito, però, attenersi, per quel che riguarda le
singole lezioni, all’edizione critica curata da J. Ziegler.
La Bibbia CEI 1971-1974 seguiva, invece, il testo greco breve che è ritenuto, da taluni studiosi,
più autorevole dal punto di vista critico.
Al termine del percorso espositivo viene presentato ai visitatori un pannello con un’espressione dell’attore e regista Roberto Benigni ed, infine, il Riassunto del Messaggio al popolo di Dio del Sinodo dei vescovi 2008 su La Parola di Dio nella vita e nella missione della Chiesa.
La Bibbia è il libro più venduto e più letto da tutti, anche perché, quando si sanno i gusti dei lettori... La Bibbia, infatti, è l’unico libro in cui l’autore del libro è anche l’autore dei lettori!
Roberto Benigni
Città del Vaticano, venerdì, 24 ottobre 2008.
Cari Fratelli e Sorelle,
“che in ogni luogo invocate il nome del Signore nostro Gesù Cristo, grazia a voi e pace da Dio
Padre nostro e dal Signore Gesù Cristo!” (1 Cor 1,2-3). È col saluto dell’Apostolo
Paolo - in quest’anno a lui dedicato - che noi, Padri Sinodali riuniti a Roma per la XII Assemblea
Generale del Sinodo dei Vescovi col Santo Padre Benedetto XVI, indirizziamo a voi un messaggio di ampia
riflessione e proposta sulla Parola di Dio che è stata al centro dei lavori della nostra assemblea.
È un messaggio che affidiamo innanzitutto ai vostri pastori, ai tanti e generosi catechisti e a tutti
coloro che vi guidano nell'ascolto e nella lettura amorosa della Bibbia. A voi ora vogliamo delineare
l’anima e la sostanza di quel testo perché cresca e si approfondisca la conoscenza e l’amore
per la Parola di Dio. Quattro sono i punti cardinali dell’orizzonte che vogliamo invitarvi a conoscere e
che esprimeremo attraverso altrettante immagini.
Ecco innanzitutto la Voce divina. Essa risuona alle origini della creazione, spezzando il silenzio del
nulla e dando origine alle meraviglie dell’universo. È una Voce che penetra poi nella storia,
ferita dal peccato umano e sconvolta dal dolore e dalla morte. Essa vede anche il Signore in cammino con
l’umanità per offrire la sua grazia, la sua alleanza, la sua salvezza. È una Voce che
scende poi nelle pagine delle Sacre Scritture che noi ora leggiamo nella Chiesa con la guida dello Spirito
Santo che ad essa e ai suoi pastori è stato donato come luce di verità.
Inoltre, come scrive S. Giovanni, “la Parola si fece carne” (1,14). Ecco, allora, apparire il
Volto. È Gesù Cristo, che è Figlio del Dio eterno e infinito, ma anche uomo mortale,
legato a un'epoca storica, a un popolo e a una terra. Egli vive l’esistenza faticosa
dell’umanità fino alla morte, ma risorge glorioso e vive per sempre. È lui che rende
perfetto il nostro incontro con la Parola di Dio. È lui che ci svela il “senso pieno” e
unitario della Sacre Scritture per cui il Cristianesimo è una religione che ha al centro una persona,
Gesù Cristo, rivelatore del Padre. È lui che ci fa capire che anche le Scritture sono
“carne”, cioè parole umane da comprendere e studiare nel loro modo di esprimersi, ma che
custodiscono al loro interno la luce della verità divina che solo con lo Spirito Santo possiamo vivere e
contemplare.
È lo stesso Spirito di Dio a condurci al terzo punto cardinale del nostro itinerario, la Casa della
parola divina, cioè la Chiesa, che, come ci suggerisce san Luca (At 2,42), è sorretta da
quattro colonne ideali. C’è “l'insegnamento”, cioè il leggere e il
comprendere la Bibbia nell’annunzio fatto a tutti, nella catechesi, nell’omelia, attraverso una
proclamazione che coinvolga mente e cuore. C’è, poi, “la frazione del pane”,
cioè l’Eucaristia, fonte e culmine della vita e della missione della Chiesa. Come accadde in quel
giorno a Emmaus, i fedeli sono invitati a nutrirsi nella liturgia alla mensa della Parola di Dio e del Corpo di
Cristo. Una terza colonna sono le “preghiere” con “salmi, inni, e cantici
spirituali” (Col 3,16). È la Liturgia delle Ore, preghiera della Chiesa destinata a ritmare i
giorni e i tempi dell’anno cristiano. C’è anche la Lectio divina, la lettura orante
delle Sacre Scritture capace di condurre, nella meditazione, nell’orazione, nella contemplazione,
all’incontro col Cristo, parola di Dio vivente. E, alla fine, ecco la “comunione
fraterna” perché per essere veri cristiani non basta essere “coloro che ascoltano la
parola di Dio” ma anche che “la mettono in pratica” nell’amore operoso (Lc 8,21). Nella
casa della parola di Dio noi incontriamo anche i fratelli e le sorelle delle altre Chiese e comunità
cristiane che, pur nelle separazioni, vivono una reale unità, sebbene non piena, attraverso la
venerazione e l’amore per la Parola divina.
Giungiamo, così, all’ultima immagine della mappa spirituale. È la strada su cui
s’incammina la parola di Dio: “Andate e fate discepoli tutti i popoli, insegnando loro ad
osservare ciò che vi ho comandato… Quello che ascoltate all’orecchio predicatelo sulle
terrazze” (Mt 28,19-20; 10,27). La parola di Dio deve correre per le strade del mondo che oggi sono anche
quelle della comunicazione informatica, televisiva e virtuale.
La Bibbia deve entrare nelle famiglie, perché genitori e figli la leggano, con essa preghino e
sia per loro una lampada per i passi nel cammino dell’esistenza (cfr. Sal 119,105). Le Sacre Scritture
devono entrare anche nelle scuole e negli ambiti culturali perché per secoli sono state il
riferimento capitale dell’arte, della letteratura, della musica, del pensiero e della stessa etica
comune. La loro ricchezza simbolica, poetica e narrativa le rende un vessillo di bellezza sia per la fede
sia per la stessa cultura, in un mondo spesso sfregiato dalla bruttezza e dalle brutture.
La Bibbia, però, ci presenta anche il respiro di dolore che sale dalla terra, va incontro al
grido degli oppressi e al lamento degli infelici. Essa ha al vertice la croce ove Cristo, solo e abbandonato,
vive la tragedia della sofferenza più atroce e della morte. Proprio per questa presenza del Figlio di
Dio, l’oscurità del male e della morte è irradiata dalla luce pasquale e dalla speranza
della gloria.
Lungo le strade del mondo incontriamo spesso uomini e donne di altre religioni che ascoltano e praticano
fedelmente i dettami dei loro libri sacri e che con noi possono edificare un mondo di pace e di luce,
perché Dio vuole che “tutti gli uomini siano salvati e giungano alla conoscenza della
verità” (1 Tim 2,4).
Cari fratelli e sorelle, custodite nelle vostre case la Bibbia, leggete, approfondite e comprendete
pienamente le sue pagine, trasformatele in preghiera e testimonianza di vita, ascoltatela con amore e fede
nella liturgia. Create il silenzio per ascoltare con efficacia la Parola del Signore e conservate il silenzio
dopo l’ascolto, perché essa continuerà a dimorare, a vivere e a parlare a voi. Fatela
risuonare all’inizio del vostro giorno perché Dio abbia la prima parola e lasciatela echeggiare in
voi alla sera perché l’ultima parola sia di Dio.
“Vi affidiamo a Dio e alla parola della sua grazia” (At 20,32). Con la stessa espressione di
San Paolo nel suo discorso d’addio ai capi della Chiesa di Efeso, anche noi Padri Sinodali affidiamo i
fedeli delle comunità sparse sulla faccia della terra alla parola divina che è anche giudizio ma
soprattutto grazia, che è tagliente come una spada ma che è dolce come un favo di miele. Essa
è potente e gloriosa e ci guida sulle strade della storia con la mano di Gesù che anche voi come
noi “amate con amore incorruttibile” (Ef 6,24).