Beati
Nella lingua ebraica non c’è un termine che corrisponda veramente al nostro concetto di “felicità”, benché molti lo sfiorino da vicino.
In ultima analisi il termine ashrè, spesso tradotto con “felice” o “beato”, è probabilmente quello che più si avvicina a ciò che normalmente intendiamo per “felicità”.
E’ qualcosa di così vago la felicità, nella Bibbia come nella vita! Del resto l’infelicità si sfiora continuamente. Basta un nulla – il battito d’ali di una farfalla – per far pendere in un istante la bilancia da una parte o dall’altra, come suggerisce la parola arcaica francese heur, “fortuna”, comune a bonheur (felicità) e malheur (infelicità).
Colui che sceglie la legge di Dio raramente conosce la felicità così come la si immagina.
Nelle storie dell’Antico Testamento si osserva una costante. La felicità non viene mai concessa subito. Essa arriva a coronamento di una storia dove i protagonisti hanno dovuto affrontare l’oscurità del pericolo, della sventura o della morte. La loro felicità appare come il risultato di un atteggiamento paradossale, che consiste nel rinunciare ad accaparrarsi la propria felicità e nel lasciare che giunga da sola, a suo tempo, come un frutto maturo offerto dal Dio della vita, e contemporaneamente nel lavorare in vista della felicità, adattandosi alla realtà e agli altri senza rassegnarsi alle situazioni difficili. Perché la felicità non arriva senza che, animate da una misteriosa fiducia, queste persone abbiano corso dei rischi in modo che la vita potesse uscire dal vicolo cieco; ma allo stesso tempo non è certo il fatto di aver corso questi rischi ciò che le ha rese felici. Tutto avviene come se fosse necessario in qualche modo “mollare la presa”, per conoscere una felicità della quale queste storie ci dicono anche che non è mai acquisita una volta per tutte.