Paul Gauguin su Vincent van Gogh: non solo follia, ma anche ricerca di comunione e di Dio
da Paul Gauguin, Gli scritti di un selvaggio, 1894 (due anni dopo la morte di Vincent van Gogh)
Sullo stesso tema vedi, su questo stesso sito, l'articolo Vincent van Gogh: dal Sermone domenicale sul Salmo 119, 19 al Campo di grano con corvi. Vivere in compagnia della speranza e nella sua assenza, di Andrea Lonardo
Fu ad Arles, dopo richieste insistenti, che andai a trovare Vincent Van Gogh. Voleva fondare “L’Atelier du Midi” che io avrei dovuto dirigere. Questo povero olandese era entusiasta e in preda a una singolare eccitazione. Leggendo Tartarin de Tarascon sognava un mezzogiorno straordinario da dipingere in getti di luce. E sulla tela i suoi gialli violenti inondavano di sole le fattorie e tutta la pianura della Camargue.
...Nella mia stanza gialla alcuni fiori solari e dagli occhi porpora spiccano su di un fondo giallo. Bagnano le radici in una brocca gialla, sopra un tavolo giallo. In un angolo del quadro la firma: Vincent. E il sole giallo, attraverso la tenda gialla della mia stanza, inonda di oro questa festa floreale; al mattino dal mio letto, quando mi sveglio, quasi ne sento il profumo.
Oh! sì, l’ha amato il giallo, i raggi del sole che gli riscaldavano l’anima, il buon Vincent, questo pittore d’Olanda che odiava la nebbia. Era il suo bisogno disperato di caldo.
Insieme, ad Arles, accaniti nella lotta, ossessionati dalle meraviglie del colore, io adoravo il rosso. Cercavo un vermiglio perfetto: dove trovarlo? E lui a tracciare col suo pennello più giallo sul muro, improvvisamente violetto:
Je suis sain d’Esprit
Je suis Saint-Esprit.
Nella mia stanza gialla, una piccola natura morta viola. Due scarpe enormi, vecchie e sformate. Le scarpe di Vincent. Le comperò nuove un bel mattino per andare a piedi dall’Olanda al Belgio. Quel giovane prete (aveva appena terminato gli studi teologici per diventare pastore come suo padre), quel giovane prete cercava nelle miniere quelli che chiamava suoi fratelli. Li aveva conosciuti leggendo la Bibbia, oppressi, sfruttati per la ricchezza dei potenti.
Lontano dagli insegnamenti dei suoi maestri olandesi, Vincent credeva in un Gesù dei poveri e la sua anima misericordiosa cercava la parola di conforto e il sacrificio: per i deboli combattere i potenti. Decisamente Vincent era già pazzo. L’insegnamento della sua Bibbia fu accettato dai minatori che lavoravano sottoterra, ma non fu certo gradito alle autorità che stavano in alto sulla terra. Fu subito richiamato e sospeso. La famiglia riunita parlò di pazzia e di ricovero. Ma non se ne fece nulla per l’intervento di suo fratello Théo.
Un giorno nella miniera cupa il giallo cromo esplose nella luce violenta del grisù, l’arma infallibile del padrone. Alcuni uomini che stavano risalendo, agitandosi nel carbone, salutarono quel giorno la vita senza neppure bestemmiare.
Uno di loro, orribilmente mutilato, con la faccia ustionata, fu raccolto da Vincent. “Niente da fare”, diceva il medico della compagnia, “è andato, salvo un miracolo o assidue cure materne. Inutile occuparsene.”
Vincent credeva nei miracoli, credeva nell’amore materno. Quel pazzo (perché lo era davvero) rimase quaranta giorni al capezzale del moribondo; infaticabile, curò le sue ferite e pagò le medicine. Come un prete che conforta con la parola. Decisamente era pazzo. Questa assurda fatica salvò un uomo già morto, un cristiano.
Quando il ferito ormai salvo scese nella miniera per riprendere il lavoro, avreste potuto vedere, diceva Vincent, nelle cicatrici insanguinate, sulla fronte gialla di terra di un minatore, i segni della corona di spine sul capo di Gesù martire.
Decisamente quest’uomo era pazzo.