Idolatria

da un articolo di Davide Rondoni su Avvenire dal titolo Il Papa interroga i nostri cuori. Idolatria parola tagliente


L'ha usata lui, il Papa. La parola che mancava. La parola giusta e tremenda. Quella che mancava ai dibattiti spesso interessanti ma talvolta stucchevoli tra laici e cattolici, tra uomini di fede e uomini che dicono di non averla. «Idolatria» ha detto Benedetto XVI. Ha commentato un Salmo, il 134. Un testo antico, ma che sembra scritto, anzi gridato per oggi. E quella parola tagliente piomba nei fumosi e salottieri dibattiti tra giornalisti e intellettuali, tra amici in salotto, nelle brode sui giornali. Come una grande domanda. Ok, non credi in Dio, allora che idolo hai? Molti risponderebbero: la politica, altri la cultura, altri me stesso, altri - pur senza confessarlo - il successo. Che idolo hai? Una domanda tremenda, anche per i credenti. Che trattano spesso Dio come un idolo, fatto a propria immagine e somiglianza. Banale come i loro pensieri, come i loro scrupoli. Disamorato come loro.
La Bibbia, anche nelle sue parti più poetiche come i Salmi è esatta. Dolcemente o ferocemente esatta. Ovvero indica con esattezza le questioni per l'uomo di sempre. E quel salmo ricorda dunque che il dibattito non è tra fede e non-fede, tra chi ha Dio e chi non ce l'ha. No, l'alternativa presente per ciascuno è tra Dio e gli idoli. La fede in Dio è sempre minacciata, anche nel cosiddetto credente, dalla fede negli idoli. Perché il dilemma vivo, che ad ogni istante uncina la mente e la carne è tra l'adesione al Mistero che fa tutte le cose o quella all'oggetto di volta in volta creato o scelto da me come possibile compimento per la vita.
Che grande, giusta, realista e maestosa considerazione del cuore umano: non è fatto per darsi al niente, non nasce per dedicarsi a nulla. Un uomo potrà decidere di avere come idolo il potere, o i soldi, la carriera o il sesso: ma elegge sempre qualcosa, o qualcuno a cui esser devoto. A cui fare sacrifici, anche eroici. Ma mai al niente. È una sacrosanta considerazione per il cuore umano: piuttosto che devoto al niente, sceglie un idolo. A volte idoli grandi, utopie, sogni di portare il paradiso in terra e di salvar lui, misero, la vita agli altri. O altre volte, più spesso, quell'idolo triste oggi di moda che è la «propria immagine», o il proprio «equilibrio».
Dice bene Ratzinger: l'adorare idoli (dedicando ad essi il tempo migliore, le energie più forti, i pensieri più attenti) è il segno di una religiosità deviata e ingannevole. Quanta devozione di tipo «religioso» vediamo oggi indirizzata a ottenere in ogni ambito potere, fama, soddisfazione immediata. Quanti idoli stiamo rifilando ai nostri ragazzini. Quanti devoti in giro. Al culto di sé, del proprio comodo, della tranquillità, della propria vita posseduta... Il Papa ha gettato quella parola nell'agone. Ha rilanciato l'accusa del Salmo. Accusa, si ricordi, che era rivolta innanzitutto al popolo che Dio si è scelto. Come dire: «So come siete fatti». Come dire: «So che appena potete, per comodità, o forse per maledetta disperazione vi fabbricate un dio più piccolo di me. Un dio morto. Un dio che non parla e non vede. Così da prestargli le parole e gli sguardi che vi pare». Come dire che Dio sa bene com'è l'uomo. Ha Dio nel cuore, ma l'idolatria nel sangue. E appena può, siccome non può rinunciare a un Dio che gli riempia il cuore, se ne fa uno a misura di un cuore amputato, di un cuore liofilizzato. Un dio morto per i desideri del suo cuore morto. E allora quell'accusa è come se fosse anche una supplica. Antica e attuale. Di Dio al suo popolo di ovunque. Del padre a suo figlio. Come se Dio si fosse messo a supplicare il nostro cuore di non rimpicciolirsi. Di non credere di meritarsi solo un dio morto. Come se dicesse: alza gli occhi pieni di pianto e pieni di luce, più su di quanto osi desiderare.
Ecco emergere l'idolatria (cfr vv. 15-18), espressione di una religiosità deviata e ingannevole. Infatti, l'idolo altro non è che un'«opera delle mani dell'uomo», un prodotto dei desideri umani; è quindi impotente a superare i limiti creaturali. Esso ha, sì, una forma umana con bocca, occhi, orecchi, gola, ma è inerte, senza vita, come accade appunto a una statua inanimata (cfr Sal 113B,4-8).
Il destino di chi adora queste «realtà morte» è di diventare simile ad esse, impotente, fragile, inerte
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