Inferi (discese agli)


di Joseph Ratzinger
(da Introduzione al cristianesimo)


Una volta che si tenga presente questo, si risolve da sé anche il problema delle ‘prove scritturali’ riguardanti il nostro articolo; per lo meno nel grido lanciato da Gesù al momento della sua morte: “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato” (Mc. 15,34)?, il mistero della discesa di Gesù agli inferi si fa a noi percettibile, come un lampo nell’oscurità della notte. Non dimentichiamo però che questa invocazione del crocifisso è la frase iniziale d’una preghiera di Israele (Sal. 22 [21], 2), nella quale si riassumono in maniera toccante l’afflizione e la speranza di questo Popolo, eletto da Dio ed ora apparentemente da lui abbandonato nel modo più desolante. Tale preghiera, sgorgante dalla più profonda afflizione della tenebra in cui Dio s’è avvolto, termina però con un inno alla grandezza di Dio. Ora, anche questo risulta presente nel grido di morte emesso da Gesù, grido che Ernst Käsemann ha designato concisamente come una preghiera scaturente dall’inferno, come il rilancio del primo comandamento nel deserto dell’apparente assenza di Dio: “Il Figlio mantiene ancora salda la fede, anche adesso, mentre la fede sembra divenuta un non-senso e la realtà terrena palesa chiaramente l’assenza di Dio, di cui non per nulla parlano il primo ladrone e la folla schernitrice. Il suo grido non è rivolto alla vita e alla sopravvivenza, non a se stesso, bensì al Padre. Il suo grido si contrappone alla realtà, all’intero mondo”. E allora, abbiamo ancora forse bisogno di chiederci che cosa debba rappresentare la preghiera nella nostra ora di tenebra? Può forse essere qualcosa di diverso dal grido lanciato dal profondo assieme al Signore, che è ‘disceso all’inferno’ ed ha riaffermato la vicinanza di Dio proprio nel bel mezzo dell’abbandono in cui egli ci vuol lasciare?
Accingiamoci ora ad un’altra riflessione, per penetrare un pochino in questo poliedrico mistero che da un solo lato non è possibile chiarire. Prendiamo innanzitutto atto d’una constatazione esegetica. Ci si dice che, nel nostro articolo di fede, la parola ‘inferno’ sarebbe solo una errata traduzione di Sceol (in greco Hádes), con cui gli ebrei designavano lo stato oltre la morte, che veniva immaginato molto vagamente come una specie di esistenza da regno delle ombre, più un non-essere che un essere. Pertanto, l’asserto avrebbe originariamente significato solo che Gesù era entrato nello Sceol, ossia che era morto. Ora, ciò potrà magari anche esser giusto. Ma resta pur sempre da vedere se così la faccenda si è davvero semplificata, divenendo meno misteriosa di prima. Io ritengo invece che proprio ora il problema presenti il suo vero volto: la morte e ciò che accade quando uno muore, ossia entra nel regno della morte. Di fronte a questo problema, dobbiamo tutti quanti confessare la nostra perplessità. Nessuno sa realmente che cosa succeda, perché tutti viviamo al di qua della staccionata della morte, e quindi non abbiamo alcuna esperienza diretta di questo fatto. Possiamo però forse tentar di accostarla proprio partendo ancora una volta dal grido lanciato da Gesù sulla croce, in cui abbiamo riscontrato espresso il nucleo centrale di ciò che significa la discesa di Gesù agli inferi, la sua partecipazione al destino di morte dell’uomo. In questa estrema preghiera di Gesù, come del resto anche nella scena dell’orto degli ulivi, il nucleo più profondo della sua Passione non sembra essere qualche dolore fisico, bensì la radicale solitudine, il completo abbandono. Ora qui viene in luce, in definitiva, semplicemente l’abissale solitudine dell’uomo in genere: dell’uomo che nel suo intimo è solo, tragicamente solo. Questa solitudine, che viene sì per lo più camuffata in svariati modi, ma rimane pur sempre ugualmente la vera situazione dell’uomo, denota al contempo la più stridente contraddizione con la natura stessa dell’uomo, che non può sussistere da solo ma abbisogna invece d’una vita comunitaria. La solitudine è perciò la regione dell’angoscia, radicata nel fatto stesso che l’essere è gettato allo sbaraglio, eppure deve ugualmente esistere, anche trovandosi costretto ad affrontare l’impossibile. Vediamo ora di spiegare un po’ meglio questo fatto adducendo un esempio. Quando un bambino si trova obbligato ad attraversare un bosco da solo, in una notte oscura, è preso dal terrore, quand’anche gli sia stato dimostrato nella maniera più convincente che non c’è assolutamente nulla di cui egli debba temere. Al momento in cui egli si trova solo ed immerso nelle tenebre, sperimentando così radicalmente il senso della solitudine, insorge immediatamente in lui la paura, l’autentica paura dell’uomo, che non è paura di fronte a qualcosa, bensì paura e basta. La paura di fronte a qualcosa di determinato è in fondo innocua: può infatti venire scacciata togliendo di mezzo l’oggetto che la provoca. Tanto per fare un esempio, quando uno ha paura d’un cane che morde, si fa presto a rimediare all’inconveniente legando il cane alla catena. Nel caso nostro invece, c’imbattiamo in qualcosa di ben più profondo:l’uomo, allorché si trova confinato nell’estrema solitudine, non trema di fronte a qualcosa di determinato, che è suscettibile di venir eliminato; prova invece il terrore della solitudine, sente l’inquietudine e l’inerme condizione della sua stessa natura, che non sono debellabili per via razionale. Facciamo un esempio ancora: quando uno deve vegliare da solo di notte con un morto in stanza, sentirà sempre la sua posizione come un tantino disagiata e sconcertante, anche se non vuole confessarlo nemmeno a se stesso,e si trova in grado di convincersi razionalmente dell’inoggettività delle sue sensazioni. Di per sé, egli sa benissimo che il morto non può fargli assolutamente nulla, e che la sua situazione sarebbe probabilmente assai più pericolosa qualora la persona che veglia fosse ancora viva. Ciò che qui insorge è un tipo completamente diverso di paura: non è la paura di fronte a qualcosa, bensì la sinistra angoscia della solitudine in sé, affiorante dal suo restare, solo con la morte, l’inermità dell’esistenza posta davanti all’ignoto.
Dobbiamo ora chiederci: e allora, come è possibile vincere tale paura, se la prova dell’assoluta inconsistenza del pericolo annaspa nel vuoto? Ebbene, ecco: il bambino si troverà completamente liberato della sua paura, nell’istante stesso in cui troverà una mano che stringa la sua e lo guidi, nell’attimo in cui sentirà una voce che gli parli; nel momento quindi, in cui sperimenterà la compagnia d’un uomo che gli voglia bene. E anche colui che si trova solo col morto, sentirà subito sparire l’accesso di paura non appena un altro uomo si accosti a lui, non appena senta la vicinanza di un ‘tu’. Ora, in questo superamento della paura, si rivela simultaneamente anche la sua vera natura: come essa sia il terrore della solitudine, l’angoscia che attanaglia un essere suscettibile di vivere solo in associazione. La tipica paura dell’uomo può venir superata non tramite la ragione, bensì soltanto tramite la presenza d’un essere che gli voglia bene.
Dobbiamo ora sviscerare ulteriormente il nostro assunto. Se esistesse una solitudine in cui nessuna parola d’un altro potesse più penetrare a cambiare lo stato di fatto; se si verificasse un abbandono talmente profondo, da non permettere più ad alcun ‘tu’ di giungervi avremmo allora l’autentica e totale solitudine, quello stato spaventoso e sinistro che il teologo chiama ‘inferno’. Che cosa significhi questa parola, lo possiamo esattamente definire prendendo le mosse da quanto abbiamo testé detto: essa denota proprio una solitudine, in cui non entra più la parola dell’amore, e che costituisce quindi l’autentica esposizione allo sbaraglio dell’esistenza. A questo proposito, a chi non viene subito in mente come poeti e filosofi del nostro tempo ribadiscano proprio l’idea che, in fondo, tutti gli incontri fra uomini s’arrestano alla superficie, sicché nessun uomo ha accesso al genuino profondo dell’altro? Stando a queste concezioni quindi, nessuno può realmente raggiungere l’intimo dell’altro; ogni incontro, per bello che sembri, si limita pertanto solo ad anestetizzare l’insanabile piaga della solitudine. Nel più profondo della nostra esistenza perciò, s’anniderebbe l’inferno, la disperazione: la terribile solitudine insomma, che è tanto ineluttabile quanto raccapricciante...
In effetti, una cosa è certa: esiste una notte, nel cui desolato abbandono non giunge alcuna voce; esiste una porta, attraverso la quale possiamo transitare esclusivamente da soli: la porta della morte. Ogni paura imperante nel mondo è in definitiva paura di questa tremenda solitudine. Si capisce allora perché l’Antico Testamento abbia una sola parola, per indicare gli inferi e la morte: la parola Sceol. In fondo, per esso le due cose sono identiche. La morte è la solitudine per antonomasia. Ma l’orrenda solitudine in cui nemmeno l’amore riesce più a penetrare, è davvero l’ ‘inferno’.


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