Il veleno del soggettivismo (da C.S. Lewis)
da C.S. Lewis, Riflessioni cristiane, Gribaudi, Torino, 1997, pp.105-108
Una causa di miseria e di vizio è sempre presente in noi, nell’avidità e nell’orgoglio dell’uomo, ma in certe epoche storiche questa viene molto accresciuta dalla prevalenza temporanea di qualche falsa filosofia. Il pensare corretto non rende buoni gli uomini cattivi; ma un errore puramente teorico può rimuovere le restrizioni ordinarie verso il male e privare la buona volontà del suo supporto naturale. Un errore di questo tipo si sta diffondendo oggi. Non mi riferisco alle filosofie della forza degli stati totalitari, ma a qualcosa di più profondo e diffuso e che ha veramente dato a queste filosofie della forza il loro momento d’oro. Mi riferisco al soggettivismo.
Dopo aver studiato il suo ambiente, l’uomo ha incominciato a guardare dentro di sé. Fino a quel momento egli aveva accettato la sua ragione e attraverso essa vedeva tutte le altre cose. Ora la sua ragione è diventata l’oggetto: è come se ci togliessimo gli occhi per osservarli. Studiata così, la ragione gli appare come un epifenomeno che accompagna gli eventi chimici o elettrici in una corteccia cerebrale che è di per sé un sottoprodotto di un cieco processo evolutivo.
La sua logica, fino a quel momento la regina a cui gli eventi di tutti i mondi possibili dovevano obbedire, diventa puramente soggettiva. Non vi è ragione per ritenere che sia una via per la verità. Fino a quando questo declassamento si limita alla sola ragione teorica, non può essere percepito in tutta la sua logica (nella maniera forte e risoluta di Platone o Spinoza) perfino per dimostrare che è puramente soggettiva, e quindi può solo avvicinarsi al soggettivismo. È pur vero che questo avvicinamento a volte è notevole.
Mi dicono che vi sono scienziati moderni che hanno eliminato le parole “verità” e “realtà” dal loro vocabolario e che ritengono che l’unico scopo della loro attività non sia la conoscenza di ciò che c’è, ma il raggiungimento di risultati puramente pratici. Il soggettivismo è però, in generale, un compagno molto scomodo per la ricerca, tanto che il pericolo, in questo ambito, viene di continuo neutralizzato.
Ma quando ci rivolgiamo alla ragion pratica troviamo che gli effetti disastrosi sono operanti in tutta la loro forza. Per ragione pratica intendo i nostri giudizi sul bene e sul male. Se siete sorpresi del fatto che io li includa sotto la fattispecie della ragione, lasciatemi ricordare che la vostra sorpresa è di per sé un risultato del soggettivismo che sto analizzando.
Nessun pensatore di rango, fino ai tempi moderni, osò mettere in discussione il fatto che i nostri giudizi sui valori fossero giudizi razionali o che ciò che essi scoprivano fosse oggettivo. Era considerato scontato che, nelle tentazioni, la passione si opponesse alla ragione e non al sentimento. Pensavano così Platone, e poi Aristotele, Hooker, Butler e Johnson.
Il punto di vista moderno è radicalmente cambiato. Non crede che i giudizi sui valori siano veri giudizi. Sono sentimenti, o complessi, o inclinazioni, prodotti da una comunità attraverso l’influenza dell’ambiente e delle tradizioni, e diversi a seconda delle realtà sociali. Dire che qualcosa è buono significa esprimere un sentimento in merito, e il nostro sentimento in merito è condizionato dalla società in cui viviamo. Se è così, allora noi potremmo essere stati condizionati a sentire diversamente. “Forse” pensa il riformatore o l’esperto in pedagogia, “sarebbe meglio che lo fossimo. Cerchiamo di migliorare la nostra moralità”.
Da questa idea apparentemente innocua deriva il germe che, se non viene eliminato, porterà la nostra specie all’estinzione (e, dal mio punto di vista, rovinerà le nostre anime): è quella superstizione fatale che ritiene che gli uomini possano creare valori, che una comunità possa scegliere un’ideologia, come la gente sceglie i vestiti. Tutti si indignano quando i tedeschi definiscono la giustizia come ciò che obbedisce all’interesse del Terzo Reich. Ma spesso si dimentica che è un interesse del tutto senza fondamento se noi stessi consideriamo la moralità come un sentimento soggettivo che può variare a nostro piacimento.
A meno che non vi sia un parametro oggettivo di ciò che è bene, che sovrasta i tedeschi, i giapponesi e noi, sia se lo osserviamo o no, allora è naturale che i tedeschi possano creare la loro ideologia, tanto quanto la possiamo creare noi. Se il “bene” e il “meglio” sono termini che derivano unicamente dalle ideologie dei singoli popoli, allora è certo che non si può dire che un’ideologia sia migliore di un’altra. A meno che il metro di misurazione sia indipendente dalle cose da misurare, non si può fare nessuna misurazione. Per la stessa ragione è inutile paragonare le idee morali delle diverse epoche: il progresso e la decadenza sono ugualmente concetti senza senso.
Tutto questo è così ovvio che potrebbe venire sintetizzato in poche parole. Ma non viene colto con molta facilità se si pensa ai metodi del riformatore della morale che, dopo aver sostenuto che il “bene” è sinonimo di “ciò da cui siamo condizionati”, sostiene senza difficoltà che forse sarebbe “meglio” se noi venissimo condizionati da qualcos’altro. Ma che cosa mai intende per “migliorare”?
Di solito, nei meandri della sua mente, troviamo la convinzione che se si eliminano i giudizi morali tradizionali, si troverà qualcos’altro, qualcosa di più “reale” e “concreto” su cui basare un nuovo schema di valori. Dirà, per esempio, che “dobbiamo abbandonare i tabù e fondare i nostri valori sul bene della comunità”, quasi che la massima “Dovrai promuovere il bene della comunità” fosse qualcosa di più di una variante polisillabica del motto eterno che si pretenderebbe sostituire, ossia: “Tutto quanto volete che gli uomini facciano a voi, anche voi fatelo a loro” (Mt 7,12).
Oppure si sforzerà di basare i suoi valori sulla biologia, dicendoci di comportarci in un certo modo per preservare la specie. In apparenza non anticipa l’interrogativo del perché la specie dovrebbe essere preservata. Lo considera scontato in quanto in realtà si riferisce alla moralità tradizionale. Se partisse, come pretende, da una tabula rasa, non arriverebbe mai a quel concetto. A volte cerca di giustificarsi basandosi sull’istinto, a scapito di tutti gli altri impulsi che vanno in direzione contraria rispetto alla preservazione della specie? Il riformatore sa che qualche istinto è più importante degli altri solo perché giudica basandosi su uno standard, il quale altro non è, ancora una volta, se non la morale tradizionale che pretende di rimpiazzare.
È ovvio che gli istinti, di per sé, non possono fornirci un fondamento su cui stabilire una gerarchia. Se non si ha già una conoscenza della loro rispettiva importanza mentre li si studia, non si può far derivare tale sapere da loro. Questo tentativo complessivo di gettare a mare la morale tradizionale considerandola qualcosa di soggettivo e sostituirla con un nuovo sistema di valori è sbagliato. È come cercare di sollevarsi facendo leva sul proprio bavero della giacca.