Il Magistero e non la teologia è la norma vincolante della Chiesa (da P. Asolan)
da Paolo Asolan, Per una più consapevole e vigorosa adesione al vangelo, Lateran University Press, in corso di pubblicazione
Il 15 gennaio 1969 Hubert Jedin – celebre storico del concilio tridentino[1] ed egli stesso coinvolto nello studio del congegno procedurale del Vaticano II e nella riforma degli studi teologici – pubblicò un articolo su L'Osservatore Romano, dal titolo Storia della Chiesa e crisi della Chiesa[2].
Tale crisi veniva da lui classificata come una crisi liturgica, dell'autorità e di fede: quest'ultima – la più grave – identificabile con il venir meno del «privilegio della Chiesa cattolica di dire chiaro e univocamente ai suoi fedeli ciò che devono credere»[3].
Lo storico paragonò i mutamenti ai quali la fede era sottoposta nell'immediato dopo Concilio a quelli avvenuti in due diversi passaggi cruciali della storia della Chiesa, e cioè il tramonto della cultura ellenistico-romana e la Riforma luterana. In entrambi i casi, la vita e la missione della Chiesa poterono continuare sia per un rafforzamento dell'autorità istituzionale dei suoi pastori (debitamente ri-formata e ri-converita al suo statuto evangelico), sia per il ristabilimento della sicurezza della fede, dando così anche alla teologia un fondamento certo sopra il quale esercitarsi.
«La Chiesa ha potuto resistere e sopravvivere a entrambe le crisi che noi abbiamo tirato in campo come oggetti di confronto, perché ha messo al primo posto la preservazione del patrimonio rivelato affidatole, mediante il magistero. La teologia dopo la caduta del mondo antico non ha potuto mantenersi all'altezza che aveva raggiunto all'epoca dei grandi Padri della Chiesa, con un Origene e un Agostino. Il magistero ecclesiatico ha ripiegato su formule come il Simbolo di fede niceno-costantinopolitano, il cosiddetto Credo di Atanasio ed altri Simboli, nella istruzione del popolo e nell'evangelizzazione segnatamente si è accontentata dei più semplici strumenti dottrinari, il Credo apostolico, il Pater noster e il decalogo»[4].
La tesi – del tutto condivisibile – dello storico è questa: anche in questa sorta di “automutilazione” (e, forse, proprio in virtù di essa) il magistero ha saputo/potuto conservare la continuità della fede, organicamente espressa nei Simboli della fede.
Da qui discende un corollario pastoralmente interessante e bisognoso di esprimersi praticamente in forme assai migliori di quanto non sia finora avvenuto: il magistero della Chiesa, non la teologia, è e rimane anche oggi la norma vincolante della nostra fede.
La teologia deve cercare (con la fede!) di impadronirsi del contenuto della fede, può renderne meglio intelligibili e comprensibili i misteri, mostrando le relazioni che essi mutuamente intrattengono tra loro. Può/deve fare questo lavorando con il proprio metodo scientifico, svolgendo così un compito importante per il magistero stesso, ma non si identifica con esso.
Portatori del magistero sono e rimangono i successori degli apostoli.
Emerge sotto questo profilo, il compito fondamentale del vescovo e una nota saliente della sua figura la quale, nella percezione diffusa, «appare come la più sbiadita delle figure ecclesiali: riferita, perlopiù, al conferimento della cresima, o al ruolo di direzione della Chiesa (dei preti) su un determinato territorio, per mandato e in rappresentanza del Papa»[5].
In realtà, nella sua Chiesa egli è anzitutto testimone della fede in Cristo Risorto.
Nella prospettiva neo-testamentaria, infatti, il munus profetico non fa appello, nel suo riferimento genetico e nel suo nucleo sostanziale, a un dono di ispirazione individuale (“carismatico”, com'è invalso sempre più dire, non del tutto propriamente), ma allo spessore storico-biografico della fede testimoniale[6]. Il vescovo, cioè, non è garante dell'ortodossia della fede in forza di un carisma soggettivo, e neppure della sua (peraltro auspicabile) competenza teologica, ma in forza della ininterrotta e incorrotta successione apostolica.
Rimanda egli stesso, cioè, a un evento e a una Persona storici, e li annuncia non come un fatto del passato, ma come un evento efficace, dinamico e prolettico.
La crisi della fede che stiamo attraversando, perciò, pone con sempre maggior rilievo, tra le esigenze strutturali della conversione pastorale, la forte connotazione del vescovo come pastore reale del popolo a lui affidato e primo testimone/confessore della fede apostolica. Non sarà un caso che il n. 8 del Motu proprio costituisca un invito che il Papa rivolge ai “Confratelli Vescovi di tutto l'orbe”.
Note al testo
[1] Cfr. H. Jedin, Riforma cattolica o controriforma?, Morcelliana, Brescia 1995; Id., Breve storia dei concili, Morcelliana, Brescia 2006; nonché la monumentale Storia del Concilio di Trento (4 voll.), edita per i tipi della stessa editrice.
[2] H. Jedin, Storia della Chiesa e crisi della Chiesa, Edizioni O. R., Milano 1969.
[3] Ivi, p. 16.
[4] Ivi, p. 25.
[5] S. Lanza, Il Vescovo pastore e guida della vita pastorale diocesana, in Lateranum 5(LXXI)2-3, pp. 517-518.
[6] Cfr. ivi, pp. 534-535.