«Mi volete bene? Me ne volete molto?» «Questo bambino di genio non si stancherà mai di studiare fino alla morte, per imparare la sua arte ascoltando gli insegnamenti dei maestri, anzi dei vice-maestri, dei suoi pari e dei suoi inferiori - Sebastian Bach o Clementi - con una pazienza, un'ostinazione, un'umiltà di scolaro. I due miracoli, quello del dono ricevuto e quello della docilità, si integrano». W.A. Mozart secondo H. Ghéon
da Ghéon H., Mozart, Lit Edizioni Srl, Roma, 2014, pp. 5-6
Fin dall'età di sei anni, Mozart fu portato in giro per i vari Paesi, fu esibito come un cane ammaestrato ai monarchi d'Europa, incensato, colmato di regali e di blandizie, e a coloro che gli dimostravano interesse e ammirazione, chiedeva con ingenuità tutta infantile: «Mi volete bene? Me ne volete molto?».
Era un grido dell'anima.
Non sentiva la necessità di amare, dal momento che il suo cuore già traboccava di tenerezza, ma desiderava essere amato come meritava per quel dono preziosissimo, divino, che nessun artista mai, come lui, ha ricevuto in sì tenera età e a un sì alto grado di purezza.
A lui, che era l'essenza stessa dell'amore, tutti dovevano amore. La più grande tristezza del Calvario, la nostra più grave offesa fatta a Colui che vi salì e vi soffrì per noi, non è stata forse la nostra indifferenza? Chiedo scusa per questo paragone, che potrebbe sembrare irriverente, ma che non lo è: infatti il bambino prodigio di Salisburgo sentiva in sé una favilla di Dio e appunto per questo esigeva amore.
Inconsciamente, ingenuamente. Quando più tardi, col passar degli anni, avrà piena coscienza del suo merito o, più esattamente, del tesoro che ha in sé, lo proclamerà senza falsa modestia ma anche senza alcun orgoglio. Non è merito suo, quel dono impareggiabile gli è stato concesso dal destino e non è neppure colpa sua se sente la necessità di essere amato.
«Mi volete bene? Me ne volete molto?».
Non ripete questa domanda per abitudine, né per fantasia né per capriccio, non la ripete per snobismo o per ostentazione, ma gli sgorga spontanea dall'animo e dal cuore.
Quanti fra i suoi amici hanno afferrato il vero significato di questa accorata supplica infantile? E, finché era vivo, come gli hanno risposto tutti coloro sui quali profondeva i tesori immensi della sua musica?
Quando crebbe (e con lui cresceva il suo genio) fu messo in disparte come un vecchio giocattolo che non diverte più. A ogni tappa della vita, doveva ricominciare tutto da zero, a ogni prova della sua arte doveva subito farne seguire un'altra per non essere dimenticato. Il suo successo era sempre senza domani, i suoi amori, le sue amicizie non avevano mai seguito. Non che fosse incompreso, almeno non credo, ma non era apprezzato per quel che valeva, e questo, secondo me, è anche peggio. Persino da suo padre, persino da sua moglie. Era oppresso dai debiti, lavorava notte e giorno oltre le forze. Anche la morte lo sorprese al lavoro, e allora fu gettato nella fossa comune e dimenticato. […]
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Tutto lo attira e nulla lo respinge. Bambino terribile? No, o almeno non più degli altri. Non v'è nulla di perverso in lui, nulla di poco sincero, di fittizio. È un bambino ebbro d'infanzia e ne ha ben diritto. Dobbiamo aggiungere che è anche un bambino buono, obbediente e studioso.
Qual è il più gran divertimento di questo bambino? Suonare, Qual è il suo dovere, qual è la sua necessità? Imparare, ascoltare coloro che sanno e che hanno una certa influenza su di lui. Questo forse screditerà il nostro ometto agli occhi di coloro che già lo immaginano come il Rimbaud di un secolo lezioso, creato così da madre natura e deciso a fare tutto di testa sua. Questo bambino di genio non si stancherà mai di studiare fino alla morte, ci si metterà a più riprese, per imparare la sua arte ascoltando gli insegnamenti dei maestri, anzi dei vice-maestri, dei suoi pari e dei suoi inferiori - Sebastian Bach o Clementi - con una pazienza, un'ostinazione, un'umiltà di scolaro.
I due miracoli, quello del dono ricevuto e quello della docilità, si integrano.