La realtà non può non avere qualche riverbero del vero: il vero senso dell’ecumenismo (da Luigi Giussani)
La realtà non può non avere qualche riverbero del vero: il vero senso dell’ecumenismo
da Generare tracce nella storia del mondo, Rizzoli, Milano 2001, pp. 157-161, di Luigi Giussani
Lo sguardo cristiano vibra di un impeto che lo rende capace di esaltare tutto il bene che c’è in tutto ciò che si incontra, in quanto glielo fa riconoscere partecipe di quel disegno la cui attuazione sarà compiuta nell’eternità e che in Cristo ci è stato rivelato.
L’ecumenismo parte dall’avvenimento di Cristo, che è l’avvenimento della verità di tutto ciò che è, di tutto il tempo e lo spazio, della storia. È l’avvenimento della verità nel mondo: il Verbo si è fatto carne, la verità si è fatta presenza umana nella storia e resta nel presente. Questa Presenza investe - tende a investire - tutta la realtà. Dove c’è coscienza chiara della verità suprema che è il volto di Cristo, nel guardare tutto ciò che si incontra si rivela qualcosa di buono. L’ecumenismo non è allora una tolleranza generica che può lasciare ancora estraneo l’altro, ma è un amore alla verità che è presente, fosse anche per un frammento, in chiunque. Ogni volta che il cristiano incontra una realtà nuova l’abborda positivamente, perché essa ha qualche riverbero di Cristo, qualche riverbero di verità.
Nulla è escluso da questo abbraccio positivo: tale universalità è il risultato della missionarietà implicata nella scelta che Dio fa del battezzato e nel destino per cui lo sceglie. Il compito del battezzato è la missione universale che Dio gli comunica come partecipazione alla grande missione di Cristo. Perciò, quanto più egli è proteso ad essa, tanto più è anche proteso a scoprire in ogni cosa il bene rimasto, il brandello o il riflesso di verità. Siccome io sono parte della realtà di Cristo, guardo le montagne, la mattina e la sera, tutta la realtà, innanzitutto cercando, in ogni cosa che vedo, la radice ultima. E la persuasione che la verità è in me, è con me, mi rende estremamente positivo davanti a tutto: non equivoco, ma positivo. Se c’è un millesimo di verità in una cosa, lo affermo. Nasce così un approccio «critico» alla realtà, secondo quanto esprime san Paolo: «pánta dokimázete, tò kalòn katéchete» (1Ts 5,21); «vagliate ogni cosa e trattenete il valore», il bello, il vero, quello che corrisponde al criterio originale del vostro cuore.
L’avvenimento di Cristo è la vera sorgente dell’atteggiamento critico, in quanto esso non significa trovare i limiti delle cose, ma sorprenderne il valore. Vi è in proposito l’episodio attribuito a Cristo da un agraphon, secondo cui, mentre attraversava i campi, Gesù vide la carcassa marcita di un cane; san Pietro, che gli stava davanti, disse: «Maestro, scostati», ma Gesù, al contrario, andò avanti e fermandosi a un passo dal cane esclamò: «Che denti bianchi!» (cfr. R. Dunkerley - a cura di -, The Unwritten Gospel. Ana and Agrapha of Jesus, Allend and Unwin Ltd, London 1925, p. 84). Era l’unica cosa buona in quel corpo marcio. I limiti, schiaccianti, balzano agli occhi di tutti, il valore vero delle cose invece lo trova soltanto chi ha la percezione dell’essere e del bene, chi fa emergere e fa amare l’essere, senza obliterare, tagliare, chiudere o negare, perché la critica non è ostilità alle cose, ma amore a esse.
(…) C’è dunque un’unica sorgente di sguardo positivo a tutto. Chi invece è attaccato a una identificazione parziale, alla «sua» verità, non può non stare di fronte a tutto difendendo quello che lui dice, a meno che sia completamente scettico o nichilista. Spesso coloro che guidano i popoli e hanno responsabilità a vario titolo, se sono pieni di buon senso, favoriscono un certo «ecumenismo», perché hanno il terrore della guerra e della violenza, che nascono inevitabilmente se uno afferma solo se stesso. Così sembra che il mettersi insieme tentando di rispettare ognuno il volto dell’altro possa rappresentare la realizzazione della eirene. Ma questa non è pace, è un equivoco. Essa infatti risulta essere - nel migliore dei casi - tolleranza, cioè, radicalmente, indifferenza. Così come di solito è conclamato adesso, il temine «ecumenismo» sembra indicare l’espressione migliore della buona volontà di chi è buono di cuore ed è al comando della gente, si tratti di capi religiosi o politici. Questo «ecumenismo», inteso come confraternita dei vari tentativi filantropici per costruire il mondo, si rivela come il principale nemico dell’identità cristiana. Esso, infatti, nel migliore dei casi è un tentativo di tolleranza dove ognuno è attento ai suoi interessi e degli altri prende ciò che gli conviene. Ma, se non si assecondano che i propri interessi particolari, si finisce per guardare gli altri come potenziali nemici, da cui difendersi: davanti a ciò che più interessa, si cessa di fatto di essere tolleranti.
Invece, l’ecumenicità cattolica è aperta verso tutti e tutto, fino alle sfumature ultime, pronta a esaltare con tutta la generosità possibile ciò che ha anche una lontana affinità col vero. Ma è intransigente sulla equivocità possibile. Se uno ha scoperto la verità reale, Cristo, avanza tranquillo in ogni tipo di incontro, sicuro di trovare in ognuno una parte di sé.
L’ecumenismo vero scopre sempre cose nuove, così che non c’è mai una totale ripetizione: si è trascinati da un totalizzante stupore del bello. È dalla bellezza che nascono continuamente immagini di possibilità insospettate per riparare le case distrutte e costruirne di nuove (cfr. Is 58,12). Questa apertura fa trovare a casa propria presso chiunque conservi un brandello di verità, a proprio agio dovunque. È il concetto di cattolicità non geograficamente inteso (come lo è stato a partire dal ’500 in poi), ma ontologicamente definito dal vero.
Dice l’Imitazione di Cristo: «Ex uno Verbo omnia et unum loquuntur omnia, et hoc est Principium quod et loquitur nobis» («Da una sola Parola tutto, e una sola Parola tutto grida. E questa Parola è il Principio che parla dentro di noi.»; cfr. Imitazione di Cristo, Libro Primo, 3,8). Non è possibile trovare un’altra cultura che definisca con un abbraccio così unitario, potente e senza residui, qualsiasi cosa. Diceva Jacopone da Todi, nel ’200, che tutto accade perché abbiamo ad andare tutti insieme nel «regno celesto che compie omne festo / che ’l core ha bramato» (Jacopone da Todi, Cantico de la natività de Iesù Cristo, lauda XIV, in Le Laude, Libreria Editrice Fiorentina, Firenze 1989, p. 218). E, ancora, nel più bel verso della letteratura italiana: «Amor, amore, omne cosa conclama» (Jacopone da Todi, Como l’anima se lamenta con Dio de la carità superardente in lei infusa, lauda XC, in Le Laude, Libreria Editrice Fiorentina, Firenze 1989, p. 318). La parola Amore è da intendere nel suo senso ultimo, cioè come sinonimo di Cristo, del Dio che si è curvato su di noi e ci ha abbracciato. Tutte insieme le cose gridano la verità. Tutte le cose: i fiorellini del campo, le foglie dell’albero, tutti gli aghi di tutti i pini della terra (chissà come fa Dio a contarli tutti!?).