Potremo noi salvarci se, per negligenza, per paura, per vergogna - ciò che s. Paolo chiamava “arrossire del Vangelo” - o in conseguenza di idee false, trascuriamo di annunziarlo? (da Paolo VI e dai Lineamenta del Sinodo per la nuova evangelizzazione)
dai Lineamenta del Sinodo La Nuova Evangelizzazione per la trasmissione della fede cristiana, 2
Papa Paolo VI, rilanciando la priorità della evangelizzazione, ricordava a tutti i fedeli: «Non sarà inutile che ciascun cristiano e ciascun evangelizzatore approfondisca nella preghiera questo pensiero: gli uomini potranno salvarsi anche per altri sentieri, grazie alla misericordia di Dio, benché noi non annunziamo loro il Vangelo; ma potremo noi salvarci se, per negligenza, per paura, per vergogna – ciò che S. Paolo chiamava “arrossire del Vangelo” – o in conseguenza di idee false, trascuriamo di annunziarlo?» (Evangelii nuntiandi, n. 80). La domanda, con cui si chiude l’Evangelii nuntiandi, suona alle nostre orecchie come una originale esegesi del testo di s. Paolo da cui siamo partiti e ci aiuta a collocarci immediatamente al cuore del tema che in questo testo vogliamo affrontare: l’assoluta centralità del compito dell’evangelizzazione per la Chiesa di oggi. Verificare il nostro vissuto, la nostra attitudine alla evangelizzazione, è utile ad un livello funzionale, per migliorare le nostre pratiche e le nostre strategie di annuncio. Essa, più profondamente, è la via per interrogarci oggi sulla qualità della nostra fede, sul nostro modo di sentirci e di essere cristiani, discepoli di Gesù Cristo inviati ad annunciarlo al mondo, ad essere testimoni pieni di Spirito Santo (cf. Lc 24, 48s; At 1,8) chiamati a fare discepoli gli uomini di tutte le nazioni (cf. Mt 28, 19s).
La parola dei discepoli di Emmaus (cf. Lc 24, 13-35) è emblematica della possibilità di un annuncio fallimentare di Cristo, perché incapace di trasmettere vita. I due di Emmaus annunciano un morto (cf. Lc 24, 21-24), narrano la loro frustrazione e la loro perdita di speranza. Essi dicono la possibilità, per la Chiesa di sempre, di un annuncio che non dà vita, ma tiene chiusi nella morte il Cristo annunciato, gli annunciatori e i destinatari dell’annuncio. La domanda circa il trasmettere la fede, che non è impresa individualistica e solitaria, ma evento comunitario, ecclesiale, non deve indirizzare le risposte nel senso della ricerca di strategie comunicative efficaci e neppure incentrarsi analiticamente sui destinatari, per esempio i giovani, ma deve essere declinata come domanda che riguarda il soggetto incaricato di questa operazione spirituale. Deve divenire una domanda della Chiesa su di sé. Questo consente di impostare il problema in maniera non estrinseca, ma corretta, poiché pone in causa la Chiesa tutta nel suo essere e nel suo vivere. E forse così si può anche cogliere il fatto che il problema dell’infecondità dell’evangelizzazione oggi, della catechesi nei tempi moderni, è un problema ecclesiologico, che riguarda la capacità o meno della Chiesa di configurarsi come reale comunità, come vera fraternità, come corpo e non come macchina o azienda.
«La Chiesa peregrinante è per sua natura missionaria» (Ad gentes, n. 2). Questa affermazione del Concilio Vaticano II riassume in modo semplice e completo la Tradizione ecclesiale: la Chiesa è missionaria perché trae origine dalla missione di Gesù Cristo e dalla missione dello Spirito Santo, secondo il disegno di Dio Padre (Cf. Lumen gentium, n. 2). Inoltre Chiesa è missionaria perché assume da protagonista questa origine, facendosi annunciatrice e testimone di questa Rivelazione di Dio e raccogliendo il popolo di Dio dalla dispersione, così che si possa adempiere quella profezia del profeta Isaia che i Padri della Chiesa hanno letto come indirizzata ad essa: «Allarga lo spazio della tua tenda, stendi i teli della tua dimora senza risparmio, allunga le cordicelle, rinforza i tuoi paletti, poiché ti allargherai a destra e a sinistra e la tua discendenza possederà le nazioni, popolerà le città un tempo deserte» (Is 54, 2-3) (Cf. S. Ilario di Poitiers, In Ps. 14: PL 9, 301; Eusebio di Cesarea, In Isaiam 54, 2-3: PG 24, 462-463; S. Cirillo d’Alessandria, In Isaiam V, cap. 54, 1-3: PG 70, 1193).