Fallimento: la figura di Elia (vivere il fallimento nella relazione con Dio)
da Figure di preghiera nella Bibbia di Sergio Bastianel
Elia lascia la città e va nel deserto, inoltrandosi in esso, da solo, per una giornata di cammino. Potremmo vedere già in questa indicazione del testo una forte valenza simbolica: un distacco dall’abituale quotidiano, verso il luogo della verità interiore, della preghiera. Nella consapevolezza di Elia, però, il motivo reale per cui egli lascia la città e va nel deserto è espresso nel desiderio di morire: “Ora basta Signore! Prendi la mia vita, perché io non sono migliore dei miei padri” (v.4b). E’ questa la comprensione che Elia ha di se stesso nel momento del fallimento della propria missione: ho cercato di rispondere alla chiamata di Dio, ho cercato di annunciare la sua presenza salvante, Dio mi ha aiutato, però non sono riuscito. Ciò che è accaduto mostra bene che io non sono migliore dei miei padri. Sono un fallito! Non mi ascoltano, hanno ucciso i profeti ed anche la mia vita ora è oggettivamente in pericolo. Sono un fallito come persona e come profeta. Questo modo di pensare e di valutare la situazione mette in evidenza unicamente il fallimento della propria missione. Così sembra ad Elia e così sembrerebbe anche a noi, visto che spesso pensiamo in questa maniera. Gli elementi sui quali poggia questo modo di capire se stessi hanno tutte le caratteristiche degli elementi oggettivi. L’andare nel deserto è allora sotto il segno della non-speranza: non quella globale che trova appoggio in Dio, ma quella ancorata nell’efficacia della propria vita e nelle possibilità di efficacia del proprio ministero. Ciò che Elia chiede, pensando in questo modo, è solo di morire in pace, e questo è il segno evidente di quanto sia profonda l’esperienza del fallimento personale. E’ interessante però notare che Elia non dice a se stesso che sarebbe meglio morire, ma lo dice al Signore. Ciò significa che dentro la sua esperienza fallimentare la relazione con Dio rimane e rimane sincera: non lascia fuori dal suo discorso con Dio la sua esperienza di negatività e il suo sentire rispetto ad essa. C’è, dunque, un’esperienza di personale rapporto con Dio che continua anche all’interno della sfiducia presente. Rimane però il dato di fatto, di ciò che Elia capisce di se stesso: la cosa migliore che Dio possa fare per me è di lasciarmi morire in pace. Il deserto, non per iniziativa di Elia, si trasforma, come realtà simbolica, da luogo di fuga in luogo di ricerca e di incontro con Dio stesso...
Elia ha avuto cura della verità e della sincerità della sua fede. Egli non ha tenuto per sé la sua esperienza negativa, ma l’ha comunicata a Dio in preghiera. Questo è un elemento molto importante: quando un credente incontra delle difficoltà e vuole gestirle per conto proprio, egli di fatto esclude dalla relazione con Dio un tratto della sua vita. E’ come se dicesse: per quanto riguarda quest’aspetto della mia esistenza, Dio non c’entra. Qui entro soltanto io e ci penso io. E’ una tentazione assai diffusa anche oggi! Molto spesso, infatti, noi vogliamo regolare una cosa o l’altra della nostra vita e poi eventualmente parlarne anche con il Signore. Vogliamo di fatto vivere come se il Signore non ci fosse in qualche cosa che ci riguarda così profondamente da esserne preoccupati. In questo modo facciamo una vera e propria professione di ateismo: per tutto il resto Dio c’è, ma non in questa realtà che ci riguarda adesso. Avere un problema e volerlo risolvere da soli, al di fuori della preghiera, è di fatto affermare che la relazione con Dio non entra e non deve entrare in questa sfera della vita, è dichiarare che in essa Dio non esiste per noi. Elia non fa così. Fugge dalla città, fugge nel deserto, desidera la morte, ma lo dice al Signore. E lo dice non perché convinto che il Signore non è al corrente della sua situazione, ma perché ha bisogno di dirlo. Anche noi abbiamo bisogno di dirlo, perché in questo modo facciamo essere vera la relazione con Dio.