Da La vita comune
di D. Bonhoeffer
Caratteristica della solitudine è il silenzio, come la parola è la caratteristica della comunione. Tra silenzio e parola vi è lo stesso legame interiore e la stessa distinzione che v’è tra solitudine e comunione. L’una non può esistere senza l’altro. La giusta parola nasce dal silenzio, ed il giusto silenzio nasce dalla parola.
Tacere non significa restare muti, come parlare non significa chiacchierare. Il restare muti non crea la solitudine e chiacchierare non crea comunione. “Tacere è sovrabbondanza, ebbrezza, sacrificio della parola. Ma il mutismo è empio, come un oggetto che è stato solo mutilato, non sacrificato...Zaccaria rimase muto, invece di rimanere in silenzio. Se avesse accettato la rivelazione, forse non sarebbe uscito dal tempio muto, ma solo silenzioso” (Ernest Hello). La parola che crea di nuovo la comunità e la riunisce è accompagnata dal silenzio. “C’è un tempo per tacere e un tempo per parlare” (Eccl. 3,7). Come nella giornata del cristiano ci sono determinate ore dedicate alla parola, specie le ore del culto e della preghiera in comune, così nella giornata devono esserci pure determinati periodi di silenzio nell’ascolto della Parola, silenzio che nasce dalla Parola. Saranno soprattutto i momenti prima e dopo l’ascolto della Parola. La Parola non raggiunge gli uomini rumorosi, ma quelli che rimangono in silenzio. Il silenzio nel tempo è il segno della santa presenza di Dio nella sua Parola.
C’è un’indifferenza, o meglio un rifiuto, che vede nel silenzio il disprezzo della rivelazione di Dio nella Parola. In questo caso il silenzio è inteso erroneamente come atto solenne, quasi un mistico volersi sollevare al di là della Parola. Non si riconosce più nel silenzio la sua essenziale relazione con la Parola, l’umile ammutolire del singolo davanti alla Parola di Dio. Tacciamo prima di ascoltare la Parola, perché i nostri pensieri sono già rivolti verso la Parola, come un bambino tace, quando entra nella stanza del padre. Tacciamo dopo l’ascolto della Parola, perché questa ci parla ancora, vive e dimora in noi. Tacciamo la mattina presto, perché Dio deve avere la prima parola, e tacciamo prima di coricarci, perché l’ultima parola appartiene a Dio. Tacciamo solo per amore della Parola, cioè proprio non per disonorarla, ma per onorarla e riceverla come si deve. Tacere, infine, non vuol dire altro che aspettare la Parola di Dio e venire via, dopo averla ascoltata, con la sua benedizione. Ognuno per propria esperienza sa che è necessario imparare a tacere in un tempo in cui predomina il parlare; e che si tratta appunto di imparare a tacere veramente, a far silenzio nel proprio intimo, a fermare una volta la propria lingua, questo non è altro che la naturale semplice conseguenza del silenzio spirituale.
Ma il saper tacere di fronte alla Parola eserciterà il suo influsso su tutta la giornata. Se abbiamo imparato a tacere di fronte alla Parola, impareremo pure a usare rettamente del silenzio e delle parole durante la nostra giornata. C’è un modo di tacere proibito, compiacente di se stesso, superbo, offensivo. Già da questo vediamo che non si può mai pensare ad un silenzio in sé. Il silenzio del cristiano è un silenzio intento ad ascoltare, un silenzio umile, che, per amore di umiltà, può anche essere interrotto in qualunque momento. E’ il silenzio vincolato alla Parola. A questo pensa Thomas a Kempis quando dice: “Nessuno parla con più certezza di colui che tace volentieri”. Nel silenzio è insito un meraviglioso potere di chiarificazione, di purificazione, di concentrazione sulle cose essenziali. Questo è anche un dato di fatto profano. Ma il silenzio prima di ascoltare la Parola, porta a saper ascoltare veramente, e perciò la Parola pure ci parlerà al momento opportuno. Molte cose inutili vengono taciute. Ma le cose essenziali, di vero aiuto possono essere espresse in poche parole.
Nessuno dal silenzio si aspetti altro che il semplice e puro incontro con la Parola di Dio, in vista della quale ha cercato il silenzio. Ma l’incontro con Dio gli sarà donato. Il cristiano non ponga delle condizioni sul modo con cui aspettare e sperare questo incontro, ma lo accetti così come avviene, ed il suo silenzio sarà largamente ricompensato.
Il momento della meditazione non ci fa precipitare nel vuoto e nell’abisso della solitudine, ma ci mette soli di fronte alla Parola. Con ciò essa ci dà un fondamento sicuro col quale poggiare e dove trovare indicazioni per il cammino che dobbiamo percorrere.
Mentre nel culto in comune leggiamo un testo seguito, nella nostra meditazione della Scrittura ci atteniamo a un breve testo espressamente scelto, che può anche restare lo stesso per tutta la settimana. Se mediante la lettura in comune della Bibbia venivamo portati a conoscere piuttosto l’ampiezza e la vastità di tutta la Scrittura nel suo insieme, qui invece veniamo condotti nella incommensurabile profondità di ogni singola frase e parola. Ambedue le cose sono egualmente necessarie. “Affinché siate resi capaci di abbracciare con tutti i santi qual sia la larghezza, l’altezza e la profondità dell’amore di Cristo” (Ef. 3,18).
Nella meditazione leggiamo il testo, basandoci sulla promessa che esso ha qualcosa di assolutamente personale da dirci per la giornata che abbiamo davanti a noi; che non si tratta solo della Parola di Dio rivolta a tutta la comunità, ma anche della Parola di Dio rivolta a me personalmente. Ci esponiamo alla singola parola e proposizione finché ne siamo afferrati personalmente. Non facciamo, così, nulla di diverso da ciò che fa ogni giorno, il cristiano più semplice, meno istruito.
Leggiamo la Parola di Dio come Parola di Dio per noi. Non chiediamo, dunque che cosa questo passo ha da dire ad altri; per noi predicatori ciò significa che, leggendo, non ci dobbiamo chiedere come predicheremo su questo testo e come lo potremmo spiegare, ma che cosa ha da dire proprio a noi personalmente. E’ logico che prima dobbiamo averne compreso il contenuto; ma in questo momento non ci troviamo di fronte ad un’esegesi del testo, né alla preparazione di un sermone, né di uno studio biblico qualsiasi, ma attendiamo la Parola di Dio rivolta a noi. E non è mai un’attesa vana, ma l’attesa che si fonda su una precisa promessa. Spesso siamo così oppressi e sopraffatti da altri pensieri e immagini e preoccupazioni che passa parecchio tempo prima che Dio riesca a spazzare via tutto e a penetrare nel nostro intimo. Ma è sicuro che questo accadrà, quant’è certo che Dio stesso è vento da noi in terra e vi tornerà. Appunto per ciò incominceremo la nostra meditazione con la preghiera che il Signore ci mandi il suo Spirito Santo nella sua Parola e ci riveli la sua Parola e ci illumini.
Non è necessario che riusciamo a riflettere su tutto il passo fino in fondo. Spesso ci soffermeremo su una sola frase o addirittura su una parola, che ci afferra e mette in questione il nostro modo di essere e non ci lascia più liberi. Non bastano, talora, parole come “padre”, “amore”, “misericordia”, “croce”, “santificazione”, “risurrezione” per riempire completamente il tempo dedicato alla meditazione?
Soprattutto non è necessario che, durante la meditazione, facciamo qualche scoperta inattesa e straordinaria. Può anche accadere, ma se non è così non è affatto segno di un periodo di meditazione sprecato. Non solo in principio, ma sempre di nuovo passeremo periodi di grande vuoto interiore e di apparente indifferenza, di incapacità di intendere e di avversione per la meditazione. Non dobbiamo fermarci su queste esperienze, e soprattutto non dobbiamo lasciarci indurre a non mantenere tanto più fedelmente e pazientemente i nostri periodi di meditazione. Perciò non è bene che prendiamo troppo sul serio le numerose brutte esperienze che facciamo con noi stessi nella meditazione. Per una via traversa apparentemente pia potrebbero introdursi di nuovo di nascosto la nostra vanità e le nostre pretese di fronte a Dio, come se fosse nostro diritto fare esperienze solo edificanti ed allietanti, come se l’esperimentare la nostra povertà interiore non fosse degno di noi.