Vanità e verità
dall’«Imitazione di Cristo» (Lib. 3, 14)
Tu tuoni sopra di me i tuoi giudizi, o Signore, e di timore e tremore scuoti tutte le mie ossa. L’anima mia è molto sbigottita. Rimango attonito e considero che i cieli non sono puri ai tuoi occhi. Se hai trovato difetti negli angeli (cfr. Gb15,15; 4,18) e non li hai risparmiati, che cosa avverrà di me? Caddero le stelle dal cielo (cfr. Ap6,13), e io, polvere, che cosa presumo? Alcuni uomini che sembravano seguire una condotta sublime, caddero nel più basso; e chi mangiava il pane degli angeli, l’ho poi visto compiacersi delle ghiande dei porci. Non c’è, dunque, nessuna santità, se tu, Signore, sottrai la tua mano. Nessuna sapienza giova, se tu smetti di governare. Nessuna fortezza vale, se tu cessi di sostenere. Se siamo abbandonati, affondiamo e periamo. Se invece siamo visitati, c’innalziamo e viviamo. Siamo instabili, ma da te siamo fatti saldi. Ci intepidiamo, ma tu ci riaccendi. Ogni gloria fatua è inghiottita dalla profondità dei tuoi giudizi su me. Che cos’è ogni carne al tuo cospetto? Forse che la creta si glorierà contro chi la plasma? (cfr. Is29,16). Come può perdersi in vanterie chi ha il senso vivo della verità e sta soggetto a Dio? Il mondo intero non riuscirebbe a fare inorgoglire colui che si sente sottomesso alla legge della verità, né il labbro di tutti gli adulatori smuoverà colui che ha stabilito ogni sua speranza in Dio. Quelli stessi che parlano, son nulla anche loro; verranno meno col suono delle parole: «La fedeltà del Signore», invece, «dura in eterno» (Sal116,2).