La Liturgia nel tempo della Chiesa appartiene alla storia di salvezza (di Salvatore Marsili)
(da Salvatore Marsili, Presentazione, in B. Neunheuser, S. Marsili, M. Augé, R. Civil, Anàmnesis 1. La liturgia, momento della storia della salvezza, Marietti, Casale Monferrato, 1974, pp. 5-6)
Il Vaticano II ha riportato in modo veramente nuovo la Liturgia alla coscienza della Chiesa, riscoprendola come “il termine più alto (culmen) cui tende tutta l’azione della Chiesa e insieme come la sorgente (fons) donde a questa derivano tutte le sue energie” (SC 10).
Con questa affermazione, che supera d’un colpo ogni visione tanto di ordine puramente esterno-rubricale, quanto di valore prevalentemente giuridico-giurisdizionale, la Liturgia viene situata, insieme con Cristo e – com’è chiaro – dipendentemente da lui (Ap 1,8; 22,13), come “l’alfa e l’omega, il principio e la fine” di tutta la vita della Chiesa. Siamo infatti di fronte a un’elevazione della Liturgia al rango di componente essenziale dell’opera di salvezza, e precisamente sulla linea “cristologica”.
Questo significa che una conoscenza vera della Liturgia non si può avere arrestandosi alla pura ricerca scientifica sul piano storico delle origini, delle fonti, dell’evoluzione o dell’involuzione delle formule e dei riti, ma che al contrario è necessario, al fine di una comprensione autentica della Liturgia in se stessa e in riferimento alla sua funzione nella Chiesa, inquadrarla e approfondirla nella sua dimensione “teologica-economica” e cioè nella “teologia del mistero di Cristo”.
La Liturgia infatti dovrà rivelarsi come il momento attuatore della storia della salvezza, creando così il “tempo della Chiesa” ossia l’estensione della salvezza nell’ambito della comunità umana, come l’Incarnazione era stata il momento attuatore della stessa storia di salvezza in Cristo.
Questa unità teologica è stata espressa nel titolo stesso dell’opera: “Anàmnesis”, che in greco sta per il nostro “memoria” e “memoriale”. Anche se questo termine è conosciuto come particolarmente espressivo dell’Eucaristia (Lc 22,19; 1 Cor 11,24-25), non è esclusivo appannaggio di essa, perché in realtà tutta la Liturgia, tanto nel suo aspetto globale, quanto nei suoi momenti particolari di “sacramenti” di “lode”, altro non é che presenza del mistero di Cristo realizzato attraverso la “memoria” di esso oggettiva e concreta.
In verità, considerando che la Liturgia non è opera che parte dall’uomo, ma è il mistero stesso di Cristo posto in azione tra gli uomini per mezzo di segni cultuali, per inverare in essi la realtà salvifica, non sarebbe stato né fuori luogo né difficile far comparire nel titolo la parola “Mistero”, che avrebbe dichiarato in maniera più immediata la linea teologica dell’opera. Ma gli autori hanno preferito perdere questo vantaggio, non per rinnegare - è chiaro – il collegamento intimo esistente tra “Mistero” e “Liturgia”, ma perché intendevano, ponendo in primo piano l’Anàmnesis, accentuare subito il fatto importantissimo che la Liturgia è presenza reale del mistero di Cristo, prima di tutto perché ne è il “memoriale”. Si otteneva così un duplice scopo: Non s’intaccava la linea teologica che scopre nella Liturgia la continuazione della storia della salvezza realizzata in Cristo, e, nello stesso tempo, la si completava, sia perché si annunciava il “modo” in cui il mistero continua, sia perché si insinuava il “soggetto” agente della celebrazione liturgica, e cioè la Chiesa. A essa infatti è stata fatta la “tradizione del mistero del NT”, affinché lo “annunzi in se stessa facendone la memoria” (1 Cor 11,24-26).
(da Salvatore Marsili, La liturgia, momento storico della salvezza, in B. Neunheuser, S. Marsili, M. Augé, R. Civil, Anàmnesis 1. La liturgia, momento della storia della salvezza, Marietti, Casale Monferrato, 1974, pp. 91-92)
Il tempo della Chiesa è continuazione del tempo di Cristo, non per ragione di semplice successione temporale, ossia perché viene “dopo” Cristo. La linea di continuazione che legherà il tempo della Chiesa al tempo di Cristo è costituita dalla Liturgia.
Il discorso liturgico vero e proprio del concilio Vaticano II comincia, infatti, solo con l’art. 6 di SC (N.d.R. SC = Sacrosanctum Concilium). Dopo aver tracciato in sintesi i momenti di attuazione completa in Cristo, la SC richiama la “missione di Cristo”. Questa non arresta la “missione eterna” dell’amore del Padre, concretizzatasi in Cristo, anzi la riprende e la continua, con la differenza che, dopo l’avvenimento di salvezza realizzatosi in Cristo, la “missione” dell’amore del Padre non consisterà più in un annunzio, come era quello che aveva preceduto l’attuazione della parola in Cristo: era, infatti, un annunzio di cose ancora non reali nel mondo, ma solo future.
L’annunzio non può certamente mancare dopo Cristo; ma esso sarà d’ora in poi un vangelo (= lieto annunzio di avvenimento presente); dovrà infatti proclamare che la “Parola” si era compiuta “facendosi carne” ed era entrata nel mondo “prendendo dimora in mezzo a noi” (Gv 1,14). Questa “dimora della Parola in mezzo agli uomini” si realizzava su due piani contemporaneamente: come avvenimento della “realtà” della salvezza nell’uomo Gesù, e come presentazione “sacramentale” di essa.
Cristo, che giustamente sant’Agostino chiama “nome sacramentale”, non è infatti solo “presenza salvifica” di Dio, ma è anche il suo “sacramento” (Col 1,27; 4,3; Ef 3,4) in quanto “segno” visibile e “immagine” (Col 1,15) di una salvezza fino allora restata nascosta e invisibile (Ef 3,9; Col 1,26). È appunto su questo piano “sacramentale” che la “Parola fatta carne” potrà diventare realtà salvifica per tutti gli uomini, sempre e ogni volta che questi, avvicinati a Cristo dall’annuncio dell’avvenimento di salvezza (fede), cercheranno di inserirsi in essa, attuandone in se stessi l’avvenimento (Liturgia).
In questa linea si muove la SC 6, quando scrive:
“Come Cristo fu mandato dal Padre, così egli mandò gli Apostoli, perché annunziassero… che il Figlio di Dio ci aveva liberati… e perché attuassero, per mezzo del sacrificio e dei sacramenti – su cui gira tutta la Liturgia - quella stessa opera di salvezza che annunziavano”.
Qui abbiamo espressa non solo la intima relazione che passa tra Scrittura e Liturgia, ma la Liturgia chiaramente appare come momento della Rivelazione – storia della salvezza, in quanto attuazione del mistero di Cristo, oggetto di tutta la rivelazione. Questa attuazione riguarda tanto il mistero di Cristo in se stesso – realizzazione nel tempo – quanto il suo annunzio. Oggi cioè la Liturgia è anch’essa – come Cristo stesso – un avvenimento di salvezza, nel quale continua a trovare compimento quell’annunzio che nel tempo antico prometteva la realtà di Cristo.
In questo senso e per questa sua posizione di “sintesi” e di “compimento ultimo”, la Liturgia è quella che ultimamente costituisce il tempo della Chiesa. Questa infatti si viene edificando nel mondo a mano a mano che negli uomini s’inserisce vitalmente il mistero di Cristo, cosa che si raggiunge con l’annunzio, come elemento predispondente, e con l’attuazione del mistero, attraverso l’azione sacramentale della Liturgia.
La SC 7 – concludendo – può quindi affermare che la Liturgia è l’esercizio dell’ufficio sacerdotale di Cristo, esercizio che
a) implica la santificazione degli uomini e insieme il perfetto culto di Dio, e
b) si esplica in un regime di segni.
Come si vede, nella Liturgia viene messa al primo posto “la santificazione degli uomini”, perché solo con la santità l’uomo può rendere culto a Dio. Non bisogna infatti confondere il “culto” con le sue esteriori “espressioni”. Queste sono tali (“espressioni”) e sono valide solo quando appunto “esprimono” uno stato di reale e totale adesione a Dio. Questo non può ottenersi dall’uomo sul piano umano, ma solo quando l’ontologica unità esistente in Cristo tra l’uomo e Dio, viene comunicata all’uomo: a questo provvede appunto la Liturgia con i suoi “sacramenti”. Per essi infatti il mistero di Cristo diventa una realtà che investe tutti gli uomini.
Il Vaticano II ha riportato in modo veramente nuovo la Liturgia alla coscienza della Chiesa, riscoprendola come “il termine più alto (culmen) cui tende tutta l’azione della Chiesa e insieme come la sorgente (fons) donde a questa derivano tutte le sue energie” (SC 10).
Con questa affermazione, che supera d’un colpo ogni visione tanto di ordine puramente esterno-rubricale, quanto di valore prevalentemente giuridico-giurisdizionale, la Liturgia viene situata, insieme con Cristo e – com’è chiaro – dipendentemente da lui (Ap 1,8; 22,13), come “l’alfa e l’omega, il principio e la fine” di tutta la vita della Chiesa. Siamo infatti di fronte a un’elevazione della Liturgia al rango di componente essenziale dell’opera di salvezza, e precisamente sulla linea “cristologica”.
Questo significa che una conoscenza vera della Liturgia non si può avere arrestandosi alla pura ricerca scientifica sul piano storico delle origini, delle fonti, dell’evoluzione o dell’involuzione delle formule e dei riti, ma che al contrario è necessario, al fine di una comprensione autentica della Liturgia in se stessa e in riferimento alla sua funzione nella Chiesa, inquadrarla e approfondirla nella sua dimensione “teologica-economica” e cioè nella “teologia del mistero di Cristo”.
La Liturgia infatti dovrà rivelarsi come il momento attuatore della storia della salvezza, creando così il “tempo della Chiesa” ossia l’estensione della salvezza nell’ambito della comunità umana, come l’Incarnazione era stata il momento attuatore della stessa storia di salvezza in Cristo.
Questa unità teologica è stata espressa nel titolo stesso dell’opera: “Anàmnesis”, che in greco sta per il nostro “memoria” e “memoriale”. Anche se questo termine è conosciuto come particolarmente espressivo dell’Eucaristia (Lc 22,19; 1 Cor 11,24-25), non è esclusivo appannaggio di essa, perché in realtà tutta la Liturgia, tanto nel suo aspetto globale, quanto nei suoi momenti particolari di “sacramenti” di “lode”, altro non é che presenza del mistero di Cristo realizzato attraverso la “memoria” di esso oggettiva e concreta.
In verità, considerando che la Liturgia non è opera che parte dall’uomo, ma è il mistero stesso di Cristo posto in azione tra gli uomini per mezzo di segni cultuali, per inverare in essi la realtà salvifica, non sarebbe stato né fuori luogo né difficile far comparire nel titolo la parola “Mistero”, che avrebbe dichiarato in maniera più immediata la linea teologica dell’opera. Ma gli autori hanno preferito perdere questo vantaggio, non per rinnegare - è chiaro – il collegamento intimo esistente tra “Mistero” e “Liturgia”, ma perché intendevano, ponendo in primo piano l’Anàmnesis, accentuare subito il fatto importantissimo che la Liturgia è presenza reale del mistero di Cristo, prima di tutto perché ne è il “memoriale”. Si otteneva così un duplice scopo: Non s’intaccava la linea teologica che scopre nella Liturgia la continuazione della storia della salvezza realizzata in Cristo, e, nello stesso tempo, la si completava, sia perché si annunciava il “modo” in cui il mistero continua, sia perché si insinuava il “soggetto” agente della celebrazione liturgica, e cioè la Chiesa. A essa infatti è stata fatta la “tradizione del mistero del NT”, affinché lo “annunzi in se stessa facendone la memoria” (1 Cor 11,24-26).
(da Salvatore Marsili, La liturgia, momento storico della salvezza, in B. Neunheuser, S. Marsili, M. Augé, R. Civil, Anàmnesis 1. La liturgia, momento della storia della salvezza, Marietti, Casale Monferrato, 1974, pp. 91-92)
Il tempo della Chiesa è continuazione del tempo di Cristo, non per ragione di semplice successione temporale, ossia perché viene “dopo” Cristo. La linea di continuazione che legherà il tempo della Chiesa al tempo di Cristo è costituita dalla Liturgia.
Il discorso liturgico vero e proprio del concilio Vaticano II comincia, infatti, solo con l’art. 6 di SC (N.d.R. SC = Sacrosanctum Concilium). Dopo aver tracciato in sintesi i momenti di attuazione completa in Cristo, la SC richiama la “missione di Cristo”. Questa non arresta la “missione eterna” dell’amore del Padre, concretizzatasi in Cristo, anzi la riprende e la continua, con la differenza che, dopo l’avvenimento di salvezza realizzatosi in Cristo, la “missione” dell’amore del Padre non consisterà più in un annunzio, come era quello che aveva preceduto l’attuazione della parola in Cristo: era, infatti, un annunzio di cose ancora non reali nel mondo, ma solo future.
L’annunzio non può certamente mancare dopo Cristo; ma esso sarà d’ora in poi un vangelo (= lieto annunzio di avvenimento presente); dovrà infatti proclamare che la “Parola” si era compiuta “facendosi carne” ed era entrata nel mondo “prendendo dimora in mezzo a noi” (Gv 1,14). Questa “dimora della Parola in mezzo agli uomini” si realizzava su due piani contemporaneamente: come avvenimento della “realtà” della salvezza nell’uomo Gesù, e come presentazione “sacramentale” di essa.
Cristo, che giustamente sant’Agostino chiama “nome sacramentale”, non è infatti solo “presenza salvifica” di Dio, ma è anche il suo “sacramento” (Col 1,27; 4,3; Ef 3,4) in quanto “segno” visibile e “immagine” (Col 1,15) di una salvezza fino allora restata nascosta e invisibile (Ef 3,9; Col 1,26). È appunto su questo piano “sacramentale” che la “Parola fatta carne” potrà diventare realtà salvifica per tutti gli uomini, sempre e ogni volta che questi, avvicinati a Cristo dall’annuncio dell’avvenimento di salvezza (fede), cercheranno di inserirsi in essa, attuandone in se stessi l’avvenimento (Liturgia).
In questa linea si muove la SC 6, quando scrive:
“Come Cristo fu mandato dal Padre, così egli mandò gli Apostoli, perché annunziassero… che il Figlio di Dio ci aveva liberati… e perché attuassero, per mezzo del sacrificio e dei sacramenti – su cui gira tutta la Liturgia - quella stessa opera di salvezza che annunziavano”.
Qui abbiamo espressa non solo la intima relazione che passa tra Scrittura e Liturgia, ma la Liturgia chiaramente appare come momento della Rivelazione – storia della salvezza, in quanto attuazione del mistero di Cristo, oggetto di tutta la rivelazione. Questa attuazione riguarda tanto il mistero di Cristo in se stesso – realizzazione nel tempo – quanto il suo annunzio. Oggi cioè la Liturgia è anch’essa – come Cristo stesso – un avvenimento di salvezza, nel quale continua a trovare compimento quell’annunzio che nel tempo antico prometteva la realtà di Cristo.
In questo senso e per questa sua posizione di “sintesi” e di “compimento ultimo”, la Liturgia è quella che ultimamente costituisce il tempo della Chiesa. Questa infatti si viene edificando nel mondo a mano a mano che negli uomini s’inserisce vitalmente il mistero di Cristo, cosa che si raggiunge con l’annunzio, come elemento predispondente, e con l’attuazione del mistero, attraverso l’azione sacramentale della Liturgia.
La SC 7 – concludendo – può quindi affermare che la Liturgia è l’esercizio dell’ufficio sacerdotale di Cristo, esercizio che
a) implica la santificazione degli uomini e insieme il perfetto culto di Dio, e
b) si esplica in un regime di segni.
Come si vede, nella Liturgia viene messa al primo posto “la santificazione degli uomini”, perché solo con la santità l’uomo può rendere culto a Dio. Non bisogna infatti confondere il “culto” con le sue esteriori “espressioni”. Queste sono tali (“espressioni”) e sono valide solo quando appunto “esprimono” uno stato di reale e totale adesione a Dio. Questo non può ottenersi dall’uomo sul piano umano, ma solo quando l’ontologica unità esistente in Cristo tra l’uomo e Dio, viene comunicata all’uomo: a questo provvede appunto la Liturgia con i suoi “sacramenti”. Per essi infatti il mistero di Cristo diventa una realtà che investe tutti gli uomini.