Esiste il puro dono? (da Pierangelo Sequeri)
da Pierangelo Sequeri, Dono verticale e orizzontale: tra teologia, filosofia e antropologia, in Giovanni Gasperini (a cura di), Il dono tra etica e scienze sociali, Edizioni Lavoro, Roma, 1999, 111-117
Esiste il puro dono? (J. Derrida, J.-L. Marion)
La riscoperta (e la sorpresa) riguarda la filosofia di Jacques Derrida. Già teorizzatore della radicale assenza di fondamento che caratterizza la diaspora degli enti e degli eventi, nella scia di uno Heidegger reinterpretato criticamente in chiave post-moderna, Derrida si è recentemente appassionato all’intrigo paradossale in cui emerge la forma del «dono» (J. Derrida, Donare il tempo. La moneta falsa, Raffaello Cortina, Milano, 1996; originale del 1991).
Il paradosso starebbe anzitutto nel fatto che il «dono», se «esiste», è di necessità totalmente invisibile. La donazione, infatti, se vuole realizzarsi secondo il suo ideale di pura oblatività – senza ombra di scambio interessato, senza attesa alcuna di contropartita – dovrebbe in realtà autocancellarsi.
La buona coscienza del donatore, infatti, contraddice già di per sé il radicale disinteresse della donazione. La memoria del donatario tiene comunque in vita la necessità del contraccambio. L’effettualità del dono, infine, ripropone la coscienza di un credito esigibile e, rispettivamente, del debito contratto. Il puro dono insomma, quando è attuato, si rivela fatalmente «impuro». Il dono vorrebbe realizzare infatti, nella sua essenza, l’intenzione di un «dare» che non si aspetta in nessun modo di dover ricevere, e l’esperienza di un «ricevere» che non è in alcun modo sollecitato a ricambiare. Quando però il dono «accade», questa essenza è per ciò stesso irrimediabilmente «negata».
La coscienza cristiana avverte immediatamente, nel rilievo di questa antinomia, qualcosa che la interpella direttamente: nella teoria e nella pratica (i confessionali sono ancora abbastanza frequentati da persone sensibili, turbate dell’esperienza dell’intimo compiacimento del bene che, nelle intenzioni, era disinteressatamente compiuto a favore del prossimo: cioè donato). Il teologo storicamente edotto sa bene che il protocollo dell’antinomia è una specifica concezione della grazia divina e della carità soprannaturale come puro dono.
In questo primo momento della sua ricerca insomma, Derrida impone obiettivamente al pensiero filosofico di misurarsi spregiudicatamente con la tradizione teologale del puro dono.
Indipendentemente dall’indirizzo e dall’esito che Derrida assegna alla sua riflessione, noi riconosciamo in effetti che anche la teologia ha concretamente sperimentato, in diversi punti del suo sviluppo storico, i limiti di quella idealizzazione. Il dibattito intorno alla tesi luterana del sola gratia, la disputa interna al cattolicesimo intorno alla possibilità dell’amore puro, sono i luoghi più noti della questione teorica sollevata dall’idea del puro dono.
L’iperbole del puro dono, per indicare la grazia e l’amore di Dio, consente infatti di indicare l’estraneità del soggetto divino ai difetti egoistici che l’umana esperienza della donazione porta alla luce. Ma la sua ingenua idealizzazione, che insiste sulla totale assenza dell’interesse personale e dell’attesa contropartita, può svilupparsi in termini tali da condurre all’approdo di una immagine dispotica e indifferente della stessa donazione assoluta.
La conseguenza di questo approccio astratto alla metafora del puro dono è la radicale estenuazione del senso etico e affettivo del dono medesimo. Che cos’è un dono d’amore senza speranza di corrispondenza, senza la sofferenza del rifiuto, senza l’attaccamento alla qualità del legame, senza la dignità dello scambio e della reciprocità, senza la disponibilità a mettere in gioco i propri convincimenti a riguardo della verità, della giustizia, della credibilità in cui «si decide» di noi e dei nostri affetti più cari?
È pensabile un dono d’amore la cui purezza tende all’inesistenza dello scambio e all’irrilevanza del legame? Una simile figura del dono azzera, già nel suo concetto, ogni possibile storia degli affetti: ma non sono proprio gli affetti a costituire l’atmosfera originaria di ogni donazione?
Infatti contrappunta J.-L. Marion (J.-L. Marion, Étant donné, Puf, Parigi, 1998, pp. 103-168) quella presunta forma della donazione che, per «potersi realizzare» nella sua purezza, dovrebbe riuscire a «non manifestarsi» nemmeno come intenzione della coscienza, non esiste. Se quello deve essere il dono, è evidente che il dono non può essere.
Ma il fatto è, prosegue Marion, che la forma del dono si manifesta: e appare come criterio intrinseco della specifica qualità di molte relazioni ed esperienze. La coscienza identifica la donazione pura in un ordine di relazioni che appare irriducibile alle forme economiche dello scambio equivalente, come anche alla congiuntura sentimentale delle intenzioni affettuose.
Non solo. La coscienza riconosce anche figure specifiche di una patologia del dono, che appunto istituiscono l’evidenza di intenzioni ed esiti difformi dal giusto senso della donazione. L’essenza etica della donazione appare contraddetta nell’esperienza del dono avvelenato, dispotico, esibizionistico, prevaricatore, ricattatorio. Il dono che non corrisponde al suo ideale etico appare come un dono falso, ferito, tradito: indegno della speciale apertura di credito che la donazione suscita. Perciò la corruzione del rapporto che in qualche modo si accende nella forma del dono è particolarmente odiosa e spregevole.
Nella coscienza dell’uomo, dunque, il dono è pensato nella sua purezza: ma appunto non è pensabile in quella presunta purezza che pretende, quale condizione paradossale, il totale oblio del legame ontologico che esso crea, e l’annullamento della libera relazione che vi corrisponde. Il dono, d’altra parte, è necessariamente destinato ad istaurare un libero legame di corrispondenza: dunque non può concepirsi in totale assenza di desiderio e di scambio, ossia di affetti e di reciprocità. Il raccordo ha indubbiamente un suo aspetto enigmatico e paradossale. Ma appunto in questo sta la sfida che esso rivolge alla comprensione dell’esperienza.
Nella ricerca di una pura essenza fenomenologica dell’essere-del-dono, che sfugga nondimeno all’aporia utilmente sviscerata da Derrida, Marion individua nell’essere-per-il-dono la traccia possibile. Esistono figure della donazione nelle quali appare di volta in volta la possibilità, o anche la necessità, di mettere «fra parentesi» il donatore (per esempio l’eredità), il donatario (la donazione del sangue), e persino il dono materiale (come nel caso del dono di sé, del proprio tempo, della propria attenzione). Ma sempre avviene che, quando si apre l’orizzonte della donazione, qualcosa/qualcuno assume l’identità simbolica dell’essere-per-la-donazione.
Sicché come tale incomincia a riguardarci e ad essere riguardato, sollecitando un’attenzione che ne identifica la qualità più propria, e la destinazione più giusta, proprio nella donazione. Anche quando non si presenta nessuno che materialmente impersona il soggetto del dare e del ricevere, pure se il dono venga ignorato o rifiutato, e persino se non giunga alla effettualità di un distacco e di una appropriazione, di un trasferimento o di un consumo, l’essere-per-la-donazione continua ad avvolgere quell’ente o quell’evento, inerendogli come la sua forma più propria ed essenziale. Al punto che ogni altro «uso» o «godimento» apparirà improprio, come un’origine tradita o una destinazione mancata.
Anche il ragionamento di Marion, che qui abbiamo forzatamente solo evocato, ha qualche tratto di raffinatezza persino eccessiva. Tuttavia, come già quello (a tratti anche più virtuosistico) di Derrida, mette in luce un punto nodale. Se nel caso di Derrida la riflessione impegna alla revisione della struttura teorica fondamentale di un’astratta concezione teologico-lineare del dono come puro dono-a-perdere, nel quadro dell’analisi di Marion viene in luce la necessità di chiarire l’orizzonte della donazione come fondamento ontologico di quella tipica ipotesi di relazione che è suscitata dal manifestarsi di un essere-per-la-donazione.