da A. A. V .V., La solitudine, AVE (Roma 1966)
di Madeleine Delbrêl
Come colui che lascia Parigi per il deserto sorride da lontano alla solitudine; come il viaggiatore che attende con cuore ansioso le lunghe giornate al mare; come il monaco che accarezza con gli occhi i muri della sua clausura, così, fin dal mattino, apriamo la nostra anima alle piccole solitudini della giornata.
Perché le nostre piccole solitudini sono grandi, esaltanti, sante al pari di tutti i deserti del mondo; esse, che sono abitate da Dio stesso, il Dio che fa santa la solitudine.
Solitudine del nero asfalto che separa la nostra casa dalla fermata del tram, solitudine di un banchetto al quale altri esseri portano la loro parte di mondo, solitudine dei lunghi corridoi in cui scorre il flusso continuo di tutte le vite in cammino verso una nuovo giornata. Solitudine dei momenti in cui, accovacciati davanti alla stufa, si attende la fiamma del pezzetto di legna prima di mettere il carbone; solitudine della cucina davanti alla pentola dei legumi. Solitudine quando si lucida ginocchioni il pavimento, lungo il sentiero dell’orto in cui si va a cogliere un mazzo d’insalata. Piccole solitudini della scala che si scende e si sale cento volte al giorno. Solitudine delle lunghe ore di bucato, di rammendo, di stiratura.
Solitudini che potremmo temere e che sono lo svuotamento del nostro cuore: persone care che se ne vanno e che vorremmo con noi; amici che si aspettano e che non arrivano; cose che si vorrebbero dire e che nessuno ascolta; estraneità del nostro cuore in mezzo agli uomini.
Il primo passo verso la solitudine è una partenza. Il vero deserto lo si raggiunge, nel duplice senso del termine, prendendo il treno, la nave o l’aereo. Noi non sappiamo distinguere le numerose piccole partenze che si susseguono in una giornata perché non arriviamo mai alle solitudini che sono nostre, alle solitudini che ci sono state preparate. Per il solo fatto che uno stato di solitudine non è separato da noi che dallo spessore di una porta o dal periodo di un quarto d’ora, non gli riconosciamo il suo valore di eternità, non lo prendiamo sul serio, non lo affrontiamo come un complesso unitario, adatto alle rivelazioni essenziali.
Poiché il nostro cuore non sa attendere, i pozzi di solitudine di cui sono disseminate le nostre giornate ci rifiutano l’acqua vitale di cui traboccano.
Noi abbiamo la superstizione del tempo.
Se “il nostro amore richiede tempo”, l’amore di Dio si fa gioco delle ore, e un’anima disponibile può essere sconvolta da Lui in un istante.
“Ti condurrò nella solitudine e parlerò al tuo cuore”.
Se le nostre solitudini sono per noi dei cattivi conduttori della Parola, è perché il nostro cuore è assente.
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Non c’è solitudine senza silenzio.
Il silenzio è talvolta tacere, ma è sempre ascoltare. Un’assenza di rumore che fosse vuota della nostra attenzione alla parola di Dio non sarebbe silenzio. Una giornata piena di rumori, piena di voci, può essere una giornata di silenzio se il rumore diventa per noi l’eco della presenza di Dio, se le parole sono per noi messaggi e sollecitazioni di Dio.
Quando parliamo di noi stessi, quando parliamo tra noi, usciamo dal silenzio.
Quando ripetiamo con le nostre labbra gli intimi suggerimenti della Parola di Dio nel profondo di noi stessi, lasciamo il silenzio intatto.
Il silenzio non ama la confusione delle parole.
Sappiamo parlare o tacere, ma non sappiamo accontentarci delle parole necessarie. Oscilliamo senza posa tra un mutismo che affossa la carità e una esplosione di parole che svia la verità.
Il silenzio è carità e verità.
Esso risponde a colui che chiede qualcosa, ma non dà che parole cariche di vita. Il silenzio, come tutti gli impegni della vita, ci induce al dono di noi stessi e non ad un’avarizia mascherata. Ma esso ci tiene uniti per mezzo di questo dono. Non ci si può donare quando ci si è sprecati. Le vane parole di cui rivestiamo i nostri pensieri sono un continuo sperpero di noi stessi.
“Vi sarà chiesto conto di ogni parola”.
Di tutte quelle che bisognava dire e che la nostra avarizia ha frenato.
Di tutte quelle che bisognava tacere e che la nostra prodigalità avrò seminato ai quattro venti della nostra fantasia o dei nostri nervi.
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Anche se il gruppo appartiene a Dio, anche se non esiste che per questo, è ciascuno di noi che appartiene unicamente e totalmente solo a Gesù Cristo, Dio e Signore.
Ciò comporta che, se non siamo stati chiamati a una certa solitudine, non saremo al nostro posto qui.
Ci sono molti modi di concepire i consigli evangelici e gli insegnamenti di Cristo, senza per questo essere in disaccordo con la Chiesa.
Ci sono una povertà, un celibato, un’obbedienza, che non portano con sé una solitudine. Si può per esempio, scegliere il celibato per essere più disponibili al prossimo, a un certo prossimo, facendo di questo celibato un dono a Dio.
Al contrario, una religiosa contemplativa sceglierà il celibato a causa di Dio ed ella sa che il suo prossimo visibile, tangibile, sarà ridotto.
Per noi, c’è il rischio dell’equivoco.
Se scegliamo il celibato è per appartenere al Signore; per appartenere, con Lui, per Lui ed in Lui, a coloro che egli ama come noi e che dobbiamo amare come noi stessi.
Qui corriamo il rischio di due errori che un giorno o l’altro ci daranno delle sorprese se non ci sono state svelate: o, avendo scelto il Signore, non avremo compreso che egli ci riservasse un prossimo così grande; oppure, avendo accettato fin dall’inizio il prossimo che egli ci prometteva, saremo stupiti, ad un certo momento, che la terra ci appaia, per così dire, spopolata.
Ora, nell’una o nell’altra ipotesi, il Signore non ci dà alcuna garanzia. Dobbiamo dunque essere preparati ad entrambe. E ciò che dico del celibato potrei dirlo ugualmente di tutte le altre esigenze evangeliche, quando esse saranno accettate o scelte da Cristo, o perché servano a qualcuno dei fini cui egli le ha designate.
L’equivoco per noi aumenta, per il fatto che ci aspettiamo una solitudine quando si tratta di un’altra; per il fatto che non sappiamo fino a qual punto un semplice avvenimento fa sì che quelli che ci circondano rimangano nostro “prossimo” pur diventando estranei e talvolta ostili.
La solitudine di cui si tratta non ci sarà mai risparmiata o, se fosse, sarebbe una grande sventura, perché essa non è scindibile dalla nostra appartenenza al Signore. Non aver conosciuto questa solitudine nella nostra vita sarebbe un segno che tra noi e Dio qualcosa si è spezzato.
E’, innanzitutto in noi che la ritroveremo. Un celibe normale trascina con sé per tutta la vita la coppia di cui era la metà; il suo “complemento” lo segue come un’ombra, anonima per alcuni, con volti via via diversi per altri.
Bisogna prender coscienza della solitudine: essa è utile a condizione che sia assunta volontariamente e, da questo momento, pienamente individuata, portata con gioia da un essere libero, contento di scegliere liberamente ciò che preferisce, anche se fa soffrire. Malgrado ciò, dobbiamo sapere che in certi giorni essa sarà terribile, crudelmente faticosa: sarà quando avremo una grande gioia o una grande stanchezza da condividere.
Accettare la solitudine di qualche momento, avendola preferita di propria volontà, costituirà forse, in punto di morte, la prova d’amore meno falsata che potessimo offrire a Dio.
Ma la solitudine non verrà soltanto in noi. Più una vita diventa apostolica, più essa diventa, in qualche modo, solitaria.
L’amore apostolico, infatti, conosce come si conosce ciò che si ama, e non può non creare legami. I peccatori, o gli indifferenti, gli increduli, gli atei che noi amiamo in tal modo, sono per noi un prossimo sensibilmente vicino. Ma ciò che li rende “apostolicamente” più vicini è ciò in cui essi differiscono da noi e che crea tra noi e loro delle zone di solitudine.
La solitudine sarà tanto più difficile da sopportare, e sembrerà più anormale, quanto più si imporrà al livello delle relazioni più cordiali e delle amicizie più calorose. In quel momento, se non ci si sarà messi in guardia, essa potrà diventare una tentazione pericolosa o creare un clima favorevole alle tentazioni.
Dobbiamo guardare sotto un aspetto positivo la solitudine; sia quella di cui stiamo parlando, sia quella di cui si va in cerca in qualche “deserto”.
Perché se certuni cercano dei deserti, è bene sappiano che la solitudine imposta, trovata in sé stessi è un bene.
Che la solitudine sia un bene è una verità ce richiede tempo per essere appresa; che la solitudine sia inevitabile per l’uomo è una verità che si apprende più alla svelta, e a maggior ragione, da parte del cristiano.
L’uomo tende sempre, anche di fronte a colui che egli ama di più, verso una solitudine inevitabile che racchiude in sé qualcosa di ciascuno. Il cristiano, dall’altra estremità di se stesso, quella medesima che lo separa dagli increduli, va contro ciò che, in Dio, si manifesta alla sua ragione senza che questa faccia appello alla fede. E’ tutto ciò che, per l’uomo lasciato a sé stesso, gli fa apparire Dio come un estraneo. E’ questo primo incontro con la solitudine che il cristiano deve salutare come il vero punto d’incontro col Signore. Dovremo fare di questa solitudine iniziale, accresciuta di ciò che le nostre condizioni di vita vi apporteranno, un luogo prediletto in cui Dio viene a raggiungerci. Molte tristezze umane sono solitudini. Se rendiamo a Dio l’onore della nostra gioia, è perché tutte le nostre solitudini saranno state colmate da lui.
La vita di fraternità con gli altri deve aiutarci a trovare, a conservare, ad amare la nostra solitudine. Se non diamo importanza ai mezzi che essa ci offre, rischiamo di non riconoscerli quando ce li troveremo dinanzi.
Accanto all’idea di unità, al desiderio di realizzarla, c’è tutta una folla di ansie che, una volta espresse, sono per noi i segni della solitudine, una specie di indicatori della solitudine.
Non saremmo donne se, ad un certo momento, non soffrissimo amaramente per non essere comprese da qualche nostra sorella o, il che è lo stesso, da tutte.
Ora, in ognuno, c’è qualcosa che non sarà mai compreso da nessuno. Questo qualcosa è la causa stessa della nostra solitudine, della solitudine che ci è connaturale. E’ questa solitudine rudimentale che dobbiamo accettare in primo luogo.
I modi per non accettarla sono diversi. Per alcuni sarà il ripiegamento su se stessi, il silenzio (ma non quello buono), l’atteggiamento classico dell’”incompreso”. Per altri sarà, al contrario, l’accanimento a spiegare a se stessi o, più spesso, a far comprendere l’ultima delle ultime sfumature del proprio modo di pensare. Nell’uno e nell’altro caso, ciascuno si cristallizzerà, sia nel silenzio, sia nella parola, il che gli darà l’impressione di una discordanza; in realtà, è una nota di noi stessi che nessun orecchio umano potrà mai intendere.
Il giorno in cui comprenderemo che la falla insanabile tra noi e gli altri è – attraverso tutti gli amori, tutte le influenze, tutte le prove – il luogo di ciò che ci fa essere quello che siamo; quando avremo compreso che è in questo stesso luogo che Dio ci parla chiamandoci per nome, avremo operato il grande capovolgimento che fa della cattiva solitudine una solitudine benedetta.
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In una città comunista, quello che può colpirci più sensibilmente è spesso la scomparsa di un Dio fin allora manifesto, apparente per noi.
Questa scomparsa ha per emblema una totale “inutilità” di Dio che esplode nella vita dei comunisti ed in quella della città in quanto tale.
Come corollario a questo stato di cose si verifica un’ “epifania” dell’uomo, del suo valore, della sua potenza, del suo destino collettivo. Perché se un ambiente comunista tutto particolare come per esempio quello di Ivry (con responsabili nazionali, regionali e locali, tutti dottrinalmente formati secondo il grado delle loro responsabilità) è la dimostrazione, ad un tempo, di virtù umane indispensabili e di una efficacia umana in pieno lavorio, sembra che non ci si curi affatto di Dio, ed è come se Dio non mancasse a nessuno ed a nessuna cosa.
Un tale ambiente può metterci in una tentazione nella quale non riconosciamo la prova. Tentazione tanto più forte in quanto possiamo man mano vedere, con gli occhi dei nostri compagni e dei nostri amici, quelli che altre volte erano per noi segni di Dio.
Questi segni ci appaiono allora illeggibili per colui che non sa in anticipo ciò che essi vogliono dire.
Nello stesso tempo, nonostante i più grandi affetti, ci accorgiamo di diventare estranei agli altri proprio per la fede che ce li fa amare sempre di più. Può accadere, a questo punto, che noi accusiamo apertamente o sottovoce la fede di essere estranea al nostro mondo. E’ una grande sofferenza. Se non vediamo, sotto le apparenze della tentazione, la prova necessaria, possiamo soccombere molto facilmente. Ma se, al contrario, crediamo in colui che, avendoci chiamati, “è fedele”; se ci lasciamo ammaestrare da lui, egli ci dirà in questo caso ciò che abbiamo dimenticato, ciò che non abbiamo mai saputo per essere dei convertiti viventi: “La fede è un dono di Dio”.
La fede, dono di Dio, estranea al mondo, è data al mondo. Credere è stabilire, tra la fede e il mondo, un’alleanza eterna: se essa fa sorgere dei fedeli, non si tratta di una fedeltà di sangue, di patria o di persona, ma d’una fedeltà personale al Dio vivente che chiama ed al quale colui che è chiamato deve rispondere liberamente e sempre, col suo cuore di uomo libero.
Alla chiamata, come alla risposta, è necessaria la solitudine; essa non è più tentazione, ma l’indispensabile punto di contatto con Dio. La preghiera rinsalda le sue radici. La nostra visione di ogni comunità nella Chiesa si trasforma. Gli alberi che debbono insieme formare una foresta vivono ciascuno delle sue radici solitarie. Impariamo che Dio, per proporci la fede, chiama ciascuno col suo nome, che la fede non è un privilegio dovuto all’eredità o alla nostra buona condotta, che essa è la grazia di sapere che Dio fa grazia; la grazia di essere, nel mondo, votati col Cristo alla sua missione di redenzione.
Messi di nuovo in stato di conversione, impariamo che la fede nel Figlio di Dio e nel Figlio dell’uomo ci lega indissolubilmente a Dio che la dona e all’uomo, all’uomo della creazione, all’umanità tutta intera. Perché anche noi possiamo dire di essere “uno per tutti”. E’ per tutti che ciascuno di noi riceve la fede.
La solitudine in cui Dio ci ha spinti ci rende consapevolmente solidali con ogni uomo che viene in questo mondo, con tutte le nazioni che Cristo convocherà nell’ultimo giorno.