Da “I quattro amori”
di C.S. Lewis
L’amicizia è – ma
non in senso peggiorativo – il meno naturale degli affetti naturali, il meno
istintivo, organico, biologico, gregario e indispensabile...
Quando due
persone diventano amiche significa che esse si sono allontanate, insieme, dal
gregge. Senza l’eros nessuno di noi sarebbe stato generato, e senza l’affetto
nessuno di noi avrebbe ricevuto un’educazione; al contrario si può vivere e
riprodursi anche senza l’amicizia... Questa qualità, per così dire “innaturale”,
dell’amicizia costituisce un’ottima spiegazione al fatto che essa fu esaltata
in epoca antica e medievale, ma è tenuta in poca considerazione ai giorni nostri.
L’ideale che permeava di sé quelle età era d’impronta ascetica, volto a una
rinuncia del mondo... Unica tra tutti gli affetti, essa sembra innalzare l’uomo
a livello degli dei, o degli angeli... Niente è più lontano dall’amicizia di
una passione amorosa. Gli innamorati si interrogano continuamente sul loro amore;
gli amici non parlano quasi mai della loro amicizia. Gli innamorati stanno quasi
tutto il tempo, fianco a fianco, assorti in qualche interesse comune. Ma soprattutto,
l’eros (finché dura) lega necessariamente due sole persone. Il due invece, lungi
dall’essere il numero distintivo dell’amicizia, non è nemmeno il più congeniale
a questo tipo di legame...
In ciascuno
dei miei amici c’è qualcosa che solo un altro amico sa mettere pienamente in
luce... Da ciò consegue che l’amicizia è il meno geloso degli affetti. Due amici
sono ben lieti che a loro se ne unisca un terzo, e tre, che a loro se ne unisca
un quarto, a patto che il nuovo venuto abbia le carte in regola per essere un
vero amico. Essi potranno dire, allora, come le anime beate di Dante: “Ecco
che crescerà li nostri amori”, poiché in questo amore “condividere non significa
perdere”... In questo senso, l’amicizia rivela una piacevole “vicinanza per
somiglianza” con lo stesso Paradiso, dove proprio la moltitudine dei beati (il
cui numero sfugge a qualunque calcolo umano) accresce il godimento che ciascuno
ha di Dio. Ogni anima, infatti, Lo vede in maniera personale, e comunica poi
questa visione unica a tutte le altre. Questo è il motivo per cui, come dice
un autore antico, i Serafini, nella visione di Isaia, cantano vicendevolmente:
“Santo, Santo, Santo” (Is 6,3). Più divideremo tra noi il pane celeste,
più ne avremo per cibarcene...
L’amicizia
nasce dal semplice cameratismo quando due o più compagni scoprono di avere un’idea,
un interesse o anche soltanto un gusto, che gli altri non condividono e che,
fino a quel momento, ciascuno di loro considerava un suo esclusivo tesoro (fardello).
La frase con cui di solito comincia un’amicizia è qualcosa del genere: “Come?
Anche tu? Credevo di essere l’unico...”.
Il marchio
della perfetta amicizia non è il fatto di essere pronti a prestare aiuto nel
momento del bisogno (anche se questo si verificherà puntualmente), ma il fatto
che, una volta dato questo aiuto, nulla cambia. Si è trattato di una deviazione,
di un’anomalia, di una fastidiosa perdita di tempo, rispetto a quei pochi momenti
– sempre troppo fugaci – in cui si può stare insieme... L’amicizia, come l’eros,
non è mai inquisitrice. Si diventa amici di una persona senza sapere, né preoccuparsi,
se egli sia sposato o meno, o di come si guadagni da vivere. Tali “questioni
pratiche”, “affari di secondaria importanza” non hanno nulla a che vedere con
la domanda fondamentale: “Vedi la stessa verità?”... Questa è la regalità dell’amicizia:
in essa ci incontriamo come sovrani di stati indipendenti, fuori del nostro
paese, sul terreno neutrale, svincolati dal nostro contesto... Da ciò deriva
il carattere squisitamente arbitrario e l’irresponsabilità di questo affetto.
Non ho il dovere di essere amico verso nessuno, e nessuno ha il dovere di esserlo
nei miei confronti... L’amicizia è superflua, come la filosofia, l’arte, l’universo
(Dio infatti non aveva bisogno di creare).