Solitudine e isolamento
di Denis Vasse
Quando
l’isolamento viene troppo velocemente scambiato per rinuncia, quando
l’impotenza a lasciar crescere il desiderio viene battezzata “sublimazione”,
tutta la vita viene orientata a giustificare questi controsensi.
La rinuncia, infatti, è in correlazione al desiderio come la solitudine
lo è della relazione con l’altro. Per rinunciare a qualcosa o
a qualcuno bisogna essere in condizione di desiderare qualcosa o di amare
qualcuno. Il desiderio ci lega a ciò che non siamo, a un altro. Il
suo impulso fa saltare l’universo illusorio in cui basterebbe sognare
l’altro per possederlo e per goderne. Per realizzare quell’essere
di desiderio che è, per essere rivelato a se stesso, l’uomo ha
bisogno di conoscere il mondo come oggetto del proprio desiderio, e questo
mentre riconosce come autonomo l’essere che egli afferra ma che costantemente
gli sfugge. Dal momento che riguarda ciò che vi è in noi di
più profondo, questo cammino risveglia la nostra angoscia: non trovando
soddisfazione in noi stessi, siamo protesi verso l’altro che costantemente
ci rinvia a noi stessi. Giunti al puro impulso del desiderio dell’altro,
che per la sua radicale alterità sfugge a ogni riduzione immaginaria,
entriamo nella fase della vera rinuncia, che è superamento del bisogno
di essere consumati dall’altro o di consumarlo, per riconoscere anche
l’altro come portatore di un desiderio di cui siamo l’oggetto.
L’uomo che rinuncia accetta di testimoniare, con la propria solitudine,
il desiderio che lo lega all’altro. Il desiderio testimonia in lui la
libertà degli altri, per questo è la molla dell’amore.
Ma, in molti casi, tutto si svolge come se la rinuncia, da conseguenza dell’amore,
fosse diventata l’illusorio mezzo per giungervi. Più o meno incapaci
di amare, si rinuncia non più alla soddisfazione temporanea offerta
dall’oggetto del desiderio, ma al desiderio stesso. Rinunciare, allora,
è fare come se si fosse giunti al traguardo finale dell’amore
senza aver percorso la strada del desiderio. Si pretende di amare uccidendo
il desiderio, unica via di accesso all’altro. Vi è un completo
capovolgimento: invece di aderire all’impulso di un desiderio che può
essere colmato solo con il tutto, e che, proprio per questo, non si aliena
in nessun oggetto, ci si ostina a non desiderare nulla. Da espressione paradossale
e vera dell’amore, la rinuncia si trasforma in trucco, in mezzo che
con la sua esigenza inumana fa dimenticare – ed è questo il suo
scopo – l’incapacità o la paura di amare.
Ci si “rifugia” nella preghiera, si fa penitenza per desideri
immaginari... quegli stessi che, in fin dei conti, si vorrebbe sentire dentro
di sé. Si rinuncia per ingannare se stessi: ecco che basta fare penitenza
per amare, mentre in realtà si tratta proprio del contrario!
Dalla pseudo-rinuncia all’isolamento il passo è breve. Il carattere
illusorio di un desiderio che non s’inscrive mai nella realtà
– che non si realizza mai nella rinuncia ai propri oggetti – rischia
una sublimazione troppo veloce, che è solo la maschera del vuoto. Si
desidera il cielo, e questo permette di evitare il mondo presente, al di fuori
del quale però l’uomo non esiste. Per essere un giorno capaci
di “uscire” da questo mondo, bisogna prima esserci realmente entrati.
Si può imparare a desiderare l’altro mondo solo se si realizza
quello presente, cioè se se ne fa l’oggetto del proprio desiderio.
Quando è simulata, la solitudine della rinuncia – sotto qualunque
forma, quella del matrimonio o della vita religiosa – diventa isolamento
che cela un’impotenza. Coloro che si isolano innalzano in tal modo intorno
a sé i baluardi della loro torre d’avorio. Essi elevano anche
il loro masochismo a principio di vita, cioè si autodistruggono. Pagano
la loro pseudo-saggezza al prezzo della loro dissoluzione, ammantati d’ingenuità
per sopportare l’inevitabile e intollerabile costrizione della realtà,
in cui tenta di inscriversi il desiderio degli altri e il loro. L’abnegazione
assume il sapore di un’inconscia commedia il cui risultato è,
con modalità diverse, sempre lo stesso: agli occhi degli altri, e più
ancora ai propri occhi, questi sacrificati dell’amore fanno dell’incapacità
di raggiungere l’altro nel suo corpo il segno senza contenuto dell’amore
autentico. Anche se ha mura d’avorio, la loro torre è vuota:
non ha senso. Il loro “io” non viene all’esistenza né
s’instaura un rapporto con un “tu” o un “voi”,
donde la lenta dissoluzione della sua stessa sostanza, il desiderio dell’altro.
Il misconoscimento dell’altro porta a negare il desiderio, che non ha
più ragion d’essere e, di conseguenza, porta anche al misconoscimento
di se stessi. Quando l’isolato apre la porta della propria torre per
lasciar penetrare qualcuno nel suo cuore, sottomette ben presto l’originalità
e l’alterità del suo ospite per tentare di assimilarlo a sé.
Divenuto suo esclusivo possesso, lo spezza e, così facendo, soffoca
ulteriormente il proprio desiderio. Con le parole di una canzone di Brassens:
“E quando crede di aver raggiunto la felicità, la spezza”.
Non è un caso se nell’immaginario del peccato come nelle fantasie
di Narciso, i temi della prigione e della morte vanno insieme. Narciso si
uccide perché è prigioniero della propria immagine.
Se la lama del desiderio non arriva al cuore di questa pace illusoria, tutte
le risorse di vita sono utilizzate per la morte. Esse sono mobilitate a vantaggio
di un universo di fantasie senza consistenza. L’amore non è che
un sogno in cui il mondo e gli altri non esistono, e tanto meno esiste l’io.
Resta la falsa speranza di chi crede in un altro mondo per dimenticare questo...
Dunque, al termine di queste riflessioni, si potrebbe dire che l’isolamento
tragga origine dal non riconoscimento del desiderio che permette di accedere
alla solitudine. Ma la solitudine non si comprende al di fuori della relazione
con l’altro, di cui essa è, a sua volta, garante.
Stando così le cose, non solo la solitudine si oppone all’isolamento,
ma acquista un senso ulteriore: diventa uno dei segni distintivi dell’amore;
forse ne è il solo. Non c’è amore senza il doloroso apprendistato
della solitudine, ma è possibile una pseudo-solitudine senza amore,
quella dell’isolamento. Scrive Simone Weil:
Non lasciarti imprigionare da nessun affetto. Preserva la tua solitudine.
Il giorno, se mai esso verrà, in cui ti fosse dato un vero affetto,
non ci sarebbe opposizione fra la solitudine intima e l’amicizia; anzi,
tu potrai riconoscerla proprio a quel segno infallibile.
La solitudine è il crogiolo dell’amore. E’ la prova per
la quale passano, a livelli diversi, lo sposo, l’amico, il mistico.
Essa non è sterile ripiegamento, ma realizzazione della costante novità
del desiderio: desiderio dell’altro, desiderio di aprire all’altro
quella parte di noi stessi che sfugge al nostro stesso sguardo, a quest’altro
che ci è più intimo di noi stessi. Essa è fedeltà
al desiderio unico la cui realizzazione non è possibile che nell’invincibile
speranza che ne costituisce la forza e che, di supplica in supplica, ci conduce
al cuore invisibile del mondo: Dio.