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Non sono io forse viva sempre per te?
- Oh, Mamma, sì! io le dico. – Viva, viva, sì... ma non
è questo! Io potrei ancora, se per pietà mi fosse stato nascosto,
potrei ancora ignorare il fatto della tua morte,e immaginarti, come t’immagino,
viva ancora laggiù, seduta su codesto seggiolone nel tuo solito cantuccio,
piccola, coi nipotini attorno, o intenta ancora a qualche cura familiare. Potrei
seguitare a immaginarti così, con una realtà di vita che non potrebbe
esser maggiore: quella stessa realtà di vita che per tanti anni, così
da lontano, t’ho data sapendoti realmente seduta là in quel tuo
cantuccio. Ma io piango per altro, Mamma! Io piango perché tu, Mamma,
tu non puoi più dare a me una realtà! E’ caduto a me, alla
mia realtà, un sostegno, un conforto. Quando tu stavi seduta laggiù
in quel tuo cantuccio, io dicevo: “Se Ella da lontano mi pensa, io sono
vivo per lei”. E questo mi sosteneva, mi confortava. Ora che tu sei morta,
io non dico che non sei più viva per me; tu sei viva, viva com’eri,
con la stessa realtà che per tanti anni t’ho data da lontano, pensandoti,
senza vedere il tuo corpo, e viva per sempre sarai finché io sarò
vivo; ma vedi? è questo, è questo, che io, ora, non sono più
vivo, e non sarò vivo per te mai più! Perché tu non puoi
più pensarmi com’io ti penso, tu non puoi più sentirmi com’io
ti sento! E ben per questo, Mamma, ben per questo quelli che si credono vivi
credono anche di piangere i loro morti e piangono invece una loro morte, una
loro realtà che non è più nel sentimento di quelli che
se ne sono andati. Tu l’avrai sempre, sempre, nel sentimento mio: io,
Mamma, invece, non l’avrò più in te. Tu se qui; tu m’hai
parlato: sei proprio viva qui, ti vedo, vedo la tua fronte, i tuoi occhi, la
tua bocca, le tue mani; vedo il corrugarsi della tua fronte, il battere dei
tuoi occhi, il sorriso della tua bocca, il gesto delle tue povere piccole mani
offese; e ti sento parlare, parlare veramente le parole tue: perché sei
qui davanti a me una realtà vera, viva e spirante; ma che sono io, che
sono più io, ora, per te? Nulla. Tu sei e sarai per sempre la Mamma mia;
ma io? Io, figlio, fui e non sono più, non sarò più...
L’ombra s’è fatta tenebra nella stanza. Non mi vedo e non
mi sento più. Ma sento come da lontano lontano un fruscio lungo, continuo,
di fronte, che per poco m’illude e mi fa pensare al sordo fragorio del
mare, di quel mare presso al quale vedo ancora mia madre. Mi alzo; m’accosto
a una delle finestre. Gli alti giovani fusti d’acacia del mio giardino,
dalle dense chiome, indolenti s’abbandonano al vento che li scapiglia
e par debba spezzarli. Ma essi godono femineamente di sentirsi così aprire
e scomporre le chiome e seguono il vento con elastica flessibilità. E’
un moto d’onda o di nuvola, e non li desta dal sogno che chiudono in sé.
Sento dentro, ma come da lontano, la sua voce che mi sospira:
”Guarda le cose anche con gli occhi di quelli che non le vedono più!
Ne avrai un rammarico, figlio, che te le renderà più sacre e più
belle.”
(per un approfondimento vedi l’articolo dallo stesso titolo Possono i nostri morti amarci? di d.Andrea Lonardo nella sezione Arte e fede in questo stesso sito www.santamelania.it)