Da C. S. Lewis
Abbiamo ottenuto il perdono perché Cristo si è offerto di essere punito al posto nostro. Apparentemente, è una teoria assurda. Se Dio era disposto a perdonarci, perché mai non l’ha fatto? Che senso c’era a punire, invece, un innocente? Io non ne vedo alcuno, se pensiamo a una punizione in senso giudiziario. D’altra parte, se pensiamo a un debito, è molto sensato che una persona provvista di mezzi lo paghi a nome di che non ne ha. O ancora, se all’espressione “pagare la penale” non attribuiamo il significato di subire un castigo, ma quello più generale di “far fronte a un impegno” o di “saldare un conto”, è esperienza comune che quando uno si è messo in qualche impiccio, il disturbo di tirarlo fuori tocchi di solito a un buon amico.
Ebbene, in quale “impiccio” si era messo l’uomo? Aveva cercato di agire per conto proprio, di comportarsi come se appartenesse a se stesso. In altri termini, l’uomo caduto non è soltanto una creatura imperfetta che ha bisogno di migliorarsi: è un ribelle che deve deporre le armi. Deporre le armi, arrendersi, chiedere scusa, capire che ci si è messi su una strada sbagliata ed essere pronti a ricominciare la vita dalle fondamenta: è questo l’unico modo di uscire dal nostro “impiccio”. Questa operazione di resa – questo fare macchina indietro a tutta forza – è ciò che il cristianesimo chiama pentimento. Ora, il pentimento non è un gioco da ragazzi. E’ una cosa molto più ardua che cospargersi il capo di cenere. Vuol dire disimparare tutta la presunzione e la caparbietà cui da migliaia d’anni siamo avvezzi. Vuol dire uccidere una parte di sé, subire una specie di morte. In realtà, per pentirsi occorre essere persone buone davvero. E qui viene l’intoppo. Solo una persona cattiva ha bisogno di pentirsi: e solo una persona buona può pentirsi perfettamente. Peggiori siamo, più abbiamo bisogno di pentirci, e meno ne siamo capaci. La sola persona che potrebbe farlo perfettamente sarebbe una persona perfetta – e non ne avrebbe bisogno.
Badate bene: questo pentimento, questo volontario sottomettersi all’umiliazione e a una specie di morte, non è qualcosa che Dio esige da noi prima di riaccoglierci, e da cui potrebbe esimerci se volesse; è semplicemente una descrizione di ciò in cui consiste l’atto di tornare a Lui. Se chiedi a Dio di riaccoglierti senza questo atto, Gli chiedi in realtà di lasciarti tornare senza tornare. Non è possibile. Benissimo, dunque: dobbiamo compiere questo atto. Ma la stessa cattiveria che ce lo rende necessario, ci rende incapaci di compierlo. Possiamo farlo se Dio ci aiuta? Sì, ma che cosa intendiamo parlando di aiuto divino? Intendiamo che Dio mette in noi, per così dire, un poco di Sé. Dio ci presta un poco del Suo raziocinio, ed è così che noi pensiamo; mette in noi un poco del Suo amore, ed è così che ci amiamo l’un l’altro. Quando insegni a scrivere a un bambino, gli reggi la mano mentre forma le lettere perché le formi tu. Noi amiamo e ragioniamo perché Dio ama e ragiona e ci regge la mano mentre lo facciamo. Se non fossimo caduti, tutto sarebbe facile. Ma adesso, sfortunatamente, abbiamo bisogno dell’aiuto di Dio per fare qualcosa che Dio, nella Sua natura non fa mai: arrenderci, soffrire, sottometterci, morire. Nulla, nella natura di Dio, corrisponde a questo processo. Sicché proprio quella strada per la quale soprattutto ci è ora indispensabile la guida di Dio è una strada che Dio, nella Sua natura, non ha mai percorso. Dio può spartire soltanto ciò che ha: e questo, nella Sua natura, non c’è.
Ma supponiamo che Dio diventi uomo: supponiamo che la nostra natura umana, che può soffrire e morire, si amalgami con la natura di Dio in un’unica persona: allora questa persona potrebbe aiutarci. Potrebbe rinunciare alla Sua volontà, e soffrire e morire, perché è un uomo; e potrebbe farlo perfettamente perché è Dio. Voi e io possiamo compiere questo processo soltanto se Dio lo compie in noi; ma Dio può compierlo soltanto se diventa uomo. I nostri tentativi volti a questo morire possono andare a segno soltanto se noi uomini condividiamo il morire di Dio, così come il nostro pensiero può sussistere soltanto perché è una goccia del mare della Sua intelligenza: ma noi non possiamo condividere il morire di Dio se Dio non muore; ed Egli può morire soltanto essendo uomo. E’ in questo senso che Egli paga il nostro debito, e patisce per noi ciò che a Lui, in quanto Dio, non è affatto necessario patire.
Ho sentito certuni obiettare che se Gesù era Dio oltre che uomo, le Sue sofferenze e la Sua morte perdono, ai loro occhi, ogni valore, “perché per Lui deve essere stato facilissimo”. Altri potrà (a buon diritto) biasimare la sgarbata ingratitudine di questa obiezione; io sono stupefatto dall’incomprensione che essa rivela. In un certo senso, naturalmente, chi la fa non ha torto. Anzi, si mostra fin troppo moderato. La perfetta sottomissione, la perfetta sofferenza, la perfetta morte non solo furono più facili a Gesù perché Egli era Dio: furono possibile soltanto perché Egli era Dio. Ma questo è un motivo ben strano per non accettarle. Il maestro può tracciare le lettere per il bambino in quanto è adulto e sa scrivere. Questo, naturalmente, gli rende le cose più facili, ma è soltanto grazie a questa facilità che egli può aiutare l’allievo. Se il bambino rifiutasse il suo aiuto perché “per gli adulti è facile”, e aspettasse di imparare a scrivere da un coetaneo che non sa scrivere nemmeno lui (e quindi non ha un vantaggio “sleale”), non farebbe molta strada. Se io sto annegando in un fiume vorticoso, un uomo che ha un piede sulla riva può tendermi una mano e salvarmi la vita. Dovrei gridargli (tra un rantolo e l’altro): “No, non è giusto! Hai un vantaggio... stai con un piede sulla riva”? Quel vantaggio – chiamatelo “sleale”, se volete – è la sola cosa che gli permette di essermi utile. Da chi cercheremo aiuto se non da chi è più forte di noi?
Questo è il mio modo di considerare ciò che i cristiani chiamano Redenzione. Ma non dimenticate che anche la mia è soltanto un’immagine. Non scambiatela per la cosa reale: e se non vi è di aiuto, lasciatela perdere.