Da
Terra degli uomini (il racconto di Guillaumet)
di A. de Saint-Exupéry
Pugile vincente, ma segnato dai duri colpi ricevuti, rivivevi la tua strana
avventura. Te ne sgravavi a brandelli. E nel corso del tuo racconto notturno,
io ti scorgevo, in cammino, senza piccozza, senza corde, senza viveri, mentre
scalavi valichi di quattromilacinquecento metri o avanzavi lungo pareti verticali,
con piedi, ginocchia e mani sanguinanti, a quaranta gradi sotto zero.
Svuotato a poco a poco di sangue, di forze, di ragione, procedevi con una cocciutaggine da formica, tornando sui tuoi passi per aggirare l’ostacolo, rimettendoti in piedi dopo i capitomboli, o risalendo le discese che portavano solo a un abisso, senza concederti, insomma, alcun riposo, poiché dal letto di neve non ti saresti rialzato.
Quando scivolavi, infatti, dovevi affrettarti a rimetterti in piedi, per non essere tramutato in pietra. Il freddo ti pietrificava d’istante in istante, e un attimo di riposo in più assaporato dopo una caduta ti costringeva a far funzionare muscoli inerti, per rialzarti.
Resistevi alle tentazioni. “Nella neve”, mi dicesti, “si perde totalmente l’istinto di conservazione. Dopo due, tre, quattro giorni che si cammina, non si desidera più altro che il sonno. Lo desideravo. Ma mi dicevo: mia moglie, se mi crede vivo, mi crede in cammino; i compagni mi credono in cammino; hanno fiducia in me, tutti quanti; e se non cammino sono un mascalzone.”
E camminavi. E, con la punta del temperino, allargavi ogni giorno un po’ più lo sdrucio delle scarpe affinché i tuoi piedi, che gelavano e si gonfiavano, ci potessero stare.
Mi hai fatto questa strana confidenza:
“Sai, dal secondo giorno in poi, il lavoro più grosso fu quello di vietarmi di pensare. Soffrivo troppo, ero in una situazione troppo disperata; per avere il coraggio di camminare non dovevo considerarla. Per sfortuna, non avevo un buon dominio sul cervello, che girava come una turbina. Avevo però ancora la possibilità di sceglierli le immagini. Lo imballavo su un film, su un libro. E il film o il libro mi scorreva davanti agli occhi a tutta forza. Poi mi riconduceva alla situazione in atto. Immancabile. Ed io lo lanciavo su altri ricordi...”
Una volta, però, steso bocconi nella neve dopo una caduta, rinunciasti a rialzarti. Eri come il pugile che, svuotato ad un tratto d’ogni passione, ode i secondi cadere in un mondo estraneo, ad uno ad uno, fino al decimo ch’è senza appello.
“Ho fatto ciò che potevo e non ho speranze, perché ostinarmi in questo martirio?”. Non avevi che da chiudere gli occhi e la pace sarebbe scesa sull’universo. Rocce, ghiacci e nevi si sarebbero cancellati. Appena chiuse quelle palpebre miracolose, niente più colpi, cadute, strappi muscolari, ustioni del gelo, né quel peso di dover trascinare la vita, quando si è costretti ad andare avanti come un bue ed essa diventa più pesante di un carro. Ne sentivi già il sapore, di quel freddo divenuto veleno e che, simile alla morfina, ti colmava ora di beatitudine. La tua vita si rifugiava intorno al cuore. Qualcosa di dolce e prezioso si rincantucciava nel centro di te stesso. La tua coscienza per gradi abbandonava le remote regioni di quel corpo, che, animale saturato di sofferenza, già assumeva l’indifferenza del marmo.
Si placavano anche i tuoi scrupoli. I nostri richiami non ti raggiungevano più, o meglio, ti si tramutavano in richiami di sogno. Rispondevi, felice, con una marcia sognata, con lunghi passi agevoli che ti aprivano senza sforzo le delizie della pianura. Come facilmente scivolavi in un mondo diventato così tenero per te! Decidesti, Guillaumet, avaramente, di negarci il tuo ritorno.
I rimorsi sorsero dal sottofondo della coscienza. Certi particolari precisi si mescolarono improvvisamente al sogno. “Pensavo a mia moglie. La mia polizza di assicurazione le avrebbe risparmiato la miseria. Sì, ma le assicurazioni...”
In caso di scomparsa, c’è una mora di quattro anni per la morte legale. Questo particolare ti si presentò abbagliante, cancellando le altre immagini. Ora, tu eri steso bocconi su un ripido pendio di neve. Il tuo corpo, col sopraggiungere dell’estate, sarebbe rotolato assieme alla fanghiglia verso uno dei mille crepacci delle Ande. Lo sapevi. Ma sapevi pure che una roccia emergeva, davanti a te, a cinquanta metri: “Ho pensato: se mi rialzo, forse posso raggiungerla: e, se addosso il mio corpo contro la pietra, in estate lo ritroveranno”.
Una volta in piedi, camminasti per due notti e tre giorni.
Ma non credevi affatto di arrivare lontano:
“Presagivo la fine, da molti indizi. Eccone uno. Ero costretto a sostare, circa ogni due ore, per incidere un po’ di più la scarpa, per frizionarmi con la neve i piedi che si gonfiavano, o semplicemente per far riposare un po’ il cuore. Ma negli ultimi giorni cominciai a perdere la memoria. Dopo che mi ero rimesso in moto da un pezzo, mi si faceva luce: ogni volta, avevo dimenticato qualcosa. La prima, si trattò d’un guanto; ed era grossa, con quel freddo! L’avevo posato davanti a me ed ero ripartito senza raccattarlo. Poi si trattò dell’orologio. Poi del temperino. Poi della bussola. Ad ogni sosta m’impoverivo...
“La salvezza sta nel fare un passo. Ancora uno. Il passo è sempre quello, ripetuto...”
“Ti giuro, non c’è bestia che sarebbe mai riuscita a fare quel che ho fatto.” Questa frase, la più nobile ch’io conosca, questa frase, che dà all’uomo il suo posto, che lo onora, che ristabilisce le vere gerarchie, mi tornava in mente. Finisti con l’addormentarti, la coscienza in te fu soppressa; ma al risveglio sarebbe rinata da quel corpo smantellato, gualcito, arso, e l’avrebbe nuovamente dominato. Il corpo, allora, non è più altro che un buon strumento, che un buon servitore. E tu, Guillaumet, sapesti anche esprimere questo orgoglio del buon strumento.
“Privo di nutrimento, puoi figurarti se, al terzo giorno di marcia...il cuore, non mi funzionava mica un gran che....Ebbene, su una parete a picco, lungo la quale avanzavo sospeso sul vuoto e scavando buche per punti d’appoggio alle mani, eccoti che il mio cuore si pianta. Esita, riparte. Perde colpi. Sento che se esita un attimo di più, io mollerò. Sto fermo, immobile, ad ascoltarmi dentro. Mai, capisci, mai in aereo mi sono sentito aggrappato così strettamente al motore, come mi sono sentito, in quei pochi minuti, appeso al mio cuore. Gli dicevo: su, fa’ uno sforzo, tenta di battere ancora... Ma era un cuore di buona qualità! Esitava, ma sempre riprendeva... Sapessi com’ero fiero di quel cuore!”
Finivi coll’addormentarti in un sonno affannoso, nella camera di Mendoza in cui ti vegliavo. Ed io pensavo: Guillaumet farebbe un’alzata di spalle, a parlargli del suo coraggio; ma lo si tradirebbe anche celebrando la sua modestia. Egli sta molto più in là di questa virtù mediocre. Alza le spalle, ma per saggezza. Sa che gli uomini non hanno più paura delle cose, una volta che sono accadute e li hanno tirati in ballo. Solo l’ignoto spaventa gli uomini. Ma, per chiunque, cessa di essere ignoto, nell’attimo in cui egli l’affronta. Specialmente se lo considera con tale lucida serietà. Il coraggio di Guillaumet è conseguenza, in primo luogo, della sua rettitudine.
La sua virtù vera non è in questo. La sua grandezza è di sentirsi responsabile. Responsabile di se stesso, del corriere. E dei compagni che sperano, poiché la loro gioia o il loro dolore sono nelle sue mani. Si sente responsabile nei confronti di quanto si va edificando di nuovo laggiù, nel mondo dei vivi, avendo egli il dovere di prendervi parte; e, nei limiti del suo lavoro, si sente un poco responsabile del destino degli uomini.
Appartiene al novero di quegli esseri d’ampia levatura che consentono a coprire col loro fogliame ampi orizzonti. Essere uomo significa appunto essere responsabile. Significa provare vergogna in presenza d’una miserie che pur non sembra dipendere da noi. Esser fieri d’una vittoria conseguita dai compagni. Sentire che, posando la propria pietra, si contribuisce a costruire il mondo.
Si vuol confondere uomini simili con i toreri o i giocatori. Si loda il loro disprezzo della morte. Ma del disprezzo della morte non so che farmene. Se esso non ha radice in una responsabilità consapevolmente accettata, è indice unicamente di povertà o d’eccesso giovanile. Ho conosciuto un giovane suicida. Fu spinto, da non so più qual pena d’amore, a spararsi con cura una pallottola nel cuore. S’era infilato un paio di guanti bianchi, e non so a qual tentazione letteraria avesse ceduto; ma ricordo d’aver provato, di fronte a quella triste esibizione, un’impressione non di nobiltà ma di miseria. Dietro quel viso simpatico, sotto quel cranio d’uomo, non c’era stato dunque niente, proprio un ben niente. Tranne l’immagine di non so qual sciocchina simile ad altre.
Di fronte a quella sorte meschina ricordai una vera morte da uomo. Quella di un giardiniere che mi diceva: “Sa... talvolta faticavo a vangare e avevo le fitte dei reumatismi nella gamba. Imprecavo contro quella schiavitù. Oggi invece vorrei vangare, vangare nel terreno. Mi sembra così bello, vangare! Si è così liberi, vangando! E poi, anche i miei alberi, chi li poterà?”. Egli lasciava un terreno incolto. Era vincolato amorosamente a tutti i terreni ed alberi della terra. Il generoso, il prodigo, il gran signore, era lui! Era coraggioso, come Guillaumet, lottando contro la morte in nome della propria Creazione.
Sempre da Terra degli uomini (il racconto autobiografico della lotta nel deserto per la sopravvivenza)
Che si sia vivi è inspiegabile. Tenendo in mano la torcia elettrica ripercorro la traccia lasciata sul suolo dall’aeroplano. Lungo tutto il suo percorso ha disseminato la sabbia di ferraglie contorte e pezzi di lamiera; ne troviamo fino a duecentocinquanta metri dal punto in cui si è fermato. Vedremo poi, quando farà giorno, che abbiamo investito quasi tangenzialmente un dolce pendio in cima a un tavoliere deserto. Nel punto dell’urto lo scavo del terreno sembra fatto da un vomere d’aratro. L’apparecchio, senza cappottare, è avanzato sul ventre con una furia e dei movimenti di coda da rettile. Ha strisciato a duecentosettanta chilometri all’ora. Dobbiamo la vita, senza dubbio, a queste pietre nere e rotonde che rotolano liberamente sulla sabbia e che hanno fatto da cuscinetto a sfere.
Prévot stacca gli accumulatori, onde evitare un incendio postumo, per corto circuito. Io, seduto con le spalle appoggiate al motore, rifletto: può darsi che in altitudine si sia subito per quattro ore l’effetto di un vento di cinquanta chilometri all’ora, e infatti si era scossi. Ma se, in un momento successivo alle previsioni che mi erano state comunicate, il vento è cambiato, io ignoro completamente quale direzione abbia preso. Valuto dunque la mia posizione entro un quadrato di quattrocento chilometri di lato.
Prévot viene a sedersi accanto a me, e mi dice: “Che cosa straordinaria, esser vivi...”
Non gli rispondo niente e non provo nessuna gioia. Mi si è presentato un certo pensierino, che va facendosi strada nel mio cervello e già mi rode leggermente. Chiedo a Prévot di accendere la sua lampada, per fare da punto di riferimento, e mi allontano, dritto davanti a me, con la torcia elettrica in mano. Guardo il suolo con attenzione. Avanzo lentamente, compio un ampio semicerchio, cambio più volte l’orientamento. Continuo a scrutare in terra come se cercassi un anello smarrito. Allo stesso modo, poco fa, cercavo la brace. Avanzo sempre, nell’oscurità, chino sul disco bianco che faccio scorrere qua e là. Proprio così...proprio così...Risalgo a passo lento verso l’aereo. Mi siedo accanto alla cabina e medito. Cercavo un motivo di speranza, e non l’ho trovato. Cercavo un cenno offerto dalla vita, e la vita non mi ha fatto cenno.
-Prévot, non ho veduto un solo filo d’erba...
Prévot rimane zitto, non so se mi ha capito. Ne riparleremo al levarsi del sipario, quando farà giorno. Io provo solo una grande spossatezza; penso: “Più o meno a quattrocento chilometri, in deserto...”. Improvvisamente salto in piedi:
- L’acqua!
I serbatoi del carburante, i serbatoi dell’olio sono sfondati. Così pure le nostre riserve d’acqua. La sabbia ha bevuto tutto. Ritroviamo un mezzo litro di caffè in fondo a un termos in frantumi, un quarto di litro di vino bianco in fondo a un altro. Filtriamo questi liquidi e li mescoliamo insieme. Ritroviamo anche un po’ d’uva, e un’arancia. Ma io calcolo: “In cinque ore di marcia, nel deserto, sotto il sole, tutto ciò è bell’e finito...”.
Ci sistemiamo nella cabina ad aspettare l’alba.
Mi stendo, sto per addormentarmi. Nel prender sonno traccio il bilancio della
nostra disavventura: non sappiamo un bel niente della nostra posizione. Non
abbiamo neanche un litro di liquido. Se siamo all’incirca sulla linea retta,
ci ritroveranno entro otto giorni, né possiamo sperare di meglio, e sarà troppo
tardi. Se siamo andati in deriva lateralmente, ci ritroveranno tra sei mesi.
Non è il caso di fare assegnamento sugli aerei: ci cercheranno su tremila chilometri.
- Ah, che peccato!... – mi dice Prévot.
- Perché?
-
C’era un’ottima possibilità di farla finita in un colpo solo!...
Ma non bisogna essere così solleciti nell’abdicare. Prévot ed io ci riprendiamo. Non bisogna sprecare l’eventualità di un miracoloso salvataggio dalle vie dell’aria, per quanto labile essa sia. Né bisogna restar fermi sul posto, mancando magari un’oasi vicina. Oggi cammineremo, tutto il giorno. E torneremo al nostro apparecchio. E prima di partire faremo un’iscrizione a grandi lettere maiuscole, sulla sabbia, col nostro programma.
Mi sono dunque raggomitolato, preparandomi a dormire fino all’alba, e sono felicissimo di addormentarmi. La stanchezza mi avvolge in una presenza molteplice. Non sono solo nel deserto, il mio dormiveglia è popolato di voci, di ricordi e di confidenze sussurrate. Non ho ancora sete, mi sento bene, mi affido al sonno quasi alla ventura. La realtà recede dinanzi al sogno...Ah, fu molto diverso, quando si fece giorno!
Io ho amato il Sahara. Ho trascorso nottate in terra ribelle. Al risveglio mi sono trovato nella distesa bionda in cui il vento ha impresso la sua onda lunga, come sul mare. Là ho atteso i soccorsi dormendo sotto la mia ala, ma era stata tutt’altra cosa.
Ora camminiamo sul versante di colline falcate. Il suolo è composto di una sabbia interamente ricoperta d’un solo strato di ciottoli brillanti e neri. Si direbbero scaglie di metallo, e tutte le cupole che abbiamo intorno brillano a guisa di armature. Siamo caduti in un mondo minerale. Siamo imprigionati in un paesaggio di ferro.
Valicato il primo crinale, più innanzi se ne annuncia un altro uguale, brillante e nero. Noi camminiamo raschiando con i piedi la terra per tracciarvi un filo conduttore che ci servirà a tornare sui nostri passi in seguito. Avanziamo col sole in faccia. Il fatto di aver deciso di dirigere dritto per est è contrario ad ogni logica, poiché tutto, previsioni meteorologiche, tempo di volo, mi spinge a credere di avere oltrepassato il Nilo. Ma, avendo abbozzato un tentativo verso ovest, ho sentito un disagio che non sono riuscito a spiegarmi. Perciò ho rinviato l’ovest a domani. E per il momento ho rinunciato al nord, benché conduca al mare. Anche tre giorni dopo, quando in un semidelirio decideremo di abbandonare l’apparecchio e camminare dritto innanzi a noi fino a cadere, ci avvieremo ad est. Più esattamente, ad est-nord-est. Ed anche questo sarà in contrasto con ogni ragionevolezza, con ogni speranza. Ma, tratti in salvo, scopriremo che nessun’altra direzione ci avrebbe riportato tra i vivi, poiché verso nord, troppo sfiniti, non avremmo comunque raggiunto il mare. Per quanto assurdo ciò possa apparire, oggi mi sembra che, in assenza di una qualsiasi indicazione che potesse influire sulla nostra scelta, io ho scelto tale direzione per l’unico motivo ch’era quella che aveva salvato il mio amico Guillaumet nelle Ande, dove l’avevo tanto cercato. Oscuramente, era divenuta per me la direzione della vita.
Dopo cinque ore di marcia, il paesaggio cambia. Un fiume di sabbia sembra scorrere in una valle e noi prendiamo lungo quel fondo di valle. Camminiamo a grandi passi, occorre arrivare più lontano che si può e ritornare prima di notte, se non si è scoperto nulla. Repentinamente, faccio alt:
- Prévot.
- Che c’è?
-
Le tracce...
Da quanto tempo abbiamo dimenticato di lasciarci una scia alle spalle? Se non la ritroviamo, è la morte. Facciamo dietro-front ma obliquando a destra. Arrivati abbastanza innanzi, vireremo perpendicolarmente alla nostra direzione primitiva, e taglieremo le nostre tracce, là dove ancora le segnavamo.
Dopo avere riannodato quel filo, ripartiamo. Il caldo aumenta e, con esso, nascono i miraggi. Ma per ora sono soltanto miraggi elementari. Grandi laghi si formano, e svaniscono quando avanziamo. Decidiamo di attraversare la valle di sabbia e di scalare la cupola più alta per osservare l’orizzonte. Stiamo già camminando da sei ore. Dobbiamo essere riusciti a percorrere, a grandi passi, un totale di trentacinque chilometri. Eccoci giunti in vetta a quella groppa nera, dove ci sediamo in silenzio. La valle di sabbia, ai nostri piedi, sfocia in un deserto di sabbia senza pietre, che ci ferisce gli occhi con la sua splendente luce bianca. A perdita d’occhio, c’è il vuoto. Ma ci sono giochi di luce che all’orizzonte compongono miraggi già più sconcertanti. Fortezze e minareti, masse geometriche a linee verticali. Noto anche una grande macchia nera che finge una vegetazione; ma la sovrasta l’ultima di quelle nubi che, col giorno, si sono dissolte e che rinasceranno questa sera. E’ solo l’ombra di un cumulo.
Andare oltre è inutile, questo tentativo non conduce in nessun luogo. Bisogna che ritorniamo al nostro aereo, boa rossa e bianca che, forse, i compagni riusciranno a individuare. Pur non fondando alcuna speranza in tali ricerche, esse mi appaiono l’unica probabilità di salvezza. E, soprattutto, abbiamo lasciato laggiù le nostre ultime gocce di liquido e già abbiamo assoluto bisogno di berle. Bisogna che noi si torni, per vivere. Siamo prigionieri di questo cerchio ferreo: la breve autonomia della nostra sete.
Ma com’è difficile fare dietro-front, quando si camminerebbe forse verso la vita! Di là dai miraggi l’orizzonte è forse ricco di città vere, di canali d’acqua dolce e di prati. So di avere ragione, facendo dietro front. Eppure, ho l’impressione di colare a fondo, nel dare questo terribile colpo di timone.
Ci siamo coricati accanto all’aeroplano. Abbiamo percorso più di sessanta chilometri. Abbiamo esaurito i nostri liquidi. Ad est non abbiamo avvistato niente e nessun compagno ha sorvolato questa zona. Quanto tempo resisteremo? Abbiamo già tanta sete...
Abbiamo costruito un grande rogo servendoci di qualche rottame dell’ala frantumata. Abbiamo preparato la benzina e le lastre di magnesio che producono un crudo splendore bianco. Abbiamo atteso che la notte fosse completamente nera prima di appiccare il nostro incendio...Ma dove sono, gli uomini?
Ora la fiamma sale. Religiosamente, guardiamo ardere il nostro fanale nel deserto. Guardiamo risplendere nella notte il nostro messaggio splendente e silenzioso. Ed io penso che se esso porta con sé un appello già patetico, porta anche con sé molto amore. Chiediamo da bere, ma chiediamo anche di comunicare. Si accenda un altro fuoco nella notte, poiché solo gli uomini hanno a disposizione il fuoco; ci rispondano!
Rivedo gli occhi di mia moglie. Non potrò vedere nulla che sia più di quegli occhi. Interrogano. Rivedo gli occhi di tutti coloro che, forse, hanno affetto per me. E quegli occhi interrogano. Tutta un’adunata di sguardi mi rimprovera il mio silenzio. Io rispondo! Io rispondo! Io rispondo con tutte le mie forze, non posso lanciare, nella notte, una fiamma più splendente!
Ho fatto quel che ho potuto. Abbiamo fatto
quel che abbiamo potuto: quasi sessanta chilometri senza bere. Adesso non berremo
più. E’ colpa nostra se non possiamo aspettare molto a lungo? Come saremmo rimasti
qui, da bravi, a poppare le nostre fiasche! Ma nell’attimo stesso in cui ho
aspirato il fondo del bicchiere di stagno, un orologio si è messo in movimento.
Nell’attimo stesso in cui ho succhiato l’ultima goccia, ho cominciato a discendere
una china. Che ci posso fare se il tempo mi porta via con sé come un fiume?
Prévot piange. Gli batto sulla spalla. Gli dico, per consolarlo:
- Se si è fregati, si è fregati...
Mi risponde:
-
Se lei crede che io pianga per me...
E ho già scoperto, s’intende, questo assioma. Nulla è intollerabile. Imparerò domani, e dopodomani, che nulla, in definitiva, è intollerabile. Credo solo in parte alla tortura. E’ una riflessione che mi si è già presentata. Un giorno credetti di annegare, imprigionato in una cabina, e non ho sofferto molto. Ho creduto talvolta di spaccarmi la faccia, e non mi è sembrato che fosse un avvenimento considerevole. Anche qui, non conoscerò affatto l’angoscia. Domani imparerò, in proposito, cose ancora più strane. E lo sa Iddio se, nonostante quel gran fuoco che ho acceso, ho rinunciato a farmi udire dagli uomini!...
“Se crede che io pianga per me...” Sì, sì, questo è intollerabile. Ogni volta che rivedo quegli occhi in attesa mi sento bruciare. Mi assale la voglia improvvisa di alzarmi e mettermi a correre, dritto dinanzi a me. Laggiù qualcuno grida aiuto, sta naufragando!
Questo capovolgimento delle parti è strano, ma ho sempre pensato che le cose stessero così. Tuttavia doveva esserci Prévot per rendermene completamente sicuro. Ebbene, anche Prévot non conoscerà affatto quell’angoscia di fronte alla morte, di cui tutti ci rintronano le orecchie; però esiste una cosa ch’egli non sopporta, ed io neppure.
Ah, accetto senz’altro di addormentarmi, di addormentarmi per una notte o per secoli. Se mi addormento non conosco la differenza. E poi, che pace! Ma quelle grida che verranno lanciate, laggiù, quelle grandi esplosioni di disperazione... non ne sopporto l’immagine. Non posso incrociare le braccia di fronte a quei naufraghi! Ogni minuto secondo di silenzio uccide un poco coloro ch’io amo. Ed una gran rabbia si fa strada in me: perché queste catene che m’impediscono di arrivare in tempo a soccorrere quelli che vanno a fondo? Perché il nostro incendio non porta il nostro grido in capo al mondo? Aspettate!... Arriviamo!...Arriviamo!... Siamo i salvatori!