Figlio (paura di avere un figlio; ogni figlio è da Dio)

 

da Il figlio

di Giuseppe Angelini

 


 

Proprio questo inquieta il genitore: prima di tutto perché egli ha netto il sentimento di non sapere chi o che cosa potrà diventare suo figlio; secondariamente perché ha anche un altro sentimento, che cioè neppure il figlio lo sappia. Le radici della sua vita sono incerte. E’ incerto il fatto stesso che egli abbia radici.

Il figlio non sarà comunque il risultato della scelta dei genitori o il prodotto dei loro atti, anche se certo egli verrà al mondo in conseguenza di quegli atti. Nel caso della generazione si manifesta con innegabile chiarezza una legge che per altro riguarda in generale l’agire umano: egli non è padrone di quello che fa; quello che fa, appena sia stato fatto, è (anche) altro da quello che egli ha inteso. La verità dell’agire umano esige che l’uomo fin dall’inizio riconosca una tale trascendenza e decida quindi conformemente a tale consapevolezza.

Il linguaggio corrente del catechismo dice (o diceva, si tratta infatti di formule che oggi solo raramente e a stento vengono ripetute) che Dio stesso crea immediatamente l’anima del bambino; dai genitori sarebbe generato soltanto il corpo. Tale linguaggio certo non soddisfa del tutto; esso dovrebbe essere precisato, onde evitare quella rappresentazione dualistica di anima e corpo che invece facilmente insinua. Più in particolare, occorrerebbe correggere la rappresentazione dell’anima quale “cosa” immateriale e sottile che, creata da Dio in altro luogo, verrebbe poi immediatamente dal cielo al corpo del bambino. E tuttavia il linguaggio del catechismo esprime, nel suo nucleo essenziale, una verità indubitabile: il figlio non è il risultato degli atti dei genitori, né più in generale è il risultato del complesso delle cause mondane che pure concorrono a determinare la sua nascita e a qualificare la sua concreta identità storica.

Neppure il pensiero “laico”, che pure evita di pronunciare il nome di Dio, può evitare di affermare una tesi del genere: il figlio della donna e dell’uomo è persona, è dunque soggetto spirituale degno di infinito rispetto. La sua dignità si impone al riconoscimento dei genitori e in genere di tutti gli uomini; egli è irriducibile agli atti che pure soli ne hanno consentito la nascita. Tanto più è irriducibile alle intenzioni di coloro che pure lo hanno voluto.

Il ‘buon senso’ spesso si esprime così: “Hanno tutto, per forza sono incapaci di vivere! Se avessero conosciuto il bisogno, avrebbero certo meno grilli per la testa. Noi avevamo di meno, ma eravamo più contenti”. Si tratta di sentenze certo un poco sbrigative, e tuttavia pur nella loro rozza schematicità dicono qualche cosa di vero, che minaccia invece di essere ignorato dagli spiriti colti. Offrono, tra l’altro, una almeno approssimativa spiegazione dell’apparente paradosso per il quale proprio l’abbondanza determina una accresciuta difficoltà dell’educazione, e di riflesso anche un’accresciuta resistenza alla decisione di generare.

Davvero il bisogno educa? In che senso? E se anche così fosse, se ne potrebbe forse dedurre la conclusione che dunque conviene produrre artificiosamente una condizione di bisogno dei figli per propiziarne la crescita? Pare una strategia ovviamente improponibile.  

 


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