Nella presentazione di questi due contributi moderni sull’elaborazione delle norme islamiche non abbiamo sempre potuto uniformare la traslitterazione dei termini arabi. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la messa a disposizione on-line di questo testo non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto.
G.Amico
“Il reato di apostasia e la sua sanzione con la morte
dell’apostata, che vengono presentati come fondati su una lunga tradizione
nell’islam, non hanno in realtà un fondamento islamicamente accettabile. Non
trovano fondamento nel Corano e nella sunna, né vi sono hadith che li giustifichino.
Neppure la storia dei primi anni dell’impero islamico autorizza una simile
interpretazione” ha scritto recentemente Samir Khalil Samir.
“L’esame delle fonti lascia sussistere un dubbio sull’autenticità
della tradizione relativa al bando dei non musulmani (dalla penisola arabica). Ma, se si
ammette che Maometto ha potuto, prima di morire, raccomandare ai suoi Compagni di vegliare
sull’unità religiosa e politica dell’Arabia, sembra più plausibile
che egli abbia pensato ai gruppi rimasti ancora politeisti (e non ai cristiani o agli ebrei con
i quali invece aveva stretto un patto, permettendo loro di restare e di praticare la loro
religione nella penisola arabica)” ha sostenuto André Ferré.
Con questa rassegna dei due contributi di K.Samir e di A.Ferré vogliamo non solo
gettare uno sguardo su due temi di grande attualità – se un musulmano che decida
oggi di convertirsi ad un altra religione debba essere perseguito o debba essere rispettato
nella sua libertà e se un non islamico immigrato nella penisola arabica che desidera
pregare il proprio Dio debba esserne impedito o ne abbia facoltà – ma anche
mostrare le problematiche che presiedono all’elaborazione di un precetto islamico.
Il primo testo cui facciamo riferimento, scritto da Samir Khalil Samir, S.J.,
porta il titolo L’apostasia nel Corano e il dibattito tra i musulmani[1].
Ecco di seguito il testo del gesuita sulla questione della pena prevista per
l’apostasia, cioè l’abbandono della fede islamica con il passaggio ad
un’altra religione.
Il termine che abitualmente viene utilizzato in arabo per definire la
situazione di un musulmano che rinnega l’islam è riddah o irtidad. Chi si rende
responsabile di questa scelta è chiamato murtadd, apostata. Una larga parte
dell’opinione pubblica musulmana ritiene che l’apostata debba essere ucciso in
virtù di ciò che viene definito “il castigo dell’apostasia”,
hadd al-riddah. Nei secoli questa convinzione si è radicata a tal punto che, talvolta,
per poter giustificare l’eliminazione di qualcuno, lo si accusava – e tuttora lo si
accusa – di apostasia.
Il problema è tornato di stringente e drammatica attualità negli ultimi
decenni sull’onda del cosiddetto “risveglio islamico”, per il fatto che i
musulmani radicali hanno rivalutato questa pena e chiedono di applicarla a coloro che si
convertono al cristianesimo o ad altre fedi religiose, oppure diventano a loro giudizio dei
rinnegati. Ho ricostruito una bibliografia provvisoria di ventuno scritti recenti di autori
siriani, giordani, egiziani, sudanesi, pakistani e iraniani, o di musulmani residenti in
Occidente. La novità sta nel fatto che la questione è dibattuta ormai non solo
tra specialisti del fiqh, il diritto islamico, ma anche sui mass media. Gli autori sono
pensatori musulmani credenti, ma non necessariamente giuristi.
La vicenda dei “Versetti satanici” di Salman Rushdie ha fatto da detonatore
assumendo improvvisamente una dimensione mondiale, a motivo dell’accusa di apostasia
lanciata con una fatwa dal grande ayatollah Khomeini, che ha esposto lo scrittore anglo-indiano
al rischio di morte. Altri casi hanno avuto una ripercussione più o meno locale, come
quello della scrittrice del Bangladesh Taslima Nasreen, accusata nel 1994 di offesa alla
religione e costretta prima a vivere in clandestinità e poi a riparare in Occidente. In
Egitto ricordiamo l’assassinio nel 1992 dell’intellettuale Farag Foda e il fallito
attentato nel 1995 contro il premio Nobel per la letteratura Naghib Mahfouz, entrambi opera di
gruppi radicali che li accusavano di apostasia. Ancora più significativa è la
vicenda che ha coinvolto il docente universitario Nasr Hamid Abu Zayd, condannato per apostasia
nel 1995 da un tribunale del Cairo per aver proposto un’interpretazione
storico-razionalista del Corano. In conseguenza di questa decisione è stato decretato lo
scioglimento del suo matrimonio, in quanto alla donna musulmana non è permesso mantenere
il legame coniugale con un apostata. Temendo di essere ucciso da qualche fanatico, ha scelto di
emigrare nei Paesi Bassi dove attualmente vive con la consorte. Sempre in Egitto,
l’accusa di apostasia è stata scagliata nel 2001 contro Nawal al-Saadawi da un
avvocato radicale islamico.
I casi accennati sono relativi ad accuse di tradimento della religione musulmana. Ma non
meno significative sono le vicende di conversione dall’islam ad altre fedi religiose, in
particolare al cristianesimo. Dietro l’intera materia si stagliano alcune questioni di
fondo: la libertà di coscienza, il rapporto tra religione e politica nelle
società musulmane e, in ultima analisi, la concezione stessa dell’islam: è
possibile pensare un islam “laico”, in cui religione e stato siano
distinti?
Il problema è aggravato dal fatto che l’apostasia sembra configurarsi come un
reato nel quadro dell’interpretazione tradizionale dell’islam fondata sul Corano e
sulla sunna, la tradizione islamica. Rimettere ciò in discussione equivale a scuotere le
fondamenta stesse dell’islam. Anzi, siccome questo reato viene descritto – secondo
i fondamentalisti – nel Corano stesso e negli hadith, i detti del profeta, rimetterlo in
discussione equivale ad arrecare un’offesa al valore assoluto del Corano, concepito come
sistema che governa tutta la vita del credente, anche in ambito civile. L’apertura della
più piccola breccia rischierebbe di far crollare tutto l’edificio intellettuale
dei fondamentalisti, divenuti sempre più influenti nelle società islamiche.
Criticare questo hadd, questa prescrizione penale del Corano, in nome della modernità
equivale a dichiarare implicitamente che il libro sacro non è più valido per i
musulmani – e a maggior ragione per i non musulmani – in epoca moderna.
Sia i radicali che i liberali espongono le loro argomentazioni a partire
dal Corano. In esso si trovano due termini per indicare l’apostasia: irtadda e al-kufr
ba’d al-islam.
Il primo termine, irtadda, significa rinnegare, tornare sui propri passi, e compare in tre
versetti. Uno dei più citati è quello della sura della Vacca, 2,217:
“Quanto poi a quelli di voi che rinnegano la fede e muoiono da miscredenti, vane saranno
le loro opere in questo mondo e nell’altro: finiranno nel fuoco e vi resteranno per
sempre”. Gli altri due passi sono la sura della Mensa 5,54 e la sura di Maometto
47,25.
Il secondo termine, al-kufr ba’d al-islam, significa rinnegamento, incredulità
o miscredenza dopo aver aderito all’islam. Si riscontra nel Corano undici volte. Il
più citato e discusso è questo versetto della sura del Pentimento 9,74:
“Giurano per Dio di non aver detto nulla, eppure hanno parlato da miscredenti e dopo aver
abbracciato l’islam l’hanno rinnegato. Hanno cercato di attuare un piano che non
è loro riuscito, e se l’hanno poi sconfessato è stato solo perché
Dio, insieme al suo Messaggero, li ha arricchiti dei suoi favori. Se si convertiranno,
sarà meglio per loro; se invece volteranno le spalle, Dio li punirà con un
castigo doloroso in questo mondo e nell’altro; e qui in terra non avranno patroni
né difensori”. Gli altri passi sono nella sura della Vacca (2,108-109 e
2,161-162), nella sura della Famiglia di Imran (3,90-91 e 3,177), nella sura delle Donne (4,137
e 4,167), nella sura della Mensa (5,73), nella sura del Pentimento (9,66), nella sura delle Api
(16,106) e nella sura del Discrimine (25,55).
Quale punizione prevede dunque il Corano, per gli apostati? Dei quattordici passi che vi
alludono, solo sette parlano di “castigo”, e sempre in riferimento a qualcosa che
avverrà nell’aldilà, mai durante la vita. In un caso (2, 217) si parla del
fuoco eterno; in un altro (2,161) della “maledizione di Dio, degli angeli e degli uomini
tutti insieme”; e in quattro casi (3,91; 3,177; 5,73 e 16,106) di “castigo
doloroso”. In un solo versetto, nella sura del Pentimento citata sopra (9,74), viene
prescritto “un castigo doloroso in questo mondo e nell’altro”. Tutti i
commentatori riconoscono la vaghezza di questa prescrizione rispetto alle altre pene coraniche.
Infatti, mentre per il furto o per l’adulterio il Corano indica la punizione con estrema
precisione (ad esempio, il numero dei colpi di frusta), c’è da stupirsi che per un
reato tanto grave come l’apostasia parli soltanto di “un castigo doloroso in questo
mondo e nell’altro”.
Anche gli islamisti radicali riconoscono che il Corano non è esplicito sul castigo
dell’apostata. Uno tra gli intellettuali radicali più rappresentativi, Muhammad
Salim al-’Awwa, scrive: “I santi versetti non fanno allusione, né da vicino
né da lontano, a un castigo in questo mondo prescritto dal Corano contro chi avrebbe
apostatato dall’islam. La sola eccezione è il versetto 74 della sura del
Pentimento, che contiene la minaccia di una tortura dolorosa in questo mondo e
nell’aldilà. Ciononostante, questo versetto non ci è utile per determinare
il castigo dell’apostasia, perché parla del rinnegamento, kufr, degli ipocriti
dopo aver abbracciato l’islam. Ora si sa che non è previsto alcun castigo in
questo mondo per gli ipocriti, poiché non manifestano il loro kufr ma lo negano e
nascondono. Le prescrizioni giuridiche nel sistema musulmano si applicano, infatti, solamente
alle apparenze degli atti e delle parole, non a quanto nascondono i cuori e celano le
coscienze. [...] Da ciò che precede concludiamo che il sacro Corano non ha precisato un
castigo in questo mondo per l’apostasia; ma i versetti che fanno menzione
dell’apostasia prefigurano una minaccia di un castigo dell’apostata
nell’altro mondo” .
I musulmani di orientamento liberale hanno pubblicato, negli ultimi anni, vari libri che
condannano il ricorso a procedimenti giudiziari contro gli apostati. Segnalo, ad esempio,
quello dello sceicco egiziano Ahmad Subhi Mansur, intitolato “Il castigo
dell’apostasia”, e il libro del siriano Adlabi, intitolato “L’uccisione
dell’apostata”. Molte altre prese di posizione vanno nella stessa direzione. E
tutti partono del Corano per affermare che esso contiene un orientamento generale favorevole
alla libertà religiosa.
I liberali citano anzitutto il fatto che il Corano critica ogni costrizione religiosa. Sono
tre i passi più citati in proposito, anche negli incontri tra musulmani e
cristiani.
Sura della Vacca 2,256: “Non vi sia costrizione nella religione! La retta via ben si
distingue dall’errore”.
Sura di Giona 10,99-10: “Se il tuo Signore l’avesse voluto, tutti gli abitanti
della terra avrebbero creduto. E tu vorresti costringere gli uomini a diventar credenti?
Nessuno può credere senza il permesso di Dio”.
Sura della Caverna 18,29: “Di’: La verità viene dal vostro Signore: chi
vuole creda, chi non vuole non creda”.
Le due ultime sure citate sono meccane, corrispondenti cioè al periodo antecedente
l’Egira, la migrazione di Maometto a Medina. Invece il primo testo, quello più
famoso, risale all’inizio del periodo medinese, dunque dopo l’Egira, ed è
databile attorno all’anno 623.
Questo dettaglio non è privo di importanza. Infatti la tradizione musulmana ha
sviluppato la teoria dell’abrogante e dell’abrogato, al-nasikh wa-l-mansukh,
secondo la quale certi versetti rivelati al Profeta ne avrebbero abrogati altri rivelati in
precedenza. Il punto è sapere se questi tre versetti a favore della libertà
religiosa sono stati abrogati oppure no da qualcuno dei quattordici versetti che parlano
dell’apostasia, e in particolare da quello più specifico (sura del Pentimento
9,74) che parla di una punizione dell’apostata sia nell’aldilà sia in questo
mondo. L’abrogazione è stata talvolta sostenuta da grandi giuristi del passato, in
particolare da Ibn Hazm di Cordoba (994-1063), che appartiene alla rigida scuola giuridica
hanbalita.
In epoca più recente, l’ex sceicco di al-Azhar, Muhammad Shalabi, commentando
Ibn Hazm, ha scritto: “Noi non costringiamo l’apostata a ritornare all’islam,
per non contraddire la parola di Dio: ‘Nessuna costrizione in materia di
religione’. Ma gli lasciamo l’opportunità di ritornare, volontariamente,
senza costrizione. Se non ritorna deve essere ucciso, perché è strumento di
sedizione, fitnah, e perché apre la porta ai miscredenti, kafir, per attaccare
l’islam e seminare il dubbio tra i musulmani. L’apostata è quindi in guerra
dichiarata contro l’islam, anche se non alza la spada di fronte ai
musulmani”.
Shalabi intende dire che il “versetto della non-costrizione” non è stato
abolito; ma che l’apostata deve essere ucciso ugualmente, in nome di un altro brano
coranico, quello della sedizione, fitnah, che viene oggi chiamato dai musulmani radicali
“il versetto della spada”, ayat al-sayf, sura della Vacca 2,191-193. Ecco cosa
dice: “Uccideteli ovunque li incontriate e scacciateli da dove hanno scacciato voi,
poiché la sovversione, fitnah, è peggiore dell’uccisione. Non combatteteli
però presso il Sacro Tempio, a meno che non vi attacchino per primi: in tal caso,
uccideteli. Ecco la ricompensa dei miscredenti! Ma se desistono, sappiate che Dio è
indulgente e misericordioso. Combatteteli dunque finché non ci sia più
sovversione, e la religione sia quella di Dio. Se desistono, non ci siano più
ostilità se non contro gli iniqui”.
Dunque, salvo poche eccezioni, i commentatori – anche quelli vicini alle posizioni
più radicali – concordano nel dire che i tre versetti a sostegno della
libertà religiosa non sono stati abrogati.
È questo che induce i musulmani liberali a sostenere che la linea principale del
Corano è favorevole alla libertà di coscienza. Se il Corano parla talvolta
dell’apostata, ciò non può opporsi alla linea generale, ma deve essere
compreso in questo quadro globale, che è di tolleranza.
Ma allora, su che cosa si basa la pratica tradizionale islamica, se il
Corano non stabilisce nessuna punizione specifica contro l’apostata?
Essa si basa su due detti, hadith, del Profeta, instancabilmente ripetuti dai radicali:
quello dell’imam Awza’i, e quello di ‘Ikrimah.
Entrambi questi hadith appartengono alla categoria degli hadith al-ahad, cioè dei
detti riferiti da una sola persona. In generale, gli ulema considerano non validi questi detti
nella definizione delle pene e dei castighi corporali, hudud. Tuttavia, lo sceicco radicale
egiziano Yusuf Al-Qaradawi, oggi uno dei più ascoltati nel mondo arabo, fa una difesa di
principio di questo tipo di detti trasmessi da un solo testimone, affermando che sono
ugualmente validi.
Su che cosa si basano, invece, coloro i quali sostengono che i due hadith non debbano
essere presi in considerazione? Riassumerò qui l’argomentazione di alcuni autori,
particolarmente quella dello sceicco Ahmad Subhi Mansur che, a mio avviso, ha fatto la migliore
analisi storica e giuridica degli hadith in questione.
Per ciò che riguarda l’hadith di Awza’i, Mansur dimostra che egli
fabbricò vari hadith per compiacere coloro che detenevano il potere. Nato a Baalbek nel
707, Awza’i era riuscito grazie alla sua abilità a introdursi nella corte di
Damasco, non lontano dalla sua città natale, diventando il giurista dei califfi
Omayyadi. Quando, nel 750, gli Abbassidi si impadronirono del potere e fecero il loro ingresso
a Damasco uccidendo tutti i dirigenti Omayyadi e i loro cortigiani, Awza’i fu
l’unico a uscire indenne da questo sanguinoso cambio della guardia. Possediamo il
racconto del suo incontro con il generale Abbasside, riportato dallo storico Ibn Kathir, dal
quale emerge la sua personalità opportunistica. È in questo contesto che
Awza’i cita il famoso hadith al-nafs bi-l-nafs, vita per vita, che egli fa risalire al
Profeta: “Il sangue di un musulmano non è lecito al di fuori di uno di questi tre
casi: la vita in cambio della vita, l’uomo sposato che commette adulterio, quello che
abbandona la sua religione e si separa dalla sua comunità”.
Secondo Awza’i, Maometto avrebbe dunque affermato che un musulmano può essere
ucciso solamente in uno di questi tre casi. Il primo risulta dall’applicazione della
legge del taglione: occhio per occhio, dente per dente, vita per vita. Il secondo, quello
dell’adulterio, è in contraddizione flagrante con il testo del Corano riportato
nella sura della Luce 24,2, che prevede esplicitamente una pena di cento frustate per
l’adultero, ma mai la pena di morte. Il terzo caso corrisponde
all’apostasia.
Richiamandosi a questo hadith – che si presenta senza nessuna catena di trasmissione,
cosa completamente insolita nella scienza musulmana della tradizione – gli Abbassidi
eliminarono i loro oppositori politici.
Aggiungo che nelle oltre 800 pagine della raccolta degli scritti di Awza’i,
recentemente pubblicata a Beirut, questo hadith non è riportato. In compenso, se ne
trova uno che parla di apostasia, anch’esso citato senza la pur minima catena di
trasmissione. Molto curiosamente, riguarda solo la donna. È il numero 1354: “A
proposito della donna, se si separa dall’islam, deve essere uccisa” .
Il secondo hadith a cui si rifanno i radicali, quello di ‘Ikrimah, dice: “Chi
cambia religione, uccidetelo”. Anch’esso si presenta poco attendibile.
‘Ikrimah, morto nel 723, era lo schiavo di ‘Abdallah Ibn ‘Abbas, cugino
di Maometto, e fu liberato dopo la morte del suo padrone. La sua fama deriva dal fatto che si
cimentò a trasmettere delle “tradizioni” attribuite a Ibn ‘Abbas, il
quale godeva di una grande autorità. Ma egli apparteneva al gruppo politico ribelle dei
Kharigiti ed è ricordato dagli scienziati degli hadith per la sua scarsa
credibilità e per la debolezza della catena di trasmissione da lui fornita: secondo la
sua abitudine, egli fa risalire questo suo hadith a Ibn ‘Abbas, al quale attribuisce
centinaia di detti. Inoltre, il contenuto stesso dell’hadith in questione non è in
conformità né con la tradizione, sunna, né con il Corano.
In conclusione, le due tradizioni sulle quali si appoggiano i radicali per giustificare la
condanna a morte dell’apostata sono entrambe molto discutibili.
Se dunque né il Corano né la sunna autorizzano
l’interpretazione dei radicali, su che cosa essa si fonda?
Tra gli argomenti dei musulmani radicali ve n’è uno di carattere storico. Esso
fa riferimento agli eventi noti nella storia musulmana con il nome di “guerre di
apostasia”.
I liberali sottolineano il fatto che Maometto non ha ucciso mai nessuno in nome del
“crimine di apostasia”. Per due volte, quando i suoi fedeli volevano uccidere un
rinnegato, Maometto intervenne per impedirlo.
Si sa che Maometto combatté molte guerre, diciannove secondo la biografia ufficiale
scritta da Ibn Hisham, non esitando ad uccidere i suoi nemici o coloro che si opponevano alla
sua missione. Se dunque ha negato per due volte l’uccisione di un rinnegato è
perché non considerava l’apostasia come un motivo che comporta una punizione nella
vita terrena. Questa è l’argomentazione dei musulmani liberali.
Le “guerre d’apostasia”, hurub al-riddah, invocate invece dai musulmani
radicali sono quelle condotte da Abu Bakr, il primo califfo, succeduto a Maometto dopo la sua
morte nel 632 e morto egli stesso due anni dopo. I fatti sono noti: alla morte di Maometto,
numerose tribù arabe già sottoposte allo stato di Medina fondato dal Profeta e
che gli pagavano un pesante tributo in segno di vassallaggio, ne approfittarono per non versare
più denaro e ottenere la libertà. Abu Bakr condusse una feroce guerra contro di
loro, per farli rientrare in seno all’islam. Questo atteggiamento venne criticato da
molti, in particolare dai primi compagni di Maometto, i Sahaba. Tuttavia, quando il califfo
riuscì nell’intento di riportare la maggioranza di queste tribù sotto la
sua dominazione, tutti si congratularono con lui. Per i contemporanei di Abu Bakr, come per gli
storici musulmani, queste guerre avevano uno scopo economico e politico. Abu Bakr ha combattuto
l’una dopo l’altra queste tribù per farle rientrare nel grembo del giovane
stato musulmano, e così rimpinguarne le casse.
Il suo successore Omar, morto nel 644, il primo califfo a portare il titolo di
“Comandante dei credenti”, non proseguì queste guerre. E il motivo era
chiaro: avendo egli già conquistato ampi territori bizantini e persiani, il ritorno di
qualche arabo ribelle avrebbe fruttato solamente un magro bottino. Anzi, la storia racconta che
questo califfo protesse un apostata di cui era stata chiesta la morte. Ciò mostra in
maniera evidente che queste guerre non avevano niente a che vedere con il problema
dell’apostasia, ma piuttosto con quello del ritorno delle tribù arabe al nuovo
impero.
Insomma, il reato di apostasia e la sua sanzione con la morte
dell’apostata, che vengono presentati come fondati su una lunga tradizione
nell’islam, non hanno in realtà un fondamento islamicamente accettabile. Non
trovano fondamento nel Corano e nella sunna, né vi sono hadith che li giustifichino.
Neppure la storia dei primi anni dell’impero islamico autorizza una simile
interpretazione.
Da dove trae origine allora quello che è diventato un luogo comune largamente
condiviso nel mondo islamico? I liberali sostengono che è un’invenzione dei
giuristi musulmani ed è stata promossa per motivi essenzialmente politici. Ma allora
– aggiungono – se questo reato è un problema politico, deve essere trattato
politicamente. Se l’apostasia è un rischio per la nazione – e se
l’apostata è giudicato alla stregua di un pericolo per lo stato, di uno strumento
di fitnah, sedizione – allora si tratta di un problema politico da affrontare in quanto
tale, non di un problema religioso che deve essere gestito dall’autorità
musulmana.
È evidente che, dietro tutto ciò, quel che è in gioco è la
libertà religiosa. E ciò va ben al di là dei casi di musulmani che si
fanno cristiani o che criticano l’islam. Riconoscere come reato l’apostasia
significa aprire le porte e offrire pretesto a ogni tipo di repressione esercitata dai gruppi
islamisti contro tutti quelli che non la pensano come loro. È, in definitiva, dare carta
bianca al terrorismo che vuole ammantare le sue gesta con una giustificazione
religiosa.
Ecco, in sintesi, alcuni aspetti problematici sollevati dal dibattito attuale sulla riddah,
dibattito che fortunatamente non sembra destinato a esaurirsi in un breve spazio di tempo.
È perciò importante che i paesi occidentali, i quali si sono fatti spesso
portavoce della difesa delle libertà, sostengano gli sforzi degli intellettuali
musulmani che si impegnano per conciliare la fede islamica con i diritti dell’uomo e che
lottano per un islam dal volto umano.
Fin qui il testo di Samir Khalil Samir.
Prima di passare al secondo contributo, vogliamo sottolineare le questioni metodologiche
aperte da questo breve saggio.
Esso ci mostra che, per comprendere il passaggio dalla lettera del Corano alle successive
norme legali islamiche, ogni studioso – sia esso musulmano o non musulmano – deve
affrontare il problema dell’interpretazione. Possiamo chiamare questa questione –
che, con le dovute differenze, è presente nella comprensione di ogni testo antico ed, in
specie, di ogni testo religioso – “questione ermeneutica” (dal greco
“ermeneuo”, “interpreto”).
Il problema interpretativo appare già nella semplice analisi dello stesso testo
Coranico. Tutte le Sure coraniche vanno considerate alla stessa stregua? Sono da porre sullo
stesso piano? Gli interpreti del Corano – ci mostra Samir Khalil Samir - abitualmente,
non procedono in questa maniera, ma ritengono le Sure del periodo successivo all’Egira
decisive per l’elaborazione del retto comportamento. In casi di divergenza fra le Sure
questo criterio può acquisire, in taluni interpreti, una tale rilevanza da ritenere
“superate” quelle del periodo più antico, nel senso che, sebbene esse siano
certamente da attribuire ad Allah, Egli le avrebbe rivelate per indicare a Maometto il giusto
comportamento specificamente per gli anni antecedenti all’Egira, da non estendersi sic et
simpliciter al periodo successivo ed alle generazioni a venire.
Questa distinzione nell’uso delle Sure ai fini dell’elaborazione di una norma non
appare a chi si limiti ad una semplice lettura consecutiva del Corano: esso dispone, infatti,
le Sure in ordine di grandezza, dalla più grande alla più piccola. E’ solo
la tradizione orale che suddivide cronologicamente le Sure, fornendo così anche un
importante criterio interpretativo di esse.
Vediamo la rilevanza di questa impostazione proprio in relazione alla questione trattata dal
testo di Samir Khalil Samir relativo alla famosa espressione: “Nessuna costrizione in
materia di religione”. La Sura di questo versetto appartiene al periodo anteriore
all’Egira.
Samir Khalil Samir mostra differenti correnti interpretative riguardo ad essa.
Per taluni essa, pur appartenendo alla “lettera” coranica, non può essere
presa nel suo significato più ovvio, come affermazione della libertà religiosa di
ognuno – e, quindi, della libertà di cambiare religione, di discutere di
religione, di annunciare una religione diversa da quella islamica – ma deve essere
ritenuta valida solo per il periodo precedente all’Egira. Dopo di allora varrebbero,
invece, le Sure più severe a questo riguardo, con le quali si arriva poi a giustificare
o, addirittura, ad esigere la condanna a morte dell’apostata, di colui, cioè, che
si vuole invece debba “essere costretto in materia di religione”.
Samir Khalil Samir ci mostra, poi, un secondo passaggio che deve essere considerato. Il
pensiero islamico non trae le sue norme solo dal Corano, ma ritiene conformi alla
volontà di Dio, e quindi da osservare, anche le indicazioni contenute nelle parole
pronunciate oralmente da Maometto e riferite non dal Corano, ma da Discepoli del Profeta
stesso. Queste affermazioni, dette “Hadith”, vengono ritenute vincolanti dagli
interpreti islamici, pur non appartenendo al Corano.
Quando un islamico, per spiegare cosa afferma la sua religione, si limitasse a citare il
Corano compirebbe un’operazione scorretta, perché non metterebbe il suo
ascoltatore in grado di comprendere quali sono le fonti del suo modo di procedere e di arrivare
a comprendere la volontà divina: infatti, l’Islam ritiene fonte di verità
non solo le Sure coraniche, ma anche gli hadith che affermano verità e precetti non
contenuti nel Corano stesso[2].
Samir Khalil Samir, analizzando il caso dei due hadith citati a sostegno della pena di morte
da riservare a coloro che abbandonano la fede islamica, mostra come i diversi
“hadith” non abbiano una autorità equivalente. Infatti la tradizione
islamica afferma che i “detti riferiti da un solo autore” – categoria alla
quale appartengono proprio gli hadith relativi alla pena dell’apostasia – possono
essere sottoposti a discussione rispetto a quelli ripetuti da più autori. In particolare
un atteggiamento prudente verso di essi - il non “prenderli per oro colato” - deve
essere accentuato se l’autore a cui è attribuita la trasmissione di
quell’hadith è noto alla tradizione islamica per non essere sempre
attendibile.
Pian piano si palesa così il problema interpretativo, nella sua attualità. Cosa
debba pensare l’Islam su di un tema così importante come la pena per
l’apostasia non è deducibile semplicemente dal Corano o dagli Hadith ma,
piuttosto, poiché tali affermazioni non sono chiare o non sono concordi, abbiamo bisogno
di una lettura interpretativa. Risulta ben diverso, così, affermare semplicemente che
l’apostasia è un peccato – come affermano la fede ebraica o cristiana - e
che Dio la punirà nel mondo a venire, dal concludere da ciò che essa debba essere
sanzionata da una legge statale o addirittura da qualsiasi “buon credente” con una
persecuzione implicita o esplicita o ancora che essa debba esser punita con la morte.
Ovviamente, a seconda dell’interpretazione che si dà di questa questione, si
modifica la comprensione di cosa significhi affermare che Dio non vuole “costrizioni in
materia di religione”.
Dio desidera questa “assenza di costrizione in materia di religione” ammettendo
così la possibilità di abbandonare l’Islam per chi si ritenesse obbligato
dalla propria coscienza a farlo? O vuole che l’uomo rinneghi la propria coscienza, se
questa gli comandasse qualcosa in questo ambito?
Se, invece, non è ammessa anzi è sanzionata la libertà di cambiare
religione o di abbandonarla, a cosa si riduce allora l’ “assenza di costrizione in
materia di religione”? Gli unici “liberi” sarebbero coloro che sono nati non
musulmani?
Veniamo al secondo testo che vogliamo presentare, quello di André
Ferré[3].
L’articolo in questione affronta la questione della legittimità o meno di una
presenza non islamica nella penisola arabica e, in specie, nell’odierna Arabia
Saudita.
Ferré mostra come non ci sia nessuna norma coranica che vieti la presenza di persone di
altre religioni nella penisola arabica e, nemmeno, la possibilità di esercitare un culto
non islamico
Se veniamo agli hadith, scopriamo addirittura che Maometto ha autorizzato con un patto scritto
i cristiani di Najran, a permanere nella loro oasi. E’ solo con il secondo califfo,
‘Umar e, per di più, non immediatamente, ma nel settimo anno del suo califfato -
dopo che il primo califfo succeduto a Maometto, Abu Bakr, non aveva avuto niente da ridire
– che i cristiani di Najran sono obbligati ad abbandonare la penisola arabica.
Così C.Eid[4]
ricostruisce l’episodio, a partire dalle fonti islamiche antiche:
Najran, anno 20 dell’Egira, il 642-643 dell’era cristiana. “Il Comandante
dei credenti vi chiede di abbandonare questa città e di trasferirvi in qualsiasi altro
luogo al di fuori della Penisola arabica”. La secca comunicazione di Ya ‘la bin
Umayya, emissario del califfo Omar bin al-Khattāb, si abbatte come un macigno sulla testa
dei notabili di Najran riuniti d’urgenza nel palazzo del loro ‘āqib, ossia
governatore. Poco prima, un drappello di cavalieri arabi si è improvvisamente presentato
alle porte di questa tranquilla città dell’Arabia meridionale suscitando non poco
stupore tra i bottegai dell’adiacente mercato. In pochi minuti tutta la gerarchia di
Najran si ritrova lì: oltre al āqib ‘Abdul-Masīh (Cristodulo) bin
Sharahbīl, il sayyid, o Gran consigliere, al-Ayham bin al-Nu‘mān, il vescovo
Abū al-Hārith bin ‘Alqama, i notabili Aws, Zayd, Nabīh, Yazīd,
Khuwaylid. ‘Amru, Khālid, Yohannes e altri ancora. I presenti si guardano increduli
poi ‘Abdul-Masīh protesta per primo: “Abbiamo concluso un patto con il vostro
Profeta. Com’è possibile?”. A questo punto, il vescovo estrae dalla tonaca
una pergamena e si mette a leggere: “Nel nome di Allah, il Clemente e Misericordioso. Con
la presente Muhammad concede la protezione di Allah e del suo Messaggero al vescovo Abū
al-Hārith, a tutti i vescovi, sacerdoti e monaci di Najran e a tutto quanto posseggono,
poco o tanto che sia. Non sarà rimosso nessun vescovo dalla sua diocesi, né un
monaco dal suo monastero, né un sacerdote dalla sua chiesa e non verrà mutato
alcun loro diritto o dominio...”.
“Non posso discutere l’ordine del califfo”, taglia corto Ya‘la.
“D’altra parte, Omar non fa altro che eseguire l’ultima volontà del
Profeta, che Allah lo benedica e lo conservi in gloria”. “Non capiamo”
ribatte ancora il vescovo. “Il Profeta è morto dieci anni fa, poco dopo il patto
che abbiamo stipulato con lui e che abbiamo onorato in tutti questi anni ospitando gli emissari
musulmani e versando puntualmente ogni anno le duemila vesti pattuite, mille nel mese di rajab
e mille in quello di safar”. “Lo so. E dovrete farlo ancora se intendete mantenervi
nella vostra fede” risponde Ya‘la. “Sul letto di morte, il Profeta –
che Allah lo benedica – ha però detto che non possono coesistere due religioni
nella Penisola degli Arabi né due qibla nello stesso Paese. Omar ha perciò
disposto di espellere gli ebrei dall’oasi di Khaybar e voi cristiani da Najran. Avete una
settimana per partire e quanto non riuscirete a portare via vi sarà risarcito.”
Poi Ya‘la si dirige verso l’uscita, si gira e aggiunge: “Beninteso, coloro
che decidono di convertirsi all’islam possono benissimo rimanere qui”...
Nessuno si chiede perché mai questa volontà non fu allora eseguita dal primo
califfo Abū Bakr il quale, secondo gli storici Tabari e Yāqūt ha invece
riconfermato i termini del patto...
Ne sono scaturite versioni contraddittorie e poco fondate: obbedienza all’ultima
volontà del Profeta, violazione dei termini del patto da parte di Najran con la pratica
dell’usura, la pericolosa crescita demografica dei cristiani, l’eventuale minaccia
militare della città, eccetera (André Ferré li confuta tutti nel suo
articolo Muhammad a-t-il exclu de l’Arabie les juifs et les chrétiens? in
Islamochristiana 16, Roma 1990, pp.43-65).
Eppure tutti avevano ricordato – arricchendolo questa volta di dettagli fantasiosi
– l’incontro che la delegazione dei sessanta cittadini di Najran aveva avuto, dieci
anni prima con Maometto. A Yathrib, che tutti ormai chiamano Medina, questi li aveva
addirittura autorizzati a pregare nella propria moschea, rivolti verso oriente secondo
l’usanza cristiana. L’incontro sfociò in un vero trattato: un tributo in
natura in cambio della protezione dei musulmani e del libero esercizio del culto
cristiano.
Veri o falsi che siano i pretesti avanzati, l’espulsione ebbe luogo sotto il
califfato di Omar che i cronisti arabi dipingono come uomo magnanimo e tollerante. Nel 638,
all’ingresso degli Arabi in Gerusalemme, il califfo aveva respinto con garbo
l’invito del patriarca Sofronio a pregare nel Santo Sepolcro per evitare, disse, che i
musulmani pretendessero un giorno di trasformare la basilica in moschea. Non ci sono
testimonianze storiche per parlare di nuovi martiri di Najran, ma non è affatto escluso
che qualche monaco si sia rifiutato di abbandonare la sua cella. E’ invece documentato
che la vita di questi cristiani nella loro nuova dimora nell’Iraq meridionale (che
chiameranno Najran di Kūfa) e in Siria non fu felice. Per circa un secolo e mezzo (fino
all’avvento di Hārūn al-Rashīd nel 786), gli espulsi presenteranno
l’istanza di tornare a casa a ogni nuovo califfo. Da ‘Uthman a ‘Alì
(“L’hai scritto tu quel patto”, gli dissero) a Mu‘āwiya, il
capostipite degli Omayyadi, “cui lamentarono la loro dispersione, la morte di alcuni di
loro e l’islamizzazione di altri” (così in Ibn al-Athīr, Al-Kāmil
fi al-Tārīkh, I parte, sotto La delegazione di Najran). Poi, di nuovo, a ‘Umar
bin ‘Abdul-Azīz (717-720) cui “lamentarono la loro decimazione e regresso
demografico, le insistenti razzie degli Arabi e l’ingiustizia di al-Haijāj. [Il
califfo] diede ordine di censirli e li trovò ridotti a un decimo dei loro effettivi
originari” (Idem).
‘Umar ricorre, insomma, ad un altro hadith, ad una “parola” di Maometto, che
la tradizione precedente a lui evidentemente ignora.
Ecco di seguito il corpo centrale del testo di A.Ferré, in una nostra
traduzione, che presenta il detto attribuito a Maometto sull’espulsione dei non islamici
dalla penisola arabica e sull’interdizione di un loro eventuale culto.
Le fonti islamiche parlano di un incontro tra il Profeta e una delegazione di cristiani di
Najrân, nell’anno 10 dall’Egira. Benché sia lecito interrogarsi
sull’autenticità di molti dei dettagli di questo incontro, è generalmente
ammesso che il risultato sia stato un vero e proprio trattato: in cambio di un tributo fisso
pagato in natura, Maometto accordava la sua protezione ai cristiani di Najrân, che
conservavano inoltre la loro organizzazione comunitaria, i loro costumi e il libero esercizio
del loro culto. L’accordo si concludeva con queste parole: “Essi godranno della
protezione (ğiwâr) di Dio e dell’impegno (dimma) del Profeta Maometto,
finché si comporteranno conformemente alle loro obbligazioni”.
D’altra parte, sappiamo come, con motivazioni diverse, i tre principali clan ebraici
di Yatrib-Medina furono eliminati uno dopo l’altro e con un rigore crescente, tanto che,
alla morte di Maometto, la presenza ebraica a Medina non sembra più costituire un
elemento di qualche importanza nell’oasi. Le spedizioni effettuate, nell’anno
7/628-9, contro le oasi del nord di Medina, portarono alla conclusione di patti. A Haybar, dove
si era ritirata la tribù medinese dei Banû l-Nadîr, gli ebrei poterono
restare, almeno a titolo provvisorio, proprietari dei terreni, ma dovettero consegnare ai
musulmani la metà dei raccolti. La comunità di Fadak fu obbligata a cedere la
metà delle sue terre e dei raccolti, non ai musulmani, ma a Maometto personalmente. A
Wâdî l-Qurā, dove il clan dei Banû Qaynuqâ‘ aveva trovato
temporaneo rifugio dopo la sua espulsione da Medina, gli ebrei ebbero ugualmente
l’autorizzazione di restare sulle loro terre, a condizione di consegnare ai musulmani una
parte di quanto prodotto con il loro lavoro. A Taymâ’, infine, la comunità
ebraica dovette versare un tributo annuo.
E’ da notare come, all’epoca di queste spedizioni nell’anno 7 contro le
oasi ebraiche, non si sia mai proceduto a delle espulsioni; gli accordi stabiliscono tutti che
la popolazione ebraica resterà sul posto. Certe tradizioni ci mostrano lo stesso
Maometto trattenere gli ebrei di Haybar, già rassegnati alla prospettiva di dover
abbandonare l’oasi dopo la capitolazione. “Se lo desiderate - avrebbe detto - vi
lascio le vostre proprietà, a condizione che voi le facciate fruttificare; i prodotti
saranno divisi tra noi e io vi manterrò qui tutto il tempo che Dio vi ci
manterrà”.
Le cose restarono dunque nel loro statu quo fino alla morte di Maometto e durante il breve
califfato di Abû Bakr; quest’ultimo, lungi dal cambiare atteggiamento nei confronti
degli ebrei e dei cristiani, confermò anche le disposizioni del precedente accordo con i
cristiani di Najrân. Quando ‘Umar diviene califfo a sua volta nel 13/634,
cominciò con il rispettare gli impegni presi dal Profeta e rinnovati dal suo
predecessore, ma alcuni anni più tardi, verosimilmente nell’anno 20,
decretò l’espulsione dall’Arabia di diversi gruppi di ebrei e di cristiani.
Anche se si tratta di una decisione sorprendente, in quanto poco conforme alla politica
generalmente perseguita da Maometto e dai primi califfi, il numero e la varietà di fonti
che la riportano non lasciano alcun dubbio sulla sua autenticità. Tuttavia, le loro
divergenze sulle ragioni, le circostanze e le modalità dell’espulsione sono
sufficientemente importanti da giustificare il fatto che si dedichi loro un attento esame. Una
prima serie di fonti giustifica il verdetto di ‘Umar richiamandosi ad una volontà
formale di Maometto.
Durante la sua ultima malattia e poco prima di morire, Maometto avrebbe
chiesto che i non musulmani non trovassero più posto nella Penisola arabica. Questa
tradizione, molto ben attestata come vedremo, è generalmente considerata dai musulmani
come autentica; con una notevole costanza, è stata usata dai fuqahâ’ (N.d.T.
gli esperti di diritto religioso dei primi tempi dell’Islam) per interdire ogni esercizio
di culti diversi dall’Islam e, a volte anche, qualsiasi presenza di non musulmani nella
Penisola.
Un rapido esame, non esaustivo, sulle opere dei primi secoli, ha permesso di rilevare una
quarantina di citazioni di questo hadît, che figura, tra l’altro, nelle sei
raccolte classiche. Come spesso accade quando si tratta di parole del Profeta, diverse varianti
sono state scrupolosamente conservate da coloro che le hanno tramandate. Ecco innanzitutto le
sei principali lezioni attestate:
Un’altra variante che si trova solo due volte nei testi consultati, è più restrittiva:
Una tradizione attribuisce la frase al califfo ‘Umar:
Infine, un solo testo mette in scena il califfo ‘Ali, al quale Maometto avrebbe detto:
Non è forse inutile menzionare le circostanze nelle quali Maometto
avrebbe pronunciato queste parole. E’ una tradizione attribuita a Ibn ‘Abbâs
che, su questo punto, ci fornisce il maggior numero di dettagli. “Un giovedì, le
condizioni di Maometto si aggravarono, racconta Ibn ‘Abbâs. ‘Portatemi, disse
il Profeta, una scapola (N.d.T. osso di pecora o cammello, usato come superficie sulla quale
scrivere), così che io metta per iscritto ciò che vi preserverà per sempre
dall’errore dopo la mia morte’. Allora nacque una discussione tra i presenti, e
discutere davanti ad un profeta non è opportuno. ‘Cos’ha dunque? - si
domandarono - è l’effetto del delirio? Fategli delle domande!’ Ma lui
riprese: ‘Lasciatemi stare; ciò che mi interessa in questo momento è
più importante delle vostre domande!’ Poi ordinò tre cose ai musulmani:
‘Cacciate i politeisti dalla Penisola degli Arabi; fate alle ambasciate dei regali come
quelli che io stesso ho fatto loro! Quanto alla terza raccomandazione, o non la fece, o, se la
fece, non me la ricordo”.
Altri racconti precisano che ‘Umar b. al-Hattâb era presente a questa scena e
che egli intervenne per impedire che si portasse al Profeta il necessario per scrivere.
“Lasciatelo stare, avrebbe detto, è sofferente. D’altronde, avete il Corano:
il Libro di Dio vi basta”. Da qui nacque la discussione tra i presenti. Ibn
‘Abbâs rimpiangeva vivamente che in questo modo si fosse impedito ai musulmani di
conservare per iscritto le ultime volontà del Profeta.
Siamo in presenza di una tradizione che offre sufficienti criteri di autenticità? Se
sì, quali furono esattamente le parole pronunciate da Maometto? Ha chiesto di cacciare
tutti gli ebrei e tutti i cristiani (versione 1)? Oppure unicamente gli ebrei di
Hiğâz e i cristiani di Najrân (versione 7) Oppure i politeisti (versione 2)? O
ancora ha semplicemente raccomandato che non ci fossero due religioni concorrenti in Arabia
(versione 3,4 e 5)?
A proposito della prima versione, si possono fare diverse osservazioni. Innanzitutto si
suppone che essa sia stata trasmessa dallo stesso ‘Umar, che avrebbe sentito il Profeta
pronunciare la frase. Questa tradizione sembra essere stata tramandata dall’inizio da
un’unica persona, Ğâbir b. ‘Abdallâh, l’ultimo sopravvissuto
dei Compagni di Maometto, che visse nell’entourage di ‘Umar; in ogni caso la cosa
più sorprendente è che questa non è conosciuta dal figlio di ‘Umar,
‘Abdallâh. Poi, la stessa forma sotto la quale si presenta non può non
stupire. Maometto vive gli ultimi istanti della sua vita e ne è cosciente, poiché
fa chiamare le persone a lui vicine per lasciare loro le sue ultime istruzioni. Alcuni racconti
affermano d’altronde che egli è deceduto subito dopo. Come, in queste condizioni,
può programmare di sbarazzare personalmente il paese dagli ebrei e dai cristiani? In
terzo luogo, una tale decisione sarebbe stata in flagrante contraddizione, da una parte con la
politica condotta dal Profeta nei confronti di “quelli del Libro” e, d’altra
parte, con il principio, spesso da lui propugnato, di rispettare gli impegni presi con loro. In
particolare, l’accordo fatto con i cristiani di Najrân è recente,
poiché è generalmente collocato cronologicamente nell’anno 10
dall’Egira, e non si vede quale fatto nuovo sarebbe intervenuto dopo di allora tale da
permettere di violarlo.
Infine, se ‘Umar aveva realmente voluto eseguire le ultime volontà di
Maometto, perché l’avrebbe fatto solo in parte, come vedremo?
Tanti motivi che fanno apparire come poco verosimile una volontà espressa da
Maometto di cacciare dall’Arabia tutti gli ebrei e tutti i cristiani.
Avrebbe allora chiesto di espellere unicamente gli ebrei di Hiğâz e i cristiani
di Najrân? Questa versione, tramandata da Abû ‘Ubayda Ibn
al-Ğarrâh, che fu una delle persone vicine ad ‘Umar, si scontra, come la
precedente, con l’esistenza dei trattati dell’anno 7 per ciò che concerne
gli ebrei e dell’anno 10 per i cristiani di Najrân. Soltanto, ribadiamo, una
violazione delle clausole di questi trattati da parte dei contraenti avrebbe potuto comportare
il fatto di rimetterli in discussione. D’altronde, molte testimonianze ricordano, come
è già stato segnalato prima, che il califfo Abû Bakr rinnovò
l’accordo con la comunità di Najrân, appoggiandosi formalmente sulle
garanzie accordate da Maometto. Non avrebbe certo potuto farlo, se lui stesso o il suo
entourage fossero stati a conoscenza dell’ingiunzione di quest’ultimo.
L’ordine del Profeta poteva riguardare solo le tribù arabe rimaste pagane,
designate con il termine mušrikûn dalla versione 2? L’ipotesi può
apparire seducente. Avrebbe in ogni caso il vantaggio di armonizzarsi meglio, da una parte con
il vocabolario coranico e quello della Tradizione, dall’altra con l’atteggiamento
di Maometto durante gli ultimi anni della sua vita. A partire dal solo testo del Corano,
è molto difficile, in effetti, includere i “popoli del Libro” nella
categoria degli “associatori” (mušrikûn) o politeisti: alcuni versetti
distinguono nettamente i due gruppi, mentre altri sono per lo meno ambigui e necessitano, da
parte dei commentatori, di lunghe argomentazioni. Quanto agli hadít, essi riservano
abitualmente l’appellativo di mušrikûn ai politeisti dell’Arabia e,
più precisamente, ai Meccani non ancora convertiti all’Islam quando Maometto era
ancora in vita. Siccome molte tribù avevano, al momento della scomparsa del Profeta,
fatto atto di obbedienza abbracciando l’Islam, la minaccia di un’espulsione avrebbe
potuto accelerare l’adesione dei gruppi ancora ostili o esitanti. Per di più un
tale atteggiamento sarebbe stato conforme con le ingiunzioni del Corano che denunciano con
vigore l’alleanza con i politeisti: “Come potrebbe esserci un patto tra Allah e il
Suo Messaggero e i politeisti... se quando hanno il sopravvento su di voi, non vi rispettano
né per la parentela né per i giuramenti?”.
Questa interpretazione della parola di Maometto potrebbe ricevere una conferma se la
confrontiamo con un fatto che si riferisce all’anno 9/631. Sappiamo che, in
quell’anno, Maometto affidò la direzione del pellegrinaggio a Abû Bakr, che
si mise in cammino alla testa di trecento musulmani. Ma, prima di arrivare alla Mecca egli
è raggiunto da ‘Ali che il Profeta aveva inviato con urgenza per annunciare che,
ormai, i politeisti non potranno più partecipare con i musulmani ai riti del
Pellegrinaggio. Nel corso della cerimonia della lapidazione, a Minâ, ‘Ali recita
una quarantina di versetti della sura 9, recentemente rivelati, poi aggiunge le quattro
disposizioni non coraniche che Maometto l’ha incaricato di riferire ai pellegrini rimasti
pagani: “Solo i musulmani entreranno in Paradiso; nessuno potrà più
compiere nudo i giri (tawâf); a partire dall’anno seguente, musulmani e politeisti
non potranno trovarsi insieme (al Pellegrinaggio); è accordata una proroga a coloro che
hanno concluso un patto con il Profeta”.
La formulazione della terza decisione merita di essere notata, ricorda stranamente la
versione 5, che abbiamo data prima, delle ultime volontà di Maometto. Un po’
più di un anno separa le due ingiunzioni e, nel frattempo, al Pellegrinaggio del 10/632,
dal quale i politeisti sono stati effettivamente esclusi, l’Inviato esclamò:
“Satana dispera ormai di essere adorato su questa terra che è vostra”. La
definitiva messa al bando, qualche settimana più tardi, degli Arabi rimasti pagani,
sembra così iscriversi naturalmente nella linea di questa vittoria sull’antica
religione politeista dell’Arabia; sarà la prova concreta che la missione del
Profeta è compiuta.
L’ipotesi precedente solleva tuttavia una seria obiezione: se Maometto ha chiesto di
cacciare le tribù ancora pagane fuori dall’Arabia, perché i primi califfi
non hanno ottemperato a questa richiesta? In effetti, nel corso delle campagne condotte contro
queste tribù sotto Abû Bakr e ‘Umar, non si vedono mai i musulmani proporre
loro la scelta tra la conversione e l’esilio. A meno che la diffusione raggiunta
dall’ “Apostasia” (ridda) dopo la morte di Maometto non abbia reso
impossibile eseguire questo ordine.
Supporre che il Profeta abbia espresso, al momento di morire, la sua preoccupazione per
l’avvenire religioso della regione, sarebbe sollecitare i testi a preferire la versione 2
o, a rigore, le formulazioni che utilizzano l’espressione “due religioni”
(versioni 3, 4 e 5), intendendo “Islam e politeismo”? Chiedere ai suoi successori
di cacciare i pagani politeisti non era reclamare la giusta rivincita su coloro che avevano
costretto i primi credenti ad emigrare? “Espelleteli da dove vi hanno espulso!”
Comandava già il Corano parlando dei Meccani rimasti idolatri, che rappresentavano una
tentazione (fitna) e una minaccia per la fede dei Credenti.
Un altro dettaglio sconcertante merita tuttavia di essere menzionato. Se si presta fede a
molte tradizioni, il califfo ‘Umar non conosceva le parole di Maometto concernenti
l’esclusione dei non musulmani. Quando gliele comunicarono (sotto la forma “che due
religioni non si trovino insieme nella Penisola degli Arabi”), egli fece procedere ad una
minuziosa indagine e, una volta certo della loro autenticità, ordinò la partenza
degli ebrei di Haybar.
Ibn Hišâm, che riporta questa tradizione, precisa che la misura di ‘Umar
riguardò unicamente “coloro tra gli ebrei che non avevano concluso patti
(‘ahd) con l’Inviato di Dio”. Misura molto parziale dunque, sulla quale
torneremo.
Il racconto del quale Ibn Hišâm si fa eco è dunque in contraddizione
con le numerose fonti che affermano che ‘Umar aveva sentito di persona l’Inviato di
Dio pronunciare le parole in questione. Inoltre non è strano che una raccomandazione di
tale importanza, considerata come ultimo testamento di Maometto, sia caduta nell’oblio
per una decina d’anni? Anche se Abû Bakr e ‘Umar non l’avevano raccolta
direttamente dalle labbra del Profeta, è verosimile che nessun testimone l’abbia
loro riferita?
Un’ultima domanda che si pone a proposito dell’autenticità di questa
tradizione riguarda l’espressione Ğazîrat al-‘Arab. Non è certo
che essa sia stata in uso al tempo di Maometto, o doveva corrispondere ad una nozione molto
sfumata, poiché i fuqahâ’ e, dietro di loro, i geografi arabi, si
interrogarono a lungo sui confini da attribuire a tale territorio. Gli uni vi inclusero la
Mecca, Medina, la Yamâma e lo Yemen; altri ne esclusero lo Yemen; altri ancora
l’estesero “da Aden alle pianure dell’Iraq e di Djeddah ai confini della
Siria”.
Da tutto ciò si vede che l’hadit invocato non presenta tutti i criteri di
autenticità; ora, questo sembra non essere sfuggito a molti autori antichi che, per
giustificare la messa al bando, fanno parallelamente appello ad altri motivi.
A questo punto l’articolo di Ferré analizza le tre ipotesi delle fonti antiche
addotte come motivi della messa al bando (la pratica dell’usura, la crescita della
popolazione non islamica e la potenza militare), per confutarne la realtà storica. Il
testo continua poi, prospettando delle conclusioni:
L’esame delle fonti lascia sussistere un dubbio sull’autenticità della
tradizione relativa alla messa al bando dei non musulmani. Ma, se si ammette che Maometto ha
potuto, prima di morire, raccomandare ai suoi Compagni di vegliare sull’unità
religiosa e politica dell’Arabia, sembra più plausibile che egli abbia pensato ai
gruppi rimasti politeisti, e prima di tutto ai Meccani ribelli alla sua predicazione. Né
Abû Bakr, né ‘Umar durante i primi anni del suo califfato ebbero il tempo di
eseguire questa ultima volontà del Profeta: le difficoltà della successione, ma
soprattutto la defezione rapida di numerose tribù giunsero a complicare il loro compito.
Non si trattava più di alcuni gruppi recalcitranti nei confronti del messaggio coranico,
ma di una “apostasia” di grande portata.
Nell’anno 20 dall’Egira, la situazione è completamente capovolta. Non
soltanto il politeismo è praticamente scomparso dall’Arabia grazie
all’adesione in massa delle tribù vinte una dopo l’altra, ma le truppe
musulmane moltiplicano le loro incursioni almeno su tre fronti: l’Egitto, in via di
sottomissione, la Siro-Mesopotamia e la Persia. I loro stessi successi trascinano i combattenti
sempre più lontano dalle loro basi di partenza, lasciando queste ultime alla
mercè di avversari male intenzionati, soprattutto se dispongono di una certa potenza
militare e finanziaria, come è il caso della popolazione di Najran. Non è
impossibile che il califfo ‘Umar, o almeno persone del suo entourage, abbiano cercato
un’occasione favorevole per allontanare questi gruppi divenuti ingombranti; la
varietà dei motivi addotti sembra andare in questa direzione.
D’altra parte, le varianti osservate nel testo dell’hadit attribuito a Maometto
possono indicare degli sforzi per farlo coincidere con la decisione di ‘Umar. Bisogna
tener conto qui di due elementi: il lasso di tempo importante che ha preceduto la costituzione
dei corpus di Tradizioni, e l’evoluzione, precedentemente richiamata, conosciuta dal
termine “mušrikûn”.
Comunque, la misura presa dal califfo ebbe una portata limitata, se toccò
l’insieme della comunità cristiana di Najran e forse anche la totalità
degli ebrei di Fadak, in compenso alcuni ebrei di Haybar vi sfuggirono. Abbiamo su questo punto
la testimonianza di Ibn Hišâm, che a sua volta cita Ibn Šihâb
al-Zuhrî: “Quelli che hanno concluso un patto con l’Inviato di Dio, avrebbe
detto ‘Umar, me lo portino ed io ne eseguirò le disposizioni. Quelli che invece
non lo hanno fatto si preparino a partire! E ‘Umar bandì coloro che non avevano
stipulato patti con l’Inviato di Dio. D’altronde, numerose testimonianze
segnalarono la presenza di ebrei e di cristiani a Hiğâz durante i primi secoli
dell’Islam. Comunque siano le zone d’ombra lasciate da questo avvenimento e le sue
motivazioni reali o presunte, non possiamo prescindere dagli atteggiamenti presi sulla
questione dai giuristi musulmani. Ora, se tutte le scuole giustificano la decisione del califfo
‘Umar riferendosi alle ultime volontà di Maometto, esse differiscono notevolmente
quando si tratta di precisare a quali condizioni dei non musulmani possono essere ammessi in
Arabia.
L’articolo di Ferré termina, infine, con la presentazione di un testo di Ibn
Qayyim al-Gawziyya (morto nel 751/1350) che presenta tutte le varianti legali conosciute al suo
tempo sulla questione: scopriamo così che i confini ideali della penisola arabica
– confini all’interno dei quali veniva fatto valere il divieto di Maometto - sono
variamente intesi dai maestri islamici nei secoli, così come sono state a lungo
dibattute le condizioni che davano adito a persone di religione non islamica di soggiornare
nella penisola.
Nel testo di Ferré appare tutta l’importanza degli hadith. Se
ci fermassimo al solo testo Coranico, niente vieterebbe a degli ebrei o a dei cristiani di
poter pregare nella penisola arabica, nel territorio dell’odierna Arabia Saudita o degli
altri stati della regione. Anzi il patto, conosciuto da tutte le fonti islamiche antiche, che
Maometto stipulò, separatamente, con ebrei e con cristiani assicurò loro non solo
di poter continuare a risiedere nella penisola, ma anche di potervi praticare il proprio
culto.
E’ solo a motivo dell’hadith chiamato in causa dal secondo califfo, ‘Umar,
che il permesso accordato da Maometto si muta in divieto. Ma - ci domanda Ferré –
resiste all’odierna critica storica l’affermazione di ‘Umar che tale divieto
sia veramente espressione della esplicita ultima volontà di Maometto? E’ evidente
che un approccio storico scientifico alle fonti antiche islamiche (ed, in particolare, agli
hadith) è tutto da sviluppare. I primi decenni della storia dell’Islam devono
ancora essere sottoposti alla trafila dell’analisi delle scienze storiche. I testi
fondatori del cristianesimo hanno affrontato questo vaglio a partire dal XVII secolo, mentre
per quello che riguarda gli hadith siamo ancora ai primi vagiti.
Ne segue una domanda che possiamo porre: se si rivelasse storicamente infondata
l’attribuzione a Maometto di questo divieto, ciò comporterebbe un ripensamento in
direzione di una libertà di culto dei non musulmani nella penisola arabica? Sappiamo
bene che la domanda non è una questione puramente retorica, poiché la grande
ricchezza della regione ha fatto sì che vi giungessero come emigranti in cerca di lavoro
numerosissime persone provenienti da paesi più poveri come le Filippine o l’India:
questo vale sia per gli Emirati del Golfo (più tolleranti in materia di rispetto di un
culto non islamico) sia per l’Arabia Saudita (dove, invece, il divieto è
assoluto). L’appartenenza al cristianesimo o ad altre religioni di queste persone,
provenienti da luoghi nei quali la pratica religiosa è piuttosto elevata, pone
continuamente la questione del rispetto della loro dignità e libertà.
Alla radice delle questioni sta, poi, l’immagine di Dio: con la libertà religiosa
sta o cade la possibilità di amare Dio. Un Dio che avesse necessità di assenza di
confronti e bisogno di minacce per essere venerato, potrebbe essere amato oltre che temuto?
Gesù
nella prospettiva del Corano: l’Islam di Maometto ed i musulmani del XX
secolo dinanzi al Cristo di Maurice Borrmans
I matrimoni islamo-cristiani: la condizione
giuridica della famiglia islamica e le problematiche di un matrimonio misto
di Maurice Borrmans
Islam e fede cristiana di Maurice
Borrmans
Appunti da/di viaggio: Granada e l’Islam
andaluso
Breve nota sul significato del termine
arabo “Islām” di Massimo Rizzi
Islam e Occidente
La Bibbia nell´Islam
I profeti biblici nel Corano
Gesù nel Corano
Gesù negli Hadith
Quale evoluzione possiamo oggi aspettarci dal mondo
islamico?
[1] Samir Khalil Samir, S.J., L’apostasia nel Corano e il dibattito tra i musulmani, pubblicato sul sito www.chiesa.espressonline.it. Il testo on-line riproduce quasi integralmente il contributo di Samir Khalil Samir apparso come introduzione al volume di G.Paolucci, C.Eid, I cristiani venuti dall’Islam. Storie di musulmani convertiti, Piemme, Casale Monferrato, 2005, pagg.9-27.
[2] Hadith: “Fatto”, più particolarmente “parola” attribuita a Muhammad. L’insieme di queste tradizioni, i “detti” trasmessi dai “Compagni”, è stato materia di raccolte a partire dall’inizio dell’VIII secolo. Sei fra queste, composte nel IX secolo, sono considerate canoniche in ambito sunnita: esse sono alla base della sunna fondata sul comportamento di Muhammad. La più nota è quella di un tradizionalista o muhaddith chiamato al-Bukhari (m.870). Il testo o matn di un hadith è sempre preceduto dalla “catena dei trasmettitori”, denominata isnad, che lo rende più o meno valido (Hadith, in D.Sourdel-J.Sourdel-Thomine, Vocabolario dell’Islam, Città aperta, Troina, 2005, pagg.83-84).
[3] André Ferré, Muhammad a-t-il exclu de l’Arabie les juifs et les chrétiens?, in Islamochristiana 16, Roma, 1990, pp.43-65.
[4] C.Eid, A morte in nome di Allah. I martiri cristiani dalle origini dell’islam a oggi, Piemme, Casale Monferrato, 2004, pagg.25-29.