Ci troviamo nella sede del Patriarcato Ecumenico di Costantinopoli, la Sede occupata ora da Bartolomeo I. Ho
voluto che venissimo qui e ritengo questa una delle tappe obbligate di un pellegrinaggio in Turchia, proprio
perché essere pellegrini non vuol dire mai solo incontrare le testimonianza del passato, ma anche incontrare
la testimonianza viva dei cristiani che ora vivono in questo luoghi.
Una immagine ci può introdurre al mistero che questo luogo significa, una metafora divenuta famosa negli
ultimi anni, da quando il Papa Giovanni Paolo II l’ha usata e l’ha fatta sua, quella del respirare
con due polmoni. E’ stato un poeta, filosofo e filologo russo, Vjaceslav Ivanov, a coniarla,
quando, da ortodosso che era, si fece cattolico, scoprendo tutta la ricchezza del “polmone”
occidentale della Chiesa, senza dimenticare quello orientale. Il Papa ha parlato dal punto di vista simmetrico,
dicendo che ogni cristiano d’Occidente deve imparare a ricevere tutto l’ossigeno che gli viene
portato dalla tradizione spirituale dell’Oriente cristiano. Così ha detto, infatti, nel Discorso ai
partecipanti al Simposio internazionale su "Ivanov e la cultura del suo tempo", tenuto il 28 maggio 1983:
La divisione storica delle Chiese è una ferita sempre aperta. Confessando, nella basilica di San Pietro
di Roma, il 17 marzo 1926, il Credo cattolico, Ivanov aveva coscienza, come scrisse a Charles du Bos, di
“sentirmi per la prima volta ortodosso nella pienezza dell’accezione di questa parola, in pieno
possesso del tesoro sacro, che era mio dal battesimo, e il cui godimento non era stato da anni libero da un
sentimento di malessere, divenuto a poco a poco sofferenza, per essere staccato dall’altra metà di
questo tesoro vivo di santità e di grazia, e di respirare, per così dire, come un tisico, che con un
solo polmone” (V.Ivanov, Lettre à Charles Du Bos, 1930, dans V.Ivanov et M.Gerschenson, Correspondance
d’un coin à l’autre, Lausanne, Ed. L’âge d’homme, 1979, p. 90). È la
stessa cosa che dicevo anch’io a Parigi ai rappresentanti delle comunità cristiane non cattoliche, il
31 maggio 1980, ricordando la mia visita fraterna al Patriarcato ecumenico di Costantinopoli: “Non si
può respirare come cristiani, direi di più, come cattolici, con un solo polmone; bisogna aver due
polmoni, cioè quello orientale e quello occidentale” (Giovanni Paolo II, Allocutio Lutetiae
Parisiorum ad Christianos fratres a Sede Apostolica seiunctos habita, 31 maggio 1980: AAS 72 [1980] 704).
Veniamo, allora, ad un primo aspetto che è importante sottolineare qui. Se è vero, come è vero,
che ciò che ci unisce agli altri cristiani è più grande di ciò che ci divide, questo
è massimamente vero nei rapporti fra i cattolici e gli ortodossi. Giovanni Paolo II ha scritto
nell’enciclica Ut unum sint, al numero 20:
Così credeva nell'unità della Chiesa Papa Giovanni XXIII e così egli guardava all'unità di
tutti i cristiani. Riferendosi agli altri cristiani, alla grande famiglia cristiana, egli constatava: "È
molto più forte quanto ci unisce di quanto ci divide".
Sapete bene che, se con tutti i cristiani abbiamo in comune la fede nella Trinità, la fede in Cristo vero
Dio e vero uomo, la verità del battesimo (queste verità contraddistinguono il cristiano, ogni
cristiano, fin dalle origini della storia del cristianesimo), molto maggiore è il patrimonio che abbiamo in
comune con gli ortodossi, nella ricchezza della diversità di tradizioni. Riconosciamo reciprocamente la
verità di tutti e sette i sacramenti – e la validità di un sacramento celebrato da un
ministro dell’altra confessione – e quindi la verità del sacramento dell’eucarestia e
prima ancora dell’ordinazione sacerdotale ed episcopale. A monte ancora di tutto questo riconosciamo la
legittima successione apostolica reciproca. Veramente i vescovi cattolici ed i vescovi ortodossi sono
successori degli apostoli, senza che mai si sia interrotta questa trasmissione sacramentale, generata dallo
Spirito Santo.
Il punto che non ci permette ancora la piena comunione è quello del ruolo del Papa, del significato del
suo primato. Gli ortodossi accettano sì un primato di Roma, ma lo indicano come un primato di onore; noi
cattolici crediamo che Roma abbia, invece, anche un primato detto “di giurisdizione”, cioè
– permettetemi la semplificazione – un’autorità, in alcune circostanze, di prendere una
decisione che riguarda tutti e non solo la propria Chiesa locale.
La riflessione sempre più condivisa dei teologi delle due parti afferma che le altre questioni teologiche -
che un tempo venivano indicate come differenze inconciliabili - non sono, in realtà, punti di vista opposti,
ma semplicemente diversità di espressione della stessa fede. Sono, quindi, pienamente accettabili. Il punto
più importante e noto è il cosiddetto problema del Filioque. Noi cattolici diciamo nel Simbolo detto
niceno-costantinopolitano: “Credo nello Spirito Santo che procede dal Padre e dal Figlio
(Filioque)”. L’originale greco del primo Concilio di Costantinopoli - e conservato immutato
nella tradizione bizantina – non ha la seconda parte, che è stata appunto aggiunta in Occidente:
“e dal Figlio (Filioque)”. Questa aggiunta si è lentamente imposta nella tradizione latina, a
partire dalla Spagna, poi allargandosi geograficamente in età carolingia, fino a diventare espressione di
tutta la Chiesa cattolica nel basso Medioevo, a partire dal 1014. Ma, in latino, dire “ex Patre Filioque
procedit” ha un significato diverso dal dire in greco “ek tou Patròs ekporeuomenon kaì tou
Yiou”, perché la preposizione “ek” greca indica l’origine prima - e la Chiesa
cattolica sa bene questo – mentre l’ “ex” latino sottolinea, invece, la comunione del
Padre con il Figlio nella quale “procede” lo Spirito (lo Spirito procede dal Padre per mezzo del
Figlio). Le due diverse tradizioni non si oppongono, ma esprimono due aspetti complementari dell’unico
mistero della Trinità. Vi leggo un piccolo brano di un testo sul Filioque, apparso sull’Osservatore Romano del settembre 1995:
Per la chiesa cattolica "la tradizione orientale mette soprattutto in rilievo che il Padre, in rapporto allo
Spirito, è l'origine prima. Confessando che "lo Spirito procede dal Padre (ek tou Patròs ekporeuomenon
cfr. Gv 15,26)", afferma che lo Spirito procede dal Padre attraverso il Figlio. La tradizione occidentale dà
maggiore risalto alla comunione consustanziale tra il Padre e il Figlio affermando che lo Spirito procede dal
Padre e dal Figlio (Filioque) (...). Questa legittima complementarità, se non viene inasprita, non scalfisce
l'identità della fede nella realtà del medesimo mistero confessato" ( CCC 248). Consapevole di
ciò, la chiesa cattolica ha rifiutato che sia aggiunto un kaì tou Yiou alla formula ek tou Patròs
ekporeuomenon del simbolo di Nicea-Costantinopoli nelle chiese, anche di rito latino, che l'utilizzano in greco;
l'uso liturgico di questo testo originale è in effetti rimasto sempre legittimo nella chiesa
cattolica.
Un secondo punto: lo strutturarsi dei patriarcati antichi e di questo patriarcato che è il secondo
per importanza al mondo, dopo quello di Roma. La Chiesa antica ha sempre ritenuto che la storia salvifica si
concretizzi in alcuni luoghi, attraverso la successione apostolica che li caratterizza. In particolare, il fatto
che Pietro sia venuto a Roma e lì abbia dato la sua testimonianza suprema, caratterizza in maniera peculiare
la sede di Roma. Fin dall’antichità - abbiamo visto Ignazio di Antiochia - Roma viene ritenuta la
Chiesa che ha un primato, in ordine alla comunione. Questo non viene mai messo in discussione dalla tradizione
antica della Chiesa – e neanche da quella recente! I problemi nascono, invece, dalla comprensione di che
cosa questo primato implichi. Ma mai c’è stato dubbio nella Chiesa antica che la Chiesa di Roma è
quella che presiede alla carità, alla comunione di tutte le chiese.
Già nel concilio di Nicea si stabilisce che anche altre sedi episcopali abbiano un ruolo particolare, oltre
alla sede di Roma. Così leggiamo nei canoni VI e VII del Concilio primo di Nicea:
VI. Della precedenza di alcune sedi, dell'impossibilità di essere ordinato vescovo senza il consenso del
metropolita.
In Egitto, nella Libia e nella Pentapoli siano mantenute le antiche consuetudini per cui il vescovo di
Alessandria abbia autorità su tutte queste province; anche al vescovo di Roma infatti è riconosciuta
una simile autorità. Ugualmente ad Antiochia e nelle altre province siano conservati alle chiese gli antichi
privilegi. Inoltre sia chiaro che, se qualcuno è fatto vescovo senza il consenso del metropolita, questo
grande sinodo stabilisce che costui non debba esser vescovo. Qualora poi due o tre, per questioni loro personali,
dissentano dal voto ben meditato e conforme alle norme ecclesiastiche degli altri, prevalga l'opinione della
maggioranza.
VII. Del vescovo di Gerusalemme.
Poiché è invalsa la consuetudine e l'antica tradizione che il vescovo di Gerusalemme riceva
particolare onore, abbia quanto questo onore comporta, salva sempre la dignità propria della
metropoli.
Ne consegue l’ordine di un primato d’onore che, dopo Roma, vede di seguito, prima Alessandria, poi
Antiochia, poi Gerusalemme. Il Concilio di Calcedonia - che si svolse nel 451 dall’altra parte del Bosforo,
dove è il porto turistico che vi ho indicato nel panorama che abbiamo visto dal Palazzo di Topkapı,
nella zona odierna di Kadiköy - fa seguire, dopo Roma e prima delle altre chiese appena nominate, quella di
Costantinopoli.
Costantinopoli, essendo una città fondata solo nel 330, si confrontava con chiese storicamente più
importanti e, soprattutto, di fondazione apostolica, ma divenne il punto di riferimento più importante dopo
Roma, per essere la sede dell’imperatore bizantino. E’ la questione del famoso Canone 28 del
Concilio di Calcedonia, il Canone che asseriva la precedenza di Costantinopoli sulle altre Chiese
d’Oriente in funzione della sua somiglianza con Roma, in quanto, come quest’ultima, sede imperiale.
Il canone 28 non fu accettato da Papa Leone Magno, che lo vide come una innovazione rispetto alla tradizione
antica. Il canone creò anche problemi nelle chiese che non accettarono poi il concilio di Calcedonia, sia
per ragioni dogmatiche, sia per la paura di una eccessiva ingerenza di Costantinopoli a livello politico
(così, ad esempio, la sede di Alessandria d’Egitto). Nei secoli, però, il primato d’onore
di Costantinopoli, secondo a Roma, fu pian piano di fatto accettato. In particolare, presso noi latini, ci furono
le dichiarazioni del Concilio Lateranense IV – ma, a quel tempo, per la presenza crociata, Costantinopoli
era una sede latina e non greca – e del Concilio di Firenze che riconobbe lo stesso ordine di priorità
– ed, a questo momento, la sede del patriarcato era tornata ad essere greca.
Quindi, dopo Calcedonia, abbiamo l’ordine: Roma, Costantinopoli, e poi le altre. E’ evidente
l’importanza enorme nei secoli della sede costantinopolitana, pensate solo al fatto che tutti i primi sette
concili ecumenici si sono svolti o direttamente a Costantinopoli, o subito vicino, come Calcedonia e Nicea, o,
comunque, sempre in Anatolia, come Efeso
Non solo questo. Costantinopoli sarà, insieme a Roma, decisiva in un fatto che avrà conseguenze
grandissime nella storia europea: l’evangelizzazione dei popoli slavi. E’ negli anni 860-862,
infatti, che i fratelli di Salonicco Cirillo e Metodio furono inviati da Costantinopoli, per l’annuncio del
vangelo in Moravia. Probabilmente nell’868 i due portarono a Roma le reliquie di Papa Clemente, che ora
sono custodite nella Basilica di S.Clemente, e ricevettero da Papa Adriano II, l’autorizzazione ad usare lo
slavo nella liturgia. Dopo la morte di Cirillo – fu sepolto proprio nella stessa Basilica di S.Clemente
– nell’873, Papa Giovanni VIII intervenne nuovamente in favore di Metodio, tornato in missione.
Metodio morirà a Velehrad, nell’odierna repubblica ceca, dove sono le sue reliquie. La decisione di
Costantinopoli avvenne sia per un motivo contingente – Costantinopoli temeva una pressione militare dei
popoli slavi verso il Mediterraneo e riteneva necessario intavolare trattative con loro - sia soprattutto
perché questi popoli non conoscevano ancora il vangelo ed il desiderio della Chiesa era che fosse loro
annunziato.
Cominciò così l’evangelizzazione del mondo slavo che rese cristiane le tradizioni della Russia,
della Polonia, delle odierne repubbliche ceche e slovacche, ecc.
Purtroppo, nei secoli, i due mondi, greco e latino, per ragioni storiche contingenti, si persero pian piano di
vista e proseguirono diradando le relazioni, anche per l’oggettiva difficoltà della differenza delle
lingue e della lontananza che, in tempi non pacifici, non facilitava le comunicazioni.
Tre eventi segnarono negativamente la storia che ancora oggi stiamo vivendo. Un primo momento di crisi,
fortunatamente rientrato, avvenne nella seconda metà del IX secolo. Il Papa Nicolò I
dichiarò decaduto il patriarca Fozio e quest’ultimo, nell’867, anatematizzò il
Pontefice. In questa vicenda – come anche negli altri eventi che citeremo – si intrecciano
numerosissime questioni ed oggi si comprende come fosse difficile già allora valutarle appieno. Si
intrecciarono, nella tensione fra Nicolò I e Fozio, la lotta per il patriarcato di Costantinopoli fra le due
figure di Ignazio e di Fozio e, dietro ad essi, fra il monachesimo e l’alto clero cittadino, strascico
della questione iconoclasta, poi la questione della missione di evangelizzazione dei Bulgari, che sia Roma che
Costantinopoli volevano sotto il proprio controllo e che i Bulgari stessi volevano sganciata dagli uni e dagli
altri, ancora la posizione dell’imperatore di Costantinopoli arbitro in Oriente dell’andamento della
vicenda, ancora la discussione fra latini e greci sulle differenze liturgiche ed, infine, la questione del
Filioque che, sebbene non fosse stato ancora ufficialmente adottato da Roma, già si faceva strada in
Occidente. Il tutto condito dalle difficoltà di comunicazione, dai tempi lunghissimi necessari ai delegati
papali per giungere via mare a Costantinopoli, dalle difficoltà linguistiche che comportava ogni volta le
traduzioni dal latino al greco e dal greco al latino delle diverse lettere che Papi, Patriarchi, Sinodi ed
Imperatori si scrivevano. Il fatto che le questioni liturgiche e dogmatiche non fossero predominanti è
dimostrato dal fatto che tutto rientrò, con il passare degli anni e la morte dei rispettivi contendenti. Ma
l’accaduto, scavò un solco fra l’Oriente e l’Occidente.
Nel 1054 avvenne il secondo evento che aggravò la frattura. Nuovamente un nugolo di problemi si
intrecciarono: la questione del pane azzimo nell’eucarestia - la Chiesa cattolica usa per la celebrazione
il pane azzimo come segno pasquale, mentre gli ortodossi usano il pane lievitato ad indicare che è terminato
il tempo dell’Antica Alleanza ed è iniziata la Nuova – la questione politica dei Normanni che
combattevano sì gli arabi che avevano strappato ai bizantini molti territori dell’Italia del Sud, ma
combattevano anche gli stessi bizantini per instaurare un loro regno, con l’avallo del Papato (il quale a
sua volta aveva dovuto difendersi dagli stessi Normanni, prima di stringere poi con loro una alleanza
strategica), il difficile rapporto fra le personalità molto forti del Patriarca Michele Cerulario e del
Legato Pontificio Umberto di Silva Candida, le lotte in seno alla corte bizantina fra il Patriarca,
l’Imperatore ed il comandante dei possedimenti italiani dell’impero bizantino Argiro, fortemente
osteggiato da Cerulario, infine, ancora la questione del Filioque. Il tutto nuovamente complicato dalle già
note difficoltà linguistiche e di spostamento. Basti pensare che quando Umberto di Silva Candida, nel 1054,
depose sull’altare di Santa Sofia la bolla di scomunica nei confronti di Cerulario il Papa Leone IX
era già morto – gli storici non sanno se la delegazione pontificia fosse o no al corrente della cosa.
Subito il Patriarca scomunicò a sua volta i legati del Papa. E’ importante sottolineare che i
protagonisti della vicenda non scomunicarono le rispettive Chiese, ma solo i loro diretti avversari. In effetti,
numerosi segnali lasciano intravedere che nella prassi tutto continuò ancora immutato (vedi i matrimoni fra
cristiani d’Oriente ed Occidente, vedi la communicatio in sacris, cioè la comunione eucaristica, ai
pellegrini che passavano da Costantinopoli alla volta di Gerusalemme, vedi la canonizzazione ad opera di Urbano
II di S.Nicola di Trani, proveniente dalla Grecia centrale, vedi la richiesta, che fra poco considereremo, di
aiuto da parte dell’Imperatore di Bisanzio, di aiuti nella lotta contro i Turchi). Insomma è solo col
tempo che la data del 1054 si rivelò come inizio dell’effettivo scisma dei cristiani d’Oriente
con quelli d’Occidente.
Non possiamo dimenticare il terzo, drammatico momento, che, forse, influì più di tutti gli altri,
sull’incancrenirsi dello scisma: il periodo delle crociate. Pure esse nacquero da una richiesta
dell’Impero bizantino all’Occidente e da un tentativo di aiuto reciproco! Anche qui il discorso
è di una enorme complessità storica, ben diversa dalle banalizzazioni dozzinali che circolano sulla
questione. Credo che pochi conoscano anche solo questo dato elementare: mentre i precedenti episodi di guerra che
avevano riguardato Stati “cristiani” e “musulmani” – ma già questo è
profondamente impreciso – erano lotte contro popolazioni arabe, che avevano pian piano conquistato gran
parte del Mediterraneo (vedi gli eventi bellici in Spagna, o in Sicilia ed in Puglia, o contro gli insediamenti
dei pirati arabi alle foci del Garigliano o a Fraxinetum, l’odierna St-Tropez, ecc. ecc.), le Crociate
nascono dall’avanzata turca nella penisola anatolica.
I Turchi, popolazione convertitasi all’Islam, ma profondamente differente dall’etnia araba,
domineranno per secoli il mondo arabo – fino alla fine della I guerra mondiale. Già dal 1250
l’Egitto è guidato dalla dinastia Mamelucca, di etnia turco-circassa e non più araba, anche se
solo dal 1517 sarà occupato dall’impero ottomano! Questa dominazione sarà causa di un grande
impoverimento culturale del mondo arabo a favore, invece, del mondo turco. Il sultano turco avocò a sé
anche la carica di “califfo” (“successore”, “vicario” di Maometto), cioè
di suprema autorità in campo religioso, e questo venne, di fatto, riconosciuto dal mondo islamico quando,
con le conquiste di Solimano e di Selim I, i turchi, sconfiggendo i Mamelucchi, divennero governanti dei luoghi
santi della penisola araba. Anche la leadership religiosa passò così dagli arabi ai turchi. Fu con la
Turchia laica di Mustafa Kemàl, detto Atatürk, che il califfato fu abolito nel 1924, lasciandone privo
a tutt’oggi il mondo islamico.
Comunque è nel 1071 che i Turchi sconfiggono per la prima volta, severamente, i bizantini, nella
battaglia di Manzikert, non lontano dal lago Van, e cominciano a premere in direzione di Costantinopoli
(Istanbul viene da “eis ten polin”, “verso la città”). Nella battaglia lo stesso
imperatore viene fatto prigioniero. Alcuni anni dopo Costantinopoli chiede aiuto in Occidente. Il Papa risponde
all’appello, ma la chiamata alle armi si orienta piuttosto in direzione della “liberazione”
della Terra Santa. Due ispirazioni di fondo si scontreranno, fin dall’inizio: la priorità, richiesta
da Bisanzio, di un aiuto nel combattimento contro la crescente potenza turca, la priorità della conquista di
Gerusalemme, da parte dei Crociati stessi. Ma, ben presto, ben altri motivi si mescoleranno a questi: molti
rampolli della nobiltà, soprattutto franca, che, non essendo primogeniti, non avevano diritto a particolari
possedimenti terrieri, scelgono la via della crociata, in vista di una loro promozione sociale e, sopratutto, le
due repubbliche marinare di Genova e di Venezia, si coinvolgono nelle crociate per un’espansione
territoriale e commerciale. I tanto disprezzati ordini religiosi militari – Templari, Cavalieri del Santo
Sepolcro, ecc. ecc. – nascono al fine di preservare un identità cristiana ed una regola
“morale” all’interno di una realtà che viene invece tirata da ogni parte per altri fini.
Queste due battute solo al fine di equilibrare i tanti limiti riconosciuti al movimento crociato.
L’amalgama ibrido di tanti fattori porta – torniamo al nostro tema – al terribile esito della
crociata del 1204. In quell’anno i crociati mettono a ferro e fuoco Costantinopoli, creando, per
alcuni decenni, uno Stato latino, al posto di quello bizantino. Come si arrivò a tanto? Come è noto,
furono i veneziani a chiedere questa deviazione della crociata, rifiutandosi di portare gli armati con le navi
veneziane a Gerusalemme, se prima non avessero conquistato prima Zara e, successivamente, Costantinopoli –
i crociati non avevano, infatti, di che pagare a sufficienza gli armatori delle navi e dovettero accondiscendere
alla richiesta veneziana, motivata dall’interesse della Repubblica Marinara ad avere la leadership
commerciale in Oriente. Come sempre i fatti si intrecciavano su diversi piani: con i crociati viaggiava, infatti,
Alessio IV, che aspirava al trono bizantino, essendo figlio dell’imperatore Isacco II Angelos che era stato
deposto dal fratello Alessio III Angelos. All’arrivo dei crociati, Alessio III fuggì. Sembrò, per
un istante, che tutto si risolvesse per il meglio, quando Alessio IV, incoronato co-imperatore, accettò
l’unificazione delle Chiese. Ma una rivolta popolare scoppiò ed un nuovo imperatore usurpatore apparve
all’orizzonte. Allora i crociati saccheggiarono per 3 giorni la città. Il Papa, Innocenzo III, si
indignò alla notizia delle devastazioni e delle uccisioni, ma si rallegrò del fatto che la situazione
portasse ad un governo civile e religioso latino.
Ancora una volta una serie di fattori diversissimi causarono il disastro, ma resta il fatto che gli eventi del
1204 furono un errore storico di grande rilevanza che avrà conseguenze di lungo periodo nella storia
dell’area, indebolendo la forza bizantina dinanzi ai Turchi in costante ascesa, e creando un malessere nei
confronti del cattolicesimo latino che è tutt’oggi difficile da appianare.
Finito l’intermezzo latino, l’impero bizantino riprese il suo corso, ma la minaccia turca si faceva
sempre più vicina. Più e più volte partirono messaggeri a chiedere un aiuto militare in Occidente,
ma, per motivi diversi, non se ne fece mai niente. L’ultimo tentativo avvenne durante il Concilio di
Ferrara-Firenze. Lo stesso imperatore Giovanni VIII, accompagnato dal patriarca Giuseppe e da metropoliti,
vescovi ed abati, si recò negli anni 1438-39 in Italia, per partecipare ai lavori del Concilio di
Ferrara-Firenze, per sottoscrivere l’adesione alla fede cattolica ed ottenere aiuti militari per la
capitale bizantina, ormai in pericolo. L’imperatore ed il patriarca sono raffigurati, nelle vesti dei Re
Magi, nella Cappella privata dei Medici, a Palazzo Medici a Firenze, dipinti da Benozzo Gozzoli. Gruppi crociati
discesero fino in Bulgaria ed in Tracia, in soccorso di Costantinopoli, in Albania Giorgio Castriota (Scanderbeg)
iniziò una sollevazione anti-turca, ma, alla fine l’esercito ottomano riprese il sopravvento. Infine,
nel 1453, si trovarono di fronte l’imperatore Costantino IX ed il sultano Maometto II. Anche 2000
stranieri, fra i quali 700 genovesi parteciparono alla difesa della città. Greci e latini celebrarono
insieme la messa in S.Sofia, prima della battaglia finale. La città cadde e, per 3 giorni, il sultano dette
ai suoi il diritto di saccheggio. Grande fu la strage. E’ da quell’anno, il 1453, che il Patriarcato
Ecumenico non ha più la sua completa libertà.
E’ proprio in quegli anni che la Chiesa di Mosca ottenne l’autocefalia (1448) e crebbe in lei una
consapevolezza di una missione universale che la portò a pensarsi come “terza Roma”: la
“prima” è la Roma cattolica, la “seconda” è Costantinopoli, non più
libera, la terza è appunto Mosca. Poi, nel 1589, Mosca si proclamò Patriarcato.
L’offensiva turca produsse ancora una spinta considerevole per alcuni secoli. Decisive furono alcune grandi
battaglie. Nel 1571, a Lepanto, in uno scontro navale, la sconfitta della flotta turca diede respiro
all’Europa. L’espansione riprese fino ad arrivare, nel 1683, ad assediare Vienna – un primo
assedio si era già verificato nel 1529. Solo l’intervento delle armate polacche, guidato da Sobieski,
salvò la città dalla capitolazione, che avrebbe aperto le porte dell’intera Europa alle armate
turche. Insomma è con l’apogeo del potere turco che si ridimensionò fortemente il ruolo della
cultura bizantina che era stata insieme cuscinetto e cerniera fra l’Europa ed il mondo arabo prima e turco
poi.
Veniamo alla difficilissima situazione attuale, aggravatasi alla caduta dell’Impero Ottomano, quando, in
conseguenza della guerra turco-greca, ci fu un esodo forzato deciso dai due stati nel 1923 ed un
conseguente scambio di popolazioni. Secondo R.Clogg (Storia della Grecia moderna, Bompiani, 1996) lo
scambio riguardò 1.100.000 greci e 380.000 turchi che dovettero abbandonare rispettivamente la Turchia e la
Grecia. Secondo uno studio recente della Fondazione Giovanni Agnelli, la percentuale dei cristiani nei paesi
mediterranei a maggioranza islamica è passata dal 24% del 1914 al 7% del 1996. Oltre a fattori di lenta
emigrazione, questo esodo e la grande persecuzione degli armeni sono due dei grandi fattori che hanno portato
alla diminuzione della presenza cristiana in queste terre.
Quale che sia il giudizio che si da di queste vicende, resta il fatto che pochissimi cristiani restarono ad
Istanbul – ed in tutta la Turchia – al punto che il Patriarcato, secondo solo a Roma, conta ora solo
alcune migliaia di fedeli, in terra turca. Vedete voi stessi la pochezza di questo luogo. Ed è il posto di
onore più importante del mondo ortodosso! Bartolomeo I, che è la figura più importante degli
ortodossi, ha una chiesa più piccola della nostra parrocchia! Ancora non gli è stato permesso –
nonostante ripetute dichiarazioni in tal senso - di aprire una scuola teologica per seminaristi in territorio
turco e, quindi, non esiste una Facoltà teologica che permetta degli studi cristiani qui ad Istanbul. Per
noi che veniamo da legislazioni garantiste è estremamente difficile valutare ciò che succede qui.
Sappiamo, infatti, che, da un lato, la legislazione turca non permette aperture religiose anche al fine di poter
tenere sotto controllo le spinte islamiche integraliste. Uno Stato che eliminasse ogni discriminazione religiosa,
in questo contesto, presterebbe il fianco ad un potenziamento dei gruppi radicali musulmani. Avete sentito come
ci è stato raccontato che, per diventare ufficiali nell’esercito, si verifica che nessun parente
stretto sia mai stato vicino a gruppi troppo religiosi – l’esercito è il vero garante della
laicità dello stato turco. D’altro canto non si usa lo stesso metro per valutare richieste provenienti
da comunità cristiane, rispetto a richieste provenienti dalla religione di maggioranza. La religione di
maggioranza è, così, presentata e conosciuta attraverso i tanti canali che ovviamente l’essere
presenza numericamente preponderante consente, mentre ad un cristiano non è permesso parlare di Gesù,
se non è l’interlocutore a richiederlo. Ogni tentativo di spiegazione del cristianesimo che partisse
da un cristiano sarebbe interpretata come proselitismo e, quindi, formalmente perseguibile. Per fare un esempio
concreto, nessun prete potrebbe organizzare un campo estivo od un GREST, come quelli che noi facciamo nelle
nostre parrocchie, invitando chiunque a venire.
Ma torniamo al nostro tema. Il patriarca di Costantinopoli è il punto di riferimento di tutto il mondo
ortodosso e porta il titolo di “Patriarca Ecumenico”, sebbene nella chiesa ortodossa le chiese siano
autocefale. Ogni chiesa dipende, cioè, esclusivamente dal proprio vescovo ed è indipendente; non
c’è nessuna autorità superiore, se non di onore, ad eccezione del Concilio.
Per capire la difficile situazione del Patriarcato di Costantinopoli, pensate che Alessio II, Patriarca di Mosca,
ha circa 200 milioni di fedeli. E’ evidente che, se Costantinopoli ha teoricamente il primato nel mondo
ortodosso, la sua autorità deve fare continuamente i conti con Mosca, per il peso ben maggiore che la Russia
può mettere sul piatto della bilancia a livello numerico, economico, culturale, proponendosi, anche se non
esplicitamente, come il vero baluardo dell’ortodossia.
Vediamo, ad esempio, una diversità di atteggiamento di Costantinopoli e di Mosca nei confronti di Roma.
Bartolomeo I, pur con delle prese di posizione a volte più dure di altre, è, però, già venuto
a Roma in visita fraterna dal Papa Giovanni Paolo II, mentre il Patriarca di Mosca rifiuta ancora
l’incontro, ritenendolo non maturo. Non solo. Negli incontri fra il Papa ed il Patriarca di Costantinopoli
ci sono stati momenti altamente significativi come la recita comune, nella Basilica di S.Pietro, del Credo
niceno-costantinopolitano, in lingua greca, quindi, senza il Filioque.
La Chiesa della S.Irene che abbiamo davanti è stata costruita prima di S.Sofia che è del periodo di
Giustiniano. Anche S.Irene è stata trasformata prima in moschea, poi in edificio statale, laico, come è
accaduto a S.Sofia che è ora un Museo. All’interno di S.Irene è proibito celebrare qualsiasi
liturgia. S.Irene è dedicata non alla santa di nome Irene, ma alla Divina Pace, alla santa
“pace”, “eirene”, che Dio è, che Dio dona. Per questo non è corretto chiamarla
Chiesa di S.Irene, ma la traduzione appropriata è “della Santa Eirene, della santa pace”. Mi
viene in mente un parallelo che può essere forse appropriato: come Augusto costruì l’Ara Pacis,
l’Altare della Pace, ad indicare che con il suo avvento al potere era terminata un’era di lotte
fratricide, così Costantino – riteniamo che due siano le chiese di fondazione costantiniana a
Costantinopoli, quella dei Santi Apostoli e appunto S.Irene, anche se S.Irene potrebbe essere immediatamente
successiva – volle edificare una Chiesa alla Pace donata da Cristo, attraverso l’opera pacificatrice
dell’imperatore. Da documenti che si sono conservati – come la Storia ecclesiastica di Socrate -
risulta chiaramente che quest’ultima è stata la chiesa del vescovo della città, prima
dell’edificazione di S.Sofia. E’ la chiesa nella quale si è celebrato il primo Concilio di
Costantinopoli, che è il secondo Concilio ecumenico, svoltosi nel 381. Il Concilio fu iniziato
nelle sale del Palazzo Imperiale – che è andato quasi completamente distrutto, è possibile
osservarne alcuni resti nel Museo dei Mosaici e nel Palazzo di Bucoleone, vicino alle mura, a sud della
città, ma non avremo tempo di visitare questi due luoghi – e si svolse poi in questa chiesa.
Le definizioni dogmatiche di questo Concilio sono molto importanti e riguardano vari aspetti che cercheremo di
vedere insieme. Esse confluirono tutte nel Credo che oggi chiamiamo Niceno-Costantinopolitano,
appunto perché scritto in questo Concilio, ma a partire da quello di Nicea, che già abbiamo visto.
Ecco il testo nella sua versione originale:
Crediamo in un solo Dio, Padre onnipotente, creatore del cielo e della terra, di tutte le cose visibili e di
quelle invisibili: e in un solo signore Gesù Cristo, figlio unigenito di Dio, generato dal Padre prima di
tutti i secoli, luce da luce, Dio vero da Dio vero; generato, non creato, della stessa sostanza del Padre, per
mezzo del quale sono state fatte tutte le cose. Per noi uomini e per la nostra salvezza egli discese dal cielo,
prese carne dallo Spirito Santo e da Maria vergine, e divenne uomo. Fu crocifisso per noi sotto Ponzio Pilato, fu
sepolto e risuscitò il terzo giorno secondo le Scritture, salì al cielo, si sedette alla destra del
Padre: verrà nuovamente nella gloria per giudicare i vivi e i morti, e il suo regno non avrà fine.
Crediamo anche nello Spirito Santo, che è Signore e dà vita, che procede dal Padre; che col Padre e col
Figlio deve essere adorato e glorificato, ed ha parlato per mezzo dei Profeti. Crediamo la Chiesa una, santa,
cattolica e apostolica. Crediamo un solo battesimo per la remissione dei peccati e aspettiamo la resurrezione dei
morti, e la vita del secolo futuro. Amen.
Vediamo innanzitutto la divinità dello Spirito Santo. Il Credo di Nicea diceva già tutto, ma lo
diceva in forma estremamente sintetica: “Crediamo allo Spirito Santo”. Non c’era altra aggiunta
o spiegazione. Ecco che alcuni, che la tradizione chiama pneumatomachi (“combattenti contro lo
Spirito”) o macedoniani (Macedonio era stato patriarca a Costantinopoli alcuni decenni prima, ma non
sappiamo cosa pensasse esattamente dello Spirito), affermavano che lo Spirito era inferiore per dignità a
Cristo, poiché non era Dio, ma era solo un ministro o un interprete o un angelo. I Padri riunitisi
rifiutarono questa dottrina come eretica e proclamarono che veramente lo Spirito è Dio, come il Padre e come
il Figlio. Comprendiamo immediatamente alcune espressioni del Credo Niceno-Costantinopolitano proprio in questa
chiave. E’ “Signore”, come lo è il Padre e lo è il Figlio, “dà
la vita”, cioè è creatore e salvatore come il Padre e come il Figlio.
Vorrei, però, sottolinearvi un ulteriore espressione a cui talvolta diamo meno peso: “Con il Padre ed
il Figlio è adorato e conglorificato”. Questa affermazione vuole indicare che tutta la gloria
che è del Padre e del Figlio è giustamente anche dello Spirito. La Trinità riceve insieme lo
stesso onore, la stessa gloria. Ma, se ci spingiamo ancora un passo avanti, comprendiamo che la lode, la
dossologia (il glorificare Dio) è veramente l’unico atteggiamento adatto dinanzi a Dio, perché
Dio è così grande, è così sconfinato nella sua bellezza e nel suo mistero, che non si tratta
tanto di comprenderlo, quanto di lodarlo, di adorarlo, di essere continuamente dinanzi a Lui in atteggiamento di
meraviglia e stupore. Come ha scritto Olivier Clément: “Nella formula sullo Spirito Santo che
"procede dal Padre, è adorato e glorificato con il Padre e il Figlio", si può individuare in primo
luogo un approccio apofatico e dossologico orientato a ciò che vi è di inesauribile nella
persona”. Dire che anche lo Spirito è mistero dinanzi al quale non si può che tacere e cadere in
adorazione; è un modo orante di dire che lo Spirito è Dio.
Altre due questioni affrontate a Costantinopoli voglio presentarvele come due facce simmetriche del mistero
cristiano. Una volta divenuto ancor più chiaro, a Nicea, ciò che i cristiani avevano sempre creduto,
cioè che Gesù Cristo era Dio, si ponevano appunto due problemi ai teologi ed ai pastori: in primo luogo
come in Cristo si uniscono l’umanità e la divinità, come si relazionano, come con-vivono ed, in
secondo luogo, poiché il Cristo è Dio e poiché lo Spirito è Dio, chi è allora il Dio
unico, come parlare dell’unità del Padre e del Figlio e dello Spirito?
Per quel che riguarda la prima questione il Concilio confutò la proposta fatta da Apollinare di
Laodicea. Vedremo come questa questione continuerà in forme diverse fino al III Concilio di
Costantinopoli. In essa, infatti – come d’altronde nell’altra! – possiamo scorgere tutta
l’originalità e la bellezza del cristianesimo. Sarebbe molto più facile tenere distinti
l’uomo e Dio, come in effetti è sempre stato fatto in tutta la storia del pensiero e delle religioni
dell’umanità. Il materialismo ha scelto l’uomo, lo spiritualismo ha scelto Dio, ma sempre in una
logica di opposizione: o l’uno o l’altro, perché l’uno è il nemico dell’altro.
Se privilegio Dio perdo la terra, se scelgo la terra, debbo dimenticare Dio. Le forme più diverse di
mediazione nelle diverse religioni dell’umanità hanno, sì, scelto la via di una qualche
comunicazione fra Dio e l’uomo, ma conservando l’infinito abisso che separa l’uno
dall’altro, abisso incolmabile. Il cristianesimo ha coscienza di questa infinita differenza – vedi
appunto la dossologia della Trinità – ma annuncia che Dio stesso si è abbassato fino a far
abitare in Cristo corporalmente, “la divinità tutta intera” (Col2,9)! A chi critica la fede
cristiana dicendo che non è possibile che Dio si faccia uomo - perché Dio è onnipotente, mentre
l’uomo non lo è - la Chiesa risponde dicendo proprio che è questa affermazione a negare
l’onnipotenza di Dio, decidendo troppo umanamente ciò che è impossibile a Dio, senza credere
nella sconfinata potenza della sua onnipotenza che può anche, solo che lo voglia, abbassarsi all’uomo!
Ecco tutto il cristianesimo: Cristo vero Dio e vero uomo.
Apollinare di Laodicea (non Laodicea che abbiamo visitato, ma Laodicea di Siria) propose allora uno schema che
oggi gli studiosi definiscono come “Logos-sarx”, “Logos-carne”. Come è
possibile in Gesù l’unione della divinità e dell’umanità? Apollinare rispondeva che
non c’era una umanità completa nel Cristo, ma in Lui c’era solo la carne umana, senza
l’anima, senza le facoltà superiori, intellettuali umane. Ciò che è l’anima in ogni
uomo, è il Figlio di Dio in Cristo. Il Figlio di Dio avrebbe così dato vita ad un corpo umano. I padri
di Costantinopoli risposero che questo era inaccettabile. Il mistero cristiano è che Dio ha assunto tutto
l’uomo, un uomo composto non solo di corpo, ma anche di anima e di facoltà superiori. Questo ha,
fra l’altro, delle conseguenze spirituali straordinarie, questo apre la via alla possibilità che
veramente Dio abiti nel cuore dell’uomo, nella sua vita, senza distruggere la sua anima, la sua
intelligenza, la sua vita, ma, piuttosto, riempiendola interamente della presenza divina! Così afferma la
definizione di Costantinopoli primo su questo punto:
Riteniamo anche, intatta, la dottrina dell'incarnazione del Signore; non accettiamo, cioè l'assunzione di
una carne senz'anima, senza intelligenza, imperfetta, ben sapendo che il verbo di Dio, perfetto prima dei secoli,
è divenuto perfetto uomo negli ultimi tempi per la nostra salvezza.
Veniamo all’ultimo, importantissimo, aspetto dogmatico. E’ la problematica simmetrica che già
abbiamo visto: poiché il Figlio di Dio è Dio – e lo è anche lo Spirito - allora come pensare
l’unità e l’unicità di Dio, come evitare il rischio di un triteismo, come può lo
stesso Dio dell’Antico Testamento che è chiaramente uno, essere anche Padre, Figlio e Spirito?
Il Concilio formulò così la fede della Chiesa, esprimendo nuovamente la fede sempre creduta dal
principio, espressa in termini nuovi: “Una sola divinità, potenza, sostanza, in tre ipostasi, in
tre persone”. Così il passaggio integrale della definizione di Costantinopoli:
Questa fede, infatti, deve essere approvata da voi, da noi e da quanti non distorcono il senso della vera fede
essendo essa antichissima e conforme al battesimo; essa ci insegna a credere nel nome del Padre, del Figlio e
dello Spirito Santo, cioè in una sola divinità, potenza, sostanza del Padre, del Figlio e dello Spirito
Santo, in una uguale dignità, e in un potere coeterno, in tre perfettissime ipostasi, cioè in tre
perfette persone, ossia tali, che non abbia luogo in esse né la follia di Sabellio con la confusione delle
persone, con la soppressione delle proprietà personali, né prevalga la bestemmia degli Eunomiani, degli
Ariani, dei Pneumatomachi, per cui, divisa la sostanza, o la natura, o la divinità, si aggiunga
all'increata, consostanziale e coeterna Trinità una natura posteriore, creata, o di diversa
sostanza.
Il Concilio si servì così dell’espressione “ipostasi”, che sarà tradotta
in latino con “persona”. Questo termine era già stato usato da Origene, ad Alessandria,
ma, ai suoi tempi, “ipostasi” rischiava ancora di dare l’idea dell’esistenza di tre
divinità. Fu il lavoro teologico dei tre grandi Padri Cappadoci – Basilio, Gregorio
di Nissa, suo fratello, e Gregorio di Nazianzo che fu studente ad Atene con Basilio e che divenne suo
grandissimo amico – a spianare la strada. Proprio Gregorio di Nissa e Gregorio di Nazianzo parteciparono al
Concilio e, durante il Concilio, il Nazianzieno fu eletto patriarca di Costantinopoli (precedentemente predicava
in città, nella piccola chiesa dell’Anastasis), ma, dopo pochi mesi, si dimise dall’incarico.
Anche l’imperatore Teodosio partecipò ai lavori del Concilio e vi parteciparono altre
importanti figure del tempo come Cirillo di Gerusalemme e Diodoro di Tarso. Possiamo immaginarli tutti qui, in
questo luogo, se torniamo con l’immaginazione indietro nel tempo.
Dunque lo straordinario lavoro intellettuale e spirituale dei Cappadoci fu quello di comprendere e mostrare come
il Padre, il Figlio e lo Spirito siano relazioni d’amore. Se uno solo è Dio, se una sola e
unica è la sostanza divina, perché allora Gesù ci ha rivelato di essere il Figlio del Padre e che
Dio è Padre e Figlio e che lo Spirito li unisce? Perché Dio è amore non solo dal momento in cui
decide di creare il mondo e l’uomo per amore, ma è amore ab aeterno, è continuo dono
d’amore che le tre persone divine si scambiano. Il Padre è Dio ed è Padre in quanto dona tutta la
divinità, senza nulla trattenere, al Figlio ed allo Spirito. Ed il Figlio è tutta la divinità, ma
in quanto ricevuta filialmente nell’amore dal Padre per poterla a sua volta ridonare. E non solo questo: il
Padre ed il Figlio non solo si amano, ma amano insieme e questa è la realtà dello Spirito Santo.
E’ come un balbettio ciò che dico, ma penso che qualcosa possiamo intuire, nella nostra umanità,
del mistero dell’eterno amore trinitario.
Tutto il movimenti di fede e di pensiero che ha portato a questo Concilio è all’origine delle
successive riflessioni sul concetto di “persona” in prospettiva antropologica. L’uomo è
“persona” perché esiste per la relazione, esiste per l’amore. Ciò che ci rende
persone, non è il chiuderci, ma, all’opposto è la relazione dalla quale riceviamo il nostro nome
e nella quale ci doniamo agli altri. Vi ho preparato la fotocopia di una bellissima meditazione di
J.Ratzinger (dal suo volume Introduzione al cristianesimo), poi diventato cardinale, che ci introduce
proprio a questo. Potete leggerla poi con calma. E se nell’esperienza umana, al fine di essere noi stessi,
noi tendiamo ad incontrare l’altro e ad amarlo, desiderando di diventare uno con lui, in Dio questo è
pienezza di realtà. In Lui veramente l’amore è differenza e insieme unità nell’amore.
Il Padre non sarebbe Padre senza il Figlio. Ed il Padre è stato sempre Padre, non lo è divenuto con la
creazione del primo uomo. Ed il Padre ed il Figlio sono due persone e lo sono sempre state ma, come dice
Gesù, “Io e il Padre siamo uno, una sola cosa”.
Pensate alla rivelazione del mistero. Noi crediamo non solo che Dio ci rivela cosa vuole da noi – questo
è ammesso da molte religioni. Il cuore della rivelazione cristiana non sta nel fatto che Dio ci dice la sua
volontà, ma nel fatto che realmente, per quanto a noi è possibile, Dio si fa conoscere nella sua
identità. E’ questo lo scandalo del cristianesimo: Dio si fa conoscere in sé stesso!
Vi leggo a questo proposito un brano di uno dei più grandi studiosi contemporanei dell’Islam, un padre
bianco del PISAI, p.Maurice Borrmans (questo breve testo è tratto dall’articolo Ragione e fede nei
pensatori arabi musulmani, in La filosofia e l’Islam, a cura di Gregorio Piaia, Gregoriana Libreria
Editrice, 1996, p.56-57), che ci aiuta a focalizzare la peculiarità del cristianesimo:
Ci si accorge che nell’Islam Allah non propone nel Corano una autorivelazione di se stesso (che
sfuggirebbe alla ragione) ma una rivelazione della sua volontà sull’uomo, e cioè come
l’uomo lo debba nominare ed adorare e come l’uomo debba trattare se stesso e gli altri uomini per
realizzare perfettamente la volontà di Dio. Questa rivelazione (che non sembra sovrannaturale nel suo
contenuto) corrisponderebbe, tutto sommato, all’insieme delle verità che il filosofo raggiunge con la
sua ragione e con grande fatica e che il profeta riceve e trasmette tramite la rivelazione e senza fatica. Il
“rivelato” rimane estrinseco al “rivelatore”, e questo spiega forse perché fede e
ragione sembrano spesso gemellate. Come confessa, nella sua autobiografia, Mons. Mulla Zadé (1881-1959),
convertitosi a Gesù Cristo dall’Islam turco della sua infanzia: “Dal monoteismo unipersonale
dell’Islam, dal suo Dio storico ma solitario, si scende facilmente ed inevitabilmente a un
“deismo” multiforme, razionalista o idealista o monista o agnostico, con un Dio lontano e
indifferente, oppure immanente e diffuso... L’evoluzione della teologia, della filosofia e della mistica
musulmana è la prova di questa legge di degradazione e di entropia crescente”. A lui parve che il Dio
dell’Islam fosse un Dio che, dopo aver rivelato la Sua unicità trascendente (ma ci vuole davvero una
rivelazione per questo?), sembra non avere una vita intima da comunicare. Sarebbe dunque opportuno, in un
dibattito approfondito sulle religioni “rivelate”, sviluppare studi comparatistici per quanto
riguarda la “rivelazione” stessa..
Ma proprio da questa autorivelazione divina, scaturisce la vera identità dell’uomo. Alla eterna
domanda in cosa consista l’essere dell’uomo “ad immagine di Dio” (domanda intorno
alla quale tanti pensatori si sono affaticati, indicando ora la ragione, ora la libertà, ora
l’efficacia storica come l’elemento che accomuna essenzialmente Dio e l’uomo) il cristianesimo
risponde: è nell’essere relazione, è nell’esigenza ineludibile d’amore, di essere
dono e di vivere del dono ricevuto. L’uomo è esigenza d’amore, perché ad immagine del Dio
che è amore e relazione è stato pensato e creato. E all’uomo è necessaria la fecondità,
perché all’uomo non basta amare ed essere riamato! L’uomo cerca l’amore di un altro essere
con il quale dare ancora la vita ad altri (pensiamo solo al legame essenziale che esiste fra l’amore
dell’uomo e della sua donna ed il desiderio di fecondità, di attesa per i figli che nasceranno). Come
il Padre ed il Figlio non solo si amano, ma amando pure l’uno insieme all’altro, spirano lo Spirito.
Solo in chiave evocativa vi cito una famosa frase di Saint-Exupéry che, cercando di comprendere
l’essenziale dell’amore umano, scriveva in Terra degli uomini: “Amare non è guardarsi
negli occhi l’un l’altro, ma guardare insieme nella stessa direzione”. Senza fecondità,
senza un terzo che è amato, senza amore per la vita, non si da vero amore fra due persone!
Vi dicevo che in S.Irene non è possibile celebrare oggi. Dopo la conquista turca la chiesa divenne arsenale
dei giannizzeri, fino al 1874. Fu poi trasformata in museo militare e solo nel 1946 riportata alle sue linee
originarie. Le sue fondazioni poggiano su due antichi templi dedicati ad Apollo ed Afrodite. All’interno
è possibile vedere, nell’abside, un mosaico del periodo iconoclasta, una semplice croce su di un podio
a tre gradini.
Ecco di seguito il testo di Ratzinger:
Le ‘tre persone’ sussistenti in Dio, costituiscono la realtà della parola e dell’amore
nella loro mutua circuminsessione. Non sono sostanze, personalità intese nel senso moderno, bensì una
correlazione, la cui pura attualità (‘pacchetto d’onde!’) non distrugge l’unità
dell’Essere supremo, ma ce la spiega.
S.Agostino ha trasfuso questo pensiero nella seguente formula: “Egli viene chiamato Padre non in
relazione a sé, ma solo in relazione al Figlio; considerato in se stesso, egli è semplicemente
Dio”. Qui sì che vien bene in luce il fatto decisivo. ‘Padre’ è un puro concetto di
relazione. Solo nella sua contrapposizione all’Altro, egli è Padre; nel suo essere in sé, egli
è semplicemente Dio. La persona, dice puramente un rapporto di correlazione, non altro. In lui però, la
correlazione non è qualcosa che venga ad aggiungersi alla persona, come avviene in noi, ove essa sussiste
solo in linea di possibilità di rapporto.
Espresso con le immagini classiche della tradizione cristiana, ciò significa questo: la prima persona non
genera il Figlio come se alla persona finita venisse ad aggiungersi l’atto del generare, ma è invece
il fatto stesso del generare, dell’abbandonarsi, del fluire. Essa si identifica con l’atto di
abbandono. Solo in quanto atto siffatto è persona; per cui non è l’essere che si dona, bensì
l’atto stesso di donazione; è ‘onda’, non ‘corpuscolo’... Con quest’idea
di correlazione esprimentesi nella parola e nell’amore, indipendente dal concetto di ‘sostanza’
e non catalogabile fra gli ‘accidenti’, il pensiero cristiano ha trovato il nucleo centrale del
concetto di ‘persona’, che dice qualcosa di ben diverso e infinitamente più alto della semplice
idea di ‘individuo’. Ascoltiamo ancora una volta s.Agostino: “In Dio non si danno accidenti, ma
solo... sostanza e relazione”. In questa semplice ammissione, si cela un’autentica rivoluzione del
quadro del mondo: la supremazia assoluta del pensiero accentrato sulla sostanza viene scardinata, in quanto la
relazione viene scoperta come modalità primitiva ed equipollente del reale. Si rende così possibile il
superamento di ciò che noi chiamiamo oggi ‘pensiero oggettivante’, e si affaccia alla ribalta un
nuovo piano dell’essere. Con ogni probabilità bisognerà anche dire che il compito derivante al
pensiero filosofico da queste circostanze di fatto è ancora ben lungi dall’esser stato eseguito,
quantunque il pensiero moderno dipenda dalle prospettive qui aperte, senza le quali non sarebbe nemmeno
immaginabile.
Nel vangelo di Giovanni, Cristo dice di sé: “Il Figlio non può far nulla da sé”
(Gv. 5,19-30). Ciò sembra denotare la destituzione da ogni potere cui soggiace il Figlio, egli non ha nulla
di proprio, ma è tuttavia presente come Figlio, per cui può agire unicamente attingendo a colui dal
quale trae l’essere. Balza quindi subito agli occhi come il concetto di ‘figlio’ sia
un’idea di relazione. Chiamandolo ‘Figlio’, Giovanni designa il Signore in una maniera che
addita perennemente un principio che sta fuori e sopra di lui; impiega quindi un’espressione che
sottintende essenzialmente una correlazione. Viene così a collocare l’intera sua cristologia nel
contesto dell’idea di relazione. Formule come quella da noi testé citata non fanno che sottolinearlo;
si limitano soltanto quasi a dedurre in modo esplicito ciò che sta racchiuso nel termine
‘figlio’; la relatività che esso implica. Apparentemente, questo sta in contraddizione con
quanto lo stesso Cristo dice poi di se stesso, sempre ancora in Giovanni: “Io e il Padre siamo una cosa
sola” (Gv. 10,30). Chi però osserva le due affermazioni a distanza ravvicinata, potrà subito
rilevare come esse in realtà si richiamino e si postulino a vicenda. Mentre Gesù vien chiamato Figlio,
e quindi collocato in posizione ‘relativa’ col Padre, mentre si sviluppa la cristologia sotto forma
di dottrina impostata sulla relazione, fluisce automaticamente la totale riconnessione di Cristo al Padre. E
proprio perché egli non sta a sé; sta invece in lui, formando così una perenne unità con
lui...
Quale importanza rivesta tutto ciò, oltre che per la cristologia, anche per lumeggiare il significato e
l’idea dell’esistenza cristiana in genere, viene chiaramente in luce quando Giovanni estende questo
pensiero ai cristiani, ossia a coloro che discendono da Cristo. Qui risulta evidente come egli spieghi con la
cristologia la posizione tipica del cristiano. A questo proposito, c’imbattiamo nello stesso intrecciarsi
delle due serie di asserti che abbiamo notato prima. Parallelamente alla formula “Il Figlio non può
far nulla da sé”, che spiega la cristologia come dottrina della relatività partendo dal concetto
di ‘figlio’, si dice parlando degli adepti di Cristo, dei suoi discepoli: “Senza di me non
potete far nulla” (Gv. 15,5). In tal modo, l’esistenza cristiana vissuta assieme a Cristo vien
incasellata nella categoria della relazione. E parallelamente alla conseguenza che porta Cristo a dire “Io
e il Padre siamo una cosa sola”, sgorga dalle sue labbra la preghiera: “affinché siano una cosa
sola, come noi siamo una cosa sola” (Gv. 17,11-22). La rilevante differenza che stacca quest’ultima
impostazione dalla cristologia, vien messa a fuoco dal fatto che l’unione dei cristiani fra loro non viene
espressa all’indicativo come un’affermazione tassativa, ma in forma ottativa di preghiera. Vediamo
ora di analizzare brevissimamente il tracciato sciorinatoci sotto gli occhi, esaminandolo nei suoi importanti
riflessi. Il Figlio in quanto tale non sussiste affatto isolatamente, per conto suo, ma è invece una cosa
sola col Padre; siccome non sussiste affatto accanto a lui, non rivendicando nulla di proprio perché sarebbe
soltanto lui, non contrapponendo al Padre nulla di esclusivamente suo, non riservandosi alcuno spazio a titolo di
pura proprietà sua, egli è ovviamente uguale e identico al Padre. La logica è stringente: se nulla
c’è per cui egli sussista meramente a sé, se nella sua esistenza non si dà alcuna vita
privata a parte, egli coincide ovviamente con lui, formando “una cosa sola”. Ora, è appunto
questa totalitaria fusione tra i due Esseri, che intende esprimere la parola ‘figlio’. Per Giovanni,
il termine ‘figlio’ denota un ‘essere-in-derivazione dall’altro’; con tale
vocabolo, egli definisce quindi l’essere di questo Uomo come un derivare dall’Altro ed essere
polarizzato su di lui, come un essere completamente aperto da entrambi i lati che non conosce alcuno spazio
chiuso, riservato al solo ‘io’. Se in tal modo appare chiaro che l’essere di Gesù in
quanto Cristo è un essere totalmente aperto, un essere ‘derivante’ e
‘protendentesi’, che non poggia mai su se stesso né sussiste mai per conto suo, è al
contempo tanto ovvio che tale essere è pura relazione (non sostanzialità), ed essendo pura relazione
è anche pura unità. Ora, ciò che per principio si dice di Cristo, assurge simultaneamente –
come già abbiamo visto – ad interpretazione dell’esistenza cristiana. Per Giovanni evangelista,
esser cristiani vuol dire essere come il Figlio, diventar figli, e quindi non sussistere in sé e per
sé, ma vivere invece in posizione completamente aperta, in ‘derivazione’ e in
‘protensione’. Per il seguace di Cristo, in quanto ‘cristiano’, ciò mantiene tutto
il suo valore. E di fronte a tali asserzioni d’altissima portata, egli avvertirà chiaramente quanto
poco sia davvero cristiano.
Questo quartiere che porta oggi il nome di Kadiköy, è l’antica Calcedonia. Il nome è di
origine fenicia e vuol dire “nuova città”, Karkhi Don. Il nome odierno, Kadiköy, è
invece parola turca che significa “villaggio del giudice”, perché Maometto II, conquistatore di
Costantinopoli, la diede al primo cadı o giudice di Istanbul. Sappiamo che il Concilio di Calcedonia
si svolse, nel 451, nella importantissima Chiesa di S.Eufemia, vergine e martire della persecuzione
di Diocleziano, morta nel 303. La Chiesa che era una Chiesa martiriale e che conservava il corpo della santa,
venne distrutta negli anni che seguirono l’arrivo dei Turchi e, a tutt’oggi, se ne ignora la precisa
localizzazione. Il corpo della santa riposa ora nella Chiesa del Patriarcato Ecumenico al Fener.
Come sempre, ci interessa soprattutto conoscere i testi, subito dopo averli ambientati geograficamente.
Leggiamo un brano della Dichiarazione di Calcedonia:
Questo santo, grande e universale Sinodo, riunito per grazia di Dio e per volontà dei piissimi e
cristianissimi imperatori nostri, gli augusti Valentiniano e Marciano, nella metropoli di Calcedonia in Bitinia,
nel tempio della santa vincitrice e martire Eufemia, definisce quanto segue...
[Questo concilio], infatti, si oppone a coloro che tentano di separare in due figli il mistero della divina
economia; espelle dal sacro consesso quelli che osano dichiarare passibile la divinità dell'Unigenito;
resiste a coloro che pensano ad una mescolanza o confusione delle due nature di Cristo; e scaccia quelli che
affermano, da pazzi, essere stata o celeste, o di qualche altra sostanza, quella forma umana di servo che Egli
assunse da noi; e scomunica, infine, coloro che favoleggiano di due nature del Signore prima dell'unione, ma ne
concepiscono una sola dopo l'unione.
Seguendo, quindi, i santi Padri, all'unanimità noi insegniamo a confessare un solo e medesimo Figlio: il
Signore nostro Gesù Cristo, perfetto nella sua divinità e perfetto nella sua umanità, vero Dio e
vero uomo, [composto] di anima razionale e del corpo, consostanziale al Padre per la divinità, e
consostanziale a noi per l'umanità, simile in tutto a noi, fuorché nel peccato, generato dal Padre
prima dei secoli secondo la divinità, e in questi ultimi tempi per noi e per la nostra salvezza da Maria
vergine e madre di Dio, secondo l'umanità, uno e medesimo Cristo signore unigenito; da riconoscersi in due
nature, senza confusione, immutabili, indivise, inseparabili, non essendo venuta meno la differenza delle nature
a causa della loro unione, ma essendo stata, anzi, salvaguardata la proprietà di ciascuna natura, e
concorrendo a formare una sola persona e ipostasi; Egli non è diviso o separato in due persone, ma è un
unico e medesimo Figlio, unigenito, Dio, Verbo e Signore Gesù Cristo, come prima i profeti e poi lo stesso
Gesù Cristo ci hanno insegnato di lui, e come ci ha trasmesso il simbolo dei padri.
Quali tensioni e discussioni avevano preceduto il concilio? Solo a prima vista le questioni teologiche sembrano a
noi lontanissime. Sono, invece, di una importanza enorme e determinano tutta la nostra spiritualità e la
nostra visione cristiana, come cercherò ancora di mostrarvi. Torniamo indietro nel tempo: il concilio di
Nicea aveva confermato tutti i cristiani nella fede che Gesù è veramente Dio ed il primo Concilio di
Costantinopoli, come abbiamo già visto, aveva affermato che era corretto e necessario chiamare il Figlio
“persona”, come il Padre e come lo Spirito: nell’unità di Dio, la Trinità delle
persone, la loro comunione di amore. Si andava, però, ponendo un altro problema: poiché il Cristo
è Dio, come è unita la sua divinità alla sua umanità? Il Figlio di Dio è persona ed
è natura divina – e questo da sempre, ab aeterno – ma come può, allora, assumere una natura
umana?
Alcuni teologi del tempo usavano una terminologia che correva il rischio di dare l’idea che divinità
ed umanità, in Cristo, fossero così irriducibili l’una all’altra da esserci, di fatto, solo
giustapposizione. Dalle loro parole traspariva quasi come se, nel Figlio di Dio incarnato, ci fossero due persone
distinte, che si muovevano in simultanea! E’ proprio per questo che, prima del concilio di Efeso,
Nestorio aveva detto: Maria non può essere detta la Madre di Dio, ma solo la Madre di Gesù
– e così facendo aveva come diviso in due Gesù. Il Concilio aveva risposto che, proprio per
l’unità del Figlio Incarnato, se Maria era la madre di Gesù, poteva benissimo essere detta
– e doveva essere detta – Madre di Dio. Cercate di intuire come, dietro queste affermazioni, si
chiarifica proprio la straordinaria novità della fede cristiana. Prima – e al di fuori – del
cristianesimo non è data reale comunicazione e comunione fra Dio e l’uomo. Se si afferma l’uno,
si perde l’altro, e viceversa. La straordinaria bellezza del cristianesimo sta proprio
nell’affermazione che tutta la divinità abita corporalmente in Cristo! Se Efeso aveva escluso la
possibilità di una incomunicabilità fra divinità ed umanità in Cristo, un’altra
possibilità era stata avanzata: il Figlio di Dio si fa uomo ma, una volta avvenuta l’incarnazione,
l’umanità di Cristo non è più piena umanità, ma è qualcosa di diverso, perché
l’umanità non è degna di Dio.
Se era stata rifiutata la cristologia di Apollinare di Laodicea che affermava che in Cristo non c’era la
parte umana spirituale, ma solo il corpo, come abbiamo già visto parlando del Costantinopolitano I, negli
anni che precedettero il concilio di Calcedonia Eutiche, un monaco costantinopolitano, cominciò ad
affermare – siamo nel 448 - che in Gesù, dopo l’Incarnazione, c’era una sola natura
(da qui il termine che contraddistingue la sua dottrina: “monofisismo”, da
“monos”, “una” e “fusis”, “natura”), quella divina. La
divinità, unendosi all’umanità, la modificava, la modificava al punto che non era più vera
umanità, ma solo divinità. Gli storici tendono a dire che Eutiche era, forse, più
“ignorante” che eretico – non era un vero teologo ed usava i termini teologici in maniera
grossolana. Certo è, però, che, volendo tenersi lontano dalle posizioni di Nestorio condannate ad
Efeso, volendo cioè giustamente difendere l’unità di Gesù, lo faceva sacrificando la
vera, piena e totale umanità del Cristo. Le sue posizioni non del tutto chiare si avvicinavano sia a
quelle di Apollinare, sia a quelle dello gnostico Valentino che aveva affermato che, non potendo esserci vera
comunione fra Dio e uomo, l’umanità di Cristo era solo “apparenza” (questa dottrina era
indicata con il nome di docetismo, da “dokein”, “apparire”). Il Figlio di Dio
appare in terra come uomo, sembra uomo, ma in realtà è solamente Dio e mantiene una distanza
infinità dall’umanità, non essendo possibile nell’umanità una reale presenza di Dio.
Eutiche – questa era la sua terminologia – non riconosceva in Cristo due nature, quella divina e
quella umana, ma difese la tesi secondo le quali Cristo non era “della stessa sostanza
dell’uomo”, perché una volta avvenuta l’Incarnazione delle due nature prima
dell’unione ne era risultata una sola, quella divina.
Calcedonia risponde che ciò che non è possibile per l’opera dell’uomo è, invece,
possibile e reale nell’opera divina dell’Incarnazione. Veramente Cristo è “della stessa
natura dell’uomo”, pur essendo insieme “della stessa natura di Dio”! “Il Signore
Gesù Cristo è perfetto nella sua divinità e perfetto nella sua umanità, vero Dio e vero
uomo”. La sua persona è divina – qui il Concilio riprende il termine di
“ipostasis”, “persona” dal primo Concilio di Costantinopoli – ma questa persona
divina sussistente si esprime perfettamente nella natura divina e nella natura umana, oramai non più
dissolubili e scindibili.
I cristiani di alcune regioni dell’Impero – in particolare i Copti, cioè i cristiani
dell’Egitto, gli Armeni, i Siri, gli Assiri - si separarono dalla comunione ecclesiale e non accettarono le
dichiarazioni del concilio. Furono per questo chiamati, per secoli, monofisiti o non-calcedonesi.
Non possiamo, però, non richiamare qui due fatti decisivi per valutare bene ciò che allora successe.
Innanzitutto il fatto che molto pesò allora, nel loro rifiuto, il desiderio di una autonomia dalla crescente
importanza del patriarcato costantinopolitano e dalla sede imperiale a cui esso era legato. Fra l’altro
questa scissione si rivelò poi rovinosa quando, all’epoca dell’invasione araba, nel VII secolo,
i cristiani di queste chiese non formarono un fronte unico con Bisanzio, ma, senza comprendere pienamente
ciò che stava accadendo e le conseguenze che nei secoli sarebbero seguite sul piano della libertà
dell’evangelizzazione, accolsero senza resistenza i conquistatori provenienti dalla penisola arabica.
Il secondo evento che getta una nuova luce sul passato è la presente stagione ecumenica. Tutti i patriarcati
di queste chiese (Copte, Sire, Assire, Etiopi, Armene) hanno sottoscritto delle dichiarazioni cristologiche
unitamente ai Papi Paolo VI prima e Giovanni Paolo II poi nelle quali si afferma congiuntamente che la
fede in Cristo, vero Dio e vero uomo, è assolutamente identica per tutti. Da questo punto di
vista, allora, lo scisma con queste Chiese appare veramente superato e non appare più opportuno usare il
termine “monofisita” per indicare la loro fede che è, invece, pienamente cattolica. Potete
leggere, per approfondire questo, tutti i testi di queste dichiarazioni sul nostro sito www.gliscritti.it alla sezione La Bibbia ed i documenti della
Chiesa. Come per la Chiesa ortodossa, il principale ostacolo alla piena unità resta la questione del
Papato.
Interessanti sono poi i canoni disciplinari del Concilio. Abbiamo già parlato al Patriarcato del Fener, del
famoso Canone 28, che parla del ruolo della Sede di Costantinopoli, con tutte le conseguenze che ne seguiranno.
Vorrei leggervi ora, invece, rapidamente, alcuni canoni che parlano del clero. Evidentemente cominciavano
ad esserci preti che giravano da una parte all’altra – e già Nicea si era posto questo problema
- senza avere un incarico preciso, senza una obbedienza chiara ad un vescovo, senza una reale appartenenza ad una
Diocesi o ad un monastero. Il Concilio nega le ordinazioni dette “assolute”, cioè sciolte
da legami ecclesiali. Non è solo una questione giuridica, è la riaffermazione che la vita cristiana si
vive nella comunione. E come la vita familiare vive della comunione dell’uomo e della donna, così la
vita sacerdotale e religiosa vive dell’obbedienza al vescovo od all’abate e della comunione con i
confratelli nel ministero.
Leggiamo alcuni canoni:
V.
Un chierico non deve passare da una chiesa ad un'altra.
Quanto ai vescovi e chierici che passano da una città ad un'altra, si è deciso che conservino tutto
il loro vigore quei canoni che sono stati stabiliti dai santi padri su questo argomento.
VI.
Nessun chierico deve essere ordinato assolutamente.
Nessuno dev'essere ordinato sacerdote, o diacono, o costituito in qualsiasi funzione ecclesiastica, in modo
assoluto. Chi viene ordinato, invece, dev'essere assegnato ad una chiesa della città o del paese, o alla
cappella di un martire, o a un monastero. Il santo Sinodo comanda che una ordinazione assoluta sia nulla, e che
l'ordinato non possa esercitare in alcun luogo a vergogna dì chi l'ha ordinato.
X.
Non è lecito ad un chierico servire in due chiese di due diverse città.
Non è lecito che un chierico presti il suo servizio nello stesso tempo in due città, in quella,
cioè, nella quale fu ordinato, e in quella, nella quale fuggì, credendola migliore, per desiderio di
vana gloria. Quelli che facessero così, devono essere richiamati alla propria chiesa, nella quale da
principio furono ordinati, ed ivi prestare il loro servizio liturgico. Se, però, qualcuno, si fosse già
trasferito da una chiesa ad un'altra, non interferisca in nessun modo negli affari dell'altra chiesa, né nei
santuari, negli ospizi per i poveri, nelle case per forestieri che sono sotto di essa. Chi osasse, dopo questa
disposizione di questo grande e universale concilio, fare alcunché di quanto è stato proibito, questo
santo sinodo stabilisce che decada dal proprio grado.
XIII.
I chierici non possono esercitare il servizio liturgico in altre città senza lettere
commendatizie.
I chierici e i lettori forestieri non devono assolutamente compiere un servizio liturgico in un'altra
città senza le lettere commendatizie del proprio vescovo.
Eccoci dinanzi all’edificio più bello di İstanbul, la chiesa della Santa Sofia. Innanzitutto una
breve spiegazione, che a me pare importantissima, del nome stesso. Come per la Chiesa della Santa Irene, della
Santa Pace – e non di Santa Irene! – così qui la corretta traduzione è: Chiesa della
Divina Sapienza, della Santa Sofia. E non di Santa Sofia! La Santa Sofia, la Santa Sapienza divina è il
Verbo, il Logos incarnato, è Gesù! Santa Sofia è una Chiesa dedicata a Gesù in quanto
Sapienza di Dio. Nella sua Storia ecclesiastica Socrate scrive che la Grande Chiesa di Costantinopoli è
dedicata a Cristo chiamato, “sulla scorta di Salomone, Sapienza di Dio”. Ecco la lettura
cristiana dell’Antico Testamento e l’unità delle Scritture che ci appare e ci rivela
l’unità del progetto divino! Quando Salomone – a lui la tradizione attribuisce i più
tardivi libri sapienziali della Bibbia – ci parla dell’esistenza della “sapienza”, di
“Colei che giocava con Dio prima della creazione del mondo”, di “Colei che deve essere amata e
cercata al di sopra di ogni bene terreno e della stessa salute e bellezza”, il grande re sapiente
profetizza ed annuncia la realtà del Figlio di Dio da sempre presente accanto al Padre, volendo pre-figurare
Colui “per mezzo del quale tutto ciò che esiste è stato fatto”.
Anche se talvolta troviamo l’attribuzione della fondazione di questa chiesa allo stesso Costantino, dagli
studi recenti appare chiaramente che la chiesa fu voluta e poi consacrata nel 360 da suo figlio
Costanzo II. Quasi nulla sappiamo della sua architettura originaria. Sappiamo però che la Chiesa fu
data alle fiamme e distrutta nel 404, quando una rivolta popolare fu scatenata dagli ambienti di corte
contro il patriarca S.Giovanni Crisostomo che, invece, era amatissimo dal popolo. Giovanni – che
sarà poi detto Crisostomo, cioè “bocca d’oro”, per la bellezza della sua predicazione
– arrivò a Bisanzio da Antiochia, dove era vescovo, alla morte del patriarca di Costantinopoli,
convocato dalla Corte imperiale senza che gli fosse comunicato il motivo: era stato designato per essere
patriarca. Giunto alle porte della capitale, ebbe la comunicazione della decisione ed era troppo tardi per
tornare indietro. Fu consacrato vescovo nel 398. La sua predicazione, però, che censurava i costumi della
Corte stessa, del clero, dei monaci, provocò amori ed odi crescenti, fino al punto che cadde in disgrazia
presso la stessa imperatrice Eudossia, le Dame di Corte e parte degli ambienti monastici e clericali. Venne
deposto e poi riammesso, ma, nella notte di Pasqua del 404, la folla, spinta segretamente dai suoi nemici, invase
le Chiese e le profanò – e, appunto, venne data alla fiamme la Chiesa della Santa Sofia.
L’imperatore decise allora l’esilio del Crisostomo. L’esilio durerà tre anni e Giovanni
sarà spinto sempre più lontano da Costantinopoli, prima a Cucusa, in Armenia, poi a Pityus sul Mar
Nero, poi verso Comana, nella Colchide – e durante quest’ultimo viaggio morirà, stremato dalla
fatica. Gli saranno di conforto solo le lettere che scambierà con gli amici: ci sono rimaste le lettere ad
Olimpiade, “diaconessa” di Costantinopoli, che aveva parteggiato per lui, la Lettera
dall’esilio e la Lettera sulla Provvidenza divina.
L’imperatore Teodosio ricostruì allora Santa Sofia, ma anche questa seconda costruzione fu distrutta
nella rivolta detta di Nike, scoppiata nel 532, nel quinto anno dell’imperatore Giustiniano. Alcuni
resti di questa costruzione sono tuttora visibili, dinanzi all’attuale ingresso alla Chiesa, dove ora ci
troviamo. Potete vedere la trabeazione del portico di questa seconda Santa Sofia, con i bassorilievi dei 12
apostoli, rappresentati da altrettante pecorelle – e simbolo della Chiesa intera.
L’attuale S.Sofia è allora la terza costruzione, che Giustiniano fece erigere sulle precedenti, ma,
questa volta, con un impianto architettonico unico al mondo: una navata sulla quale insiste la cupola. Come ci
hanno già spiegato, la costruzione è talmente ardita che più volte fu necessario porre mano alla
cupola per i crolli successivi di parte di essa. Ma è veramente una meraviglia.
Proprio sotto Giustiniano, in una sala annessa alla Chiesa della Santa Sofia, si celebrò il V concilio
ecumenico, detto secondo concilio ecumenico di Costantinopoli, nel 553. Il Concilio nacque dal desidero di
fare un passo di conciliazione verso i monofisiti, che si erano separati con Calcedonia, condannando le dottrine
di tre autori già morti, Teodoro di Mopsuestia, Teodoreto di Ciro e Iba di Edessa – appartenevano
tutti alla cosiddetta “scuola di Antiochia” – che erano ritenuti gli ispiratori delle posizioni
eretiche di Nestorio, contro le quali si era levato Eutiche, condannato a sua volta. Le posizioni da rifiutare,
essendo legate a tre autori, vennero chiamate allora i “Tre Capitoli”. Papa Vigilio fu
fatto venire da Roma e, dopo lunghe esitazioni, firmò anch’egli la condanna dei Tre Capitoli. Le
Dichiarazioni conciliari insistettero ancor più di Calcedonia, sull’unità dell’unica
persona di Cristo, pur nelle sue due nature: e, nuovamente, nel dogma cristiano è veramente espressa la
meraviglia della fede. E’ l’unica persona divina, è l’unico Figlio di Dio, che, nella
carne umana, ha sofferto la croce. Non c’è un secondo soggetto, una seconda persona che avrebbe
sofferto nell’umanità, lasciando fuori la persona stessa del Figlio o sostituendosi ad essa nel
momento della passione! “Unus de Trinitate passus”, è la formula di Costantinopoli II. Si
vuole evitare ogni rischio che si pensi a due persone in Gesù: c’è un’unica persona in due
nature. La natura umana di Cristo non è un’altra persona che sta a fianco della persona divina, ma
c’è un’unica persona in Cristo. Meglio: Cristo è un’unica persona. Questa è la
fede cristiana. Leggiamo allora alcune delle definizioni del Concilio:
III. Se qualcuno afferma che il Verbo di Dio che opera miracoli non è lo stesso Cristo che ha sofferto, o
anche che il Dio Verbo si è unito col Cristo nato dalla donna, o che egli è in lui come uno in un
altro; e non confessa invece, un solo e medesimo signore nostro Gesù Cristo, Verbo di Dio, che si è
incarnato e fatto uomo, al quale appartengono sia le meraviglie che le sofferenze che volontariamente ha
sopportato nella sua carne, costui sia anatema.
IV. Se qualcuno dice che l'unione del Verbo di Dio con l'uomo è avvenuta solo nell'ordine della grazia, o
in quello dell'operazione, o in quello dell'uguaglianza di onore, o nell'ordine dell'autorità, o della
relazione, o dell'affetto, o della virtù; o anche secondo il beneplacito, quasi che il Verbo di Dio si sia
compiaciuto dell'uomo, perché lo aveva ben giudicato, come asserisce il pazzo Teodoro; ovvero secondo
l'omonimia per cui i Nestoriani, chiamando il Dio Verbo col nome di Gesù e di Cristo, e poi, separatamente,
l'uomo, "Cristo e Figlio", parlano evidentemente di due persone, anche se fingono di ammettere una sola persona e
un solo Cristo, solo di nome, e secondo l'onore, e la dignità e l'adorazione; egli non ammette, invece, che
l'unione del Verbo di Dio con la carne animata da anima razionale e intelligente, sia avvenuta per composizione,
cioè secondo l'ipostasi, come hanno insegnato i santi padri; e quindi nega una sola persona in lui, e
cioè il Signore Gesù Cristo, uno della santa Trinità, costui sia scomunicato. Poiché,
infatti, l'unità si può concepire in diversi modi, gli uni, seguendo l'empietà di Apollinare e di
Eutiche, e ammettendo l'annullamento degli elementi che formano l'unità, parlano di un'unione per
confusione; gli altri, seguendo le idee di Teodoro e di Nestorio, si compiacciono della separazione, e parlano di
una unione di relazione. La santa chiesa di Dio, rigettando l'empietà dell'una e dell'altra eresia, confessa
l'unione di Dio Verbo con la carne secondo la composizione, ossia secondo l'ipostasi. Questa unione secondo la
composizione nel mistero di Cristo, salvaguarda dalla confusione degli elementi che concorrono all'unità, ma
non ammette la loro divisione.
Purtroppo il Concilio non riuscì lo stesso a ricucire lo strappo che a Calcedonia si era verificato con i
cristiani dell’Egitto, della Siria, dell’Armenia, con i cosiddetti monofisiti (abbiamo già
visto, parlando di Calcedonia, come le recenti dichiarazioni cristologiche firmate da Paolo VI e Giovanni Paolo
II con i patriarchi di queste chiese abbiano condotto, invece, oggi alla certezza che la fede in Cristo è
comune e che non c’è alcuna differenza teologica in questo campo, perché veramente per tutti
Cristo è vero Dio e vero uomo, nell’unità della sua persona divina).
Voglio parlarvi qui anche del VI concilio ecumenico, il terzo Concilio di Costantinopoli, che si svolse
qui vicino a noi, nella sala a cupola (detta appunto “trullos”) del Palazzo imperiale o Palazzo
Magnaura. E’ per questo che il concilio viene anche chiamato “Concilio trulliano”.
Essendo stato distrutto il Palazzo dai Turchi, dopo la caduta di Costantinopoli, non possiamo localizzare con
certezza dove si trovasse questa sala, ma certo era nell’area che è qui intorno a noi.
La questione del rapporto fra la divinità e l’umanità in Cristo è così importante che
anche questo sesto concilio ecumenico torna, da un nuovo punto di vista – quello della
“volontà” - sulla stessa questione: la divinità e l’umanità di Cristo. Ma non
è questa la questione decisiva della vita dell’uomo? Quale rapporto c’è fra il tempo e
l’eterno, fra Dio e l’uomo, fra il Salvatore e la nostra vicenda umana? La chiesa sa – ed i
Concili lo testimoniano – che i rapporti fra il tempo e l’eternità, fra il peccato e la
salvezza, non si giocano in teorie filosofiche, ma nella vicenda personale dell’Incarnazione, della Croce e
della Resurrezione del Signore. E’ in Cristo la chiave di volta di tutta la vita!
Dunque il problema della “volontà” in Cristo. La corrente monofisita affermava ora - siamo nel
VII secolo - che nella persona di Cristo non c’è stata una volontà umana. In Lui era Dio a volere
e l’umanità di Gesù era una umanità senza volontà. L’argomento che essi portavano
nasceva ancora una volta dal desiderio di differenziarsi dalle posizioni di Nestorio: se Cristo avesse
“voluto” come uomo, se avesse avuto una “volontà umana”, ci sarebbero state in Lui
– dicevano - come due persone, come due vite parallele, senza contatto, simultanee, ma indipendenti. In
Cristo, allora, solo Dio voleva. I difensori di queste posizioni vennero chiamati “monoenergeti”
(“una sola attività in Cristo”) o “monoteliti (“Una sola volontà in
Cristo”)
I Padri del III Concilio di Costantinopoli si riunirono allora negli anni 680-681 – il Concilio fu
convocato dall’imperatore Costantino IV, ma dopo un previo accordo con il Papa S.Agatone – e
scrissero questa Dichiarazione conciliare:
Predichiamo, in Cristo, due volontà naturali e due operazioni naturali, indivisibilmente, immutabilmente,
inseparabilmente, inconfusamente, secondo l'insegnamento dei santi padri. Due volontà naturali che non sono
in contrasto fra loro (non sia mai detto!), come dicono gli empi eretici, ma tali che la volontà umana
segua, senza opposizione o riluttanza, o meglio, sia sottoposta alla sua volontà divina e onnipotente. Era
necessario, infatti, che la volontà della carne fosse mossa e sottomessa al volere divino, secondo il
sapientissimo Atanasio. Come, infatti, la sua carne si dice ed è carne del Verbo di Dio, così la
naturale volontà della carne si dice ed è volontà propria del Verbo di Dio, secondo quanto egli
stesso dice: Sono disceso dal cielo non per fare la mia volontà, ma la volontà del Padre che mi ha
mandato, intendendo per propria volontà quella della carne, poiché anche la carne divenne sua propria:
come, infatti la sua santissima, immacolata e animata carne, sebbene deificata, non fu distrutta, ma rimase nel
proprio stato e nel proprio modo d'essere, così la sua volontà umana, anche se deificata, non fu
annullata, ma piuttosto salvata, secondo quanto Gregorio, divinamente ispirato, dice: "Quel volere, che noi
riscontriamo nel Salvatore, non è contrario a Dio, ma anzi è trasformato completamente in
Dio"...
Ammettiamo, inoltre, nello stesso signore nostro Gesù Cristo, nostro vero Dio, due naturali operazioni,
senza divisioni di sorta, senza mutazioni, separazioni, confusioni; e cioè: un'operazione divina e
un'operazione umana,
I Padri del Costantinopolitano III affermarono così che se Cristo non avesse avuto una volontà umana
non sarebbe stato vero uomo, non sarebbe della nostra stessa natura. In maniera molto chiara – e bella
– il Catechismo della Chiesa Cattolica così sintetizza l’affermazione del Concilio:
“Cristo ha due volontà e due operazioni, divine ed umane, non opposte, ma cooperanti, in modo che il
Verbo fatto carne ha umanamente voluto, in obbedienza al Padre, tutto ciò che ha divinamente deciso
con il Padre e con lo Spirito Santo per la nostra salvezza. La volontà umana di Cristo segue, senza
opposizione o riluttanza, o meglio, è sottoposta alla sua volontà divina ed onnipotente”. Non
solo non c’è opposizione, ma la realtà meravigliosa dell’Incarnazione è che Cristo
desideri umanamente quella che è la volontà di Dio, la bellezza del cristianesimo è che il Cristo
umanamente “faccia tutto ciò che ha visto fare al Padre”! Si apre qui anche il vertiginoso
cammino della sequela cristiana, la convinzione radicata nella fede che è bene seguire la sua volontà,
che “in sua voluntade è nostra pace” (come scrisse Dante). Ma questa via ci è aperta
perché in Cristo pienamente la volontà umana si è piegata con gioia e fiducia a quella divina. Ci
tornano in mente le parole della lettera agli Ebrei che non ci stancheremo mai di meditare: “Imparò
l’obbedienza dalle cose che patì” (Eb5,8). Così anche il III Concilio di Costantinopoli ci
mette dinanzi al mistero; non per decisione umana la volontà divina e quella umana si accordano, anzi
l’uomo non riesce neppure a pensare questo, balbetta dinanzi a questo! Il cristiano si accorge, però,
dinanzi a questo mistero che ben poca cosa sarebbe stata una salvezza compiuta da Dio abrogando la volontà
umana. Se, nella condizione di peccato, la volontà umana e quella divina non appaiono altro che realtà
che si oppongono, che confliggono - l’uomo nel peccato sospetta della volontà di Dio, come vediamo nel
peccato di origine - nel dono dell’Incarnazione l’umanità non ha più alcuna riluttanza,
anzi ama che la volontà divina divenga forma della volontà umana. Il destino della volontà umana
si manifesta allora essere proprio quello della fiducia piena nella volontà divina.
Se vogliamo, a questo punto, riassumere i primi sette concili ecumenici – mi piacerebbe li imparaste quasi
a memoria – possiamo dire:
I Concilio, Nicea, 325: Cristo è della stessa sostanza del Padre‚ cioè è Dio
II Concilio, Costantinopolitano I, 381: lo Spirito Santo è Dio; unica è la sostanza (ousia) del Padre,
del Figlio e dello Spirito; il Padre, il Figlio e lo Spirito sono tre persone (ipostasi) nell'unità della
Trinità
III Concilio, Efeso, 431; Maria non è solo la Madre di Gesù, è anche la Madre di Dio, perché
il Cristo è vero Dio e vero uomo
IV Concilio, Calcedonia, 451: Cristo è una sola persona divina sussistente, in due nature, quella divina e
quella umana; le due nature sono senza confusione, senza mutazioni, non divisibili, non separabili
V Concilio, Costantinopolitano II, 553: in Cristo c´è una sola persona
VI Concilio, Costantipolitano III, 680-681: in Cristo ci sono due volontà, quella divina e quella umana, in
una armonia perfetta
VII Concilio, Nicea II, 787: non solo è possibile rappresentare Dio nelle icone, ma è obbligatorio
farlo, perché la negazione delle immagini equivarrebbe alla negazione dell’Incarnazione
Parleremo ancora della storia della Chiesa della Divina Sapienza, commentando i mosaici che si sono conservati
all’interno.
Solo alcune parole sui mosaici che via via ammiriamo. I crolli hanno fatto la loro parte nel deterioramento delle immagini, ma, come vedremo a San Salvatore in Chora, parlando del patrimonio bizantino di Costantinopoli, c’è stato un sistematico lavoro teso a far sparire le immagini, nella conversione delle Chiese in moschee, per il rifiuto delle immagini nella tradizione islamica. Ma torneremo a parlarne a San Salvatore. Qui ricordiamo solo che il sultano Mehmed II (Maometto II) entrando il 29 maggio 1453 in Santa Sofia, fece subito recitare in essa la preghiera islamica “Non esiste altro Dio all’infuori di Allah e Maometto è il suo profeta” e trasformò così – ipso facto - la Chiesa in una moschea. Da quel momento in poi Santa Sofia sarà la moschea Aya Sofya. Differentemente si era comportato il sultano Omar, quando aveva voluto pregare, appena conquistata Gerusalemme nel 614, al di fuori del Santo Sepolcro, conservandogli così la dignità di Chiesa. Secondo la tradizione disse: “Se avessi pregato nella Chiesa, essa sarebbe stata persa per voi, poiché i credenti l’avrebbero presa dicendo: Qui ha pregato Omar”. La Turchia laica di Atatürk decise poi di trasformare la moschea Aya Sofya in Museo, rendendo oggi impossibile qualsiasi preghiera - sia essa islamica che cristiana – al suo interno.
Ma vediamo ora ciò che qui si è salvato della decorazione musiva che, un tempo, ricopriva interamente
tutte le pareti (possiamo averne una immagine pensando a S.Marco a Venezia, per intuire con quale splendore
doveva presentarsi l’interno della Chiesa, prima della conquista turca).
Entriamo per la Porta Imperiale, la porta per la quale entravano gli imperatori. Potete vedere il superstite
mosaico nella lunetta. Al centro sta il Cristo Pantocratore (cioè onnipotente, “che tutto
comanda”) con la mano benedicente e, nell’altra, il libro aperto con l’iscrizione: “Pace
a voi. Io sono la luce del mondo”. Già questa immagine ci introduce alla Divina Sapienza, a Cristo.
Egli, luce da luce, vera luce divina, governa l’universo, essendone sia la sapienza attraverso la quale
tutto è stato creato (“tutto è stato creato per mezzo di Lui e senza di Lui niente è stato
fatto di tutto ciò che esiste”, Prologo di Giovanni), sia il disegno sapiente, il mistero infine
rivelato che, nel sacrifico della croce, ha salvato l’universo, destinato altrimenti a perdizione.
Ai piedi del Cristo sta in atteggiamento di adorazione l’imperatore Leone VI (886-912), detto Leone
il Saggio. Attraverso le fotocopie che avete a disposizione potete seguire a grandi linee – sono solo
alcuni cenni di una storia che, purtroppo, non viene insegnata nei nostri licei e della quale siamo perciò
particolarmente ignoranti - le differenti periodizzazioni della storia bizantina. Siamo nel periodo d’oro
dell’impero, il quarto periodo secondo la classificazione di Georg Ostrogorsky, nella sua Storia
dell’impero bizantino, un “classico” in materia.
Di Leone VI, grandissimo imperatore, si è impadronita la leggenda che ne ha fatto, già vivente, un
profeta, un mago, un astrologo, tanto vasta era la sua preparazione e l’influenza della sua
personalità. Sono famosi i suoi testi giuridici, che continuano la tradizione di grande attenzione al
diritto inaugurata da Giustiniano (ne abbiamo parlato ad Aphrodisias): la Basilika e le Novellae, testi che
faranno scuola nei secoli successivi. Con lui l’impero bizantino si accentrò ancora più nella
persona dell’imperatore, protettore ma non capo della Chiesa. E’ famosa la questione matrimoniale che
riguardò Leone VI: non riuscendo ad avere un erede maschio, si sposò 4 volte alla morte delle
precedenti mogli, finché al quarto matrimonio gli fu interdetto dal patriarca l’ingresso a Santa Sofia
– infatti, il diritto canonico orientale non permette un terzo matrimonio di un vedovo. Leone VI si rivolse
allora alla sede di Roma, poiché in questo la legislazione latina è meno rigida, ed ottenne così
il riconoscimento papale della sua discendenza.
Entriamo ora in Santa Sofia. Vedremo poi i capitelli che ci ricordano, con i monogrammi di Giustiniano e della
moglie Teodora, la nuova fondazione della Chiesa, dopo la distruzione causata dalla rivolta di Nike.
Rivolgiamo, invece, subito il nostro sguardo all’abside, dove ci appare il mosaico della Madre di
Dio, con il Bambino sulle ginocchia. E’ lì dove si concentra il nostro sguardo ed è lì
che l’iconografia pone il soggetto più importante a cui guardare: è il Bambino Gesù, ma
è la Divina Sapienza che governa l’universo!
Vediamo la Vergine, secondo l’iconografia orientale, con le tre stelle o croci, sul capo e sulle spalle che
simbolizzano la verginità “prima, durante e dopo il parto”. Come ben sapete tale
verginità non è solo segno della non ordinarietà della nascita di Gesù e della purezza della
Madre, ma, anzitutto, il corrispettivo dogmatico mariano della verità cristologica: Gesù è il
Figlio di Dio e Giuseppe non ha parte alcuna al suo concepimento. La Divina Sapienza, il Cristo, è Figlio ab
aeterno del Padre che è nei cieli, ma questa Sapienza è il Bambino che si incarna per volontà del
Padre nel grembo di Maria che, nell’abside, lo porta sulle ginocchia. Il sì di Maria a Dio, permette
il concepimento del Bambino nel mondo. Come penso sapete, anche nel Corano Maria è vergine, ma lì
Gesù è solo uomo, creato direttamente da Dio nel grembo della Vergine.
Il trono sul quale la Madre ed il Figlio sono seduti indica che il Figlio incarnato, la Sapienza Incarnata,
veramente governa il mondo e che tutto è nelle sue mani. La Madre stessa è qui rappresentata come il
Trono di Cristo; essa non è qui considerata, nell´iconografia, in se stessa, ma nel suo servizio al
Figlio che regna.
Dei mosaici della navata si sono salvati solamente le figure di tre grandi santi vescovi: S.Ignazio di
Antiochia, S.Giovanni Crisostomo e S.Ignazio il giovane (è solo frammentaria la figura di S.Atanasio).
S.Ignazio, vescovo di Antiochia, che già abbiamo conosciuto a Smirne, è qui indicato con il soprannome
di Teoforo, “portatore di Dio”, una delle espressioni con cui ama chiamarsi, nelle sue lettere, ad
indicare proprio che il suo viaggio verso il martirio è in realtà un itinerario di testimonianza e di
evangelizzazione. S.Giovanni Crisostomo è il grande patriarca che proprio qui a Santa Sofia ebbe la sua
cattedra. Possiamo immaginarlo entrare nella seconda costruzione, distrutta nel 404, della quale abbiamo visto i
resti del portico all’ingresso della Chiesa attuale. Infine S.Ignazio, detto il “giovane” per
differenziarlo appunto dal vescovo di Antiochia, anche lui patriarca qui a Costantinopoli. La sua storia si
intrecciò con quella famosa di Fozio, che abbiamo conosciuto al patriarcato ecumenico del Fener. Infatti,
Ignazio di Costantinopoli patriarca dall’842, figlio dell’imperatore Michele Rangabe, fu cacciato e
sostituito da Fozio, ma dopo 9 anni richiamato. Solo alla sua morte Fozio fu nuovamente insediato come patriarca
per essere poi definitivamente esiliato.
La venerazione dei santi che queste immagini ci richiamano, ci riporta ad un brano del libro della Sapienza:
“Sebbene unica, la sapienza può tutto; pur rimanendo in se stessa, tutto rinnova e attraverso le
età entrando nelle anime sante, forma amici di Dio e profeti. Nulla infatti Dio ama se non chi vive con la
sapienza” (Sap 7,27-28). E’ l’opera di Cristo, Sapienza che rimane in se stessa, che tuttavia
dà forma e vita al suo corpo che è la Chiesa, la pienezza di Colui che si realizza pienamente in tutte
le cose.
Siamo saliti ora nella Galleria meridionale della Chiesa della Divina Sapienza. Qui possiamo contemplare
più da vicino alcuni mosaici. Innanzitutto la famosissima Deesis. E’ una delle immagini
più ricorrenti nell’Oriente: Giovanni Battista (qui chiamato “prodromos”, “il
precursore”) e Maria, la Madre di Dio (vediamo le abbreviazioni del suo nome e del suo titolo;
l’accento circonflesso è indicativo che le due lettere sono la prima e l’ultima del nome
indicato, ad esempio theta+upsilon, con il circonflesso equivalgono a “Theou”, “di Dio”).
La bellezza di quest’opera - notate i volti dei personaggi, con le tessere finissime per dare naturalezza e
non fissità – hanno fatto parlare di un “Rinascimento” dell’arte bizantina. La
parola Rinascimento è un termine tecnico della storia dell’arte occidentale – e badate bene che
il Rinascimento è profondamente cristiano ed è solo pretestuosa l’opposizione Dio-uomo,
Medioevo-Umanesimo/Rinascimento che talvolta banalmente sentiamo affermare. Gli studi moderni si stanno
accorgendo che, come nell’arte occidentale c’è stata una evoluzione verso una raffigurazione
più attenta al realismo, alla natura ed all’umanità, così anche in Oriente questo è
avvenuto – e l’evoluzione sarebbe continuata ed avrebbe portato chissà a quali cambiamenti se
non fosse stata bruscamente interrotta dalla decadenza bizantina e dalla conquista turca che hanno impedito la
fioritura di questi germi. A volte chi inneggia alla fissità ed al simbolismo dell’arte delle icone,
non si accorge del rischio di una esagerazione di questi canoni estetici, che sono dovuti anche alla situazione
di non più piena libertà che ha obbligato gli artisti dei secoli seguenti a conservare,
nell’impossibilità ormai di innovare. La datazione di questo mosaico oscilla fra il XII secolo ed il
XIII.
Per farvi solo un altro esempio di questo Rinascimento bizantino, mi viene in mente la Chiesa di Boyana, in
Bulgaria, affrescata nel 1259. E’ straordinaria l’innovazione pittorica che distacca gli affreschi di
questa piccola Chiesa, che pure resta un edificio prettamente orientale, dai canoni estetici che noi chiamiamo
orientali.
Proseguiamo nella galleria meridionale e arriviamo fino alla parete di fondo. Qui possiamo vedere ancora due
mosaici che ci fanno incontrare altre figure imperiali bizantine. Voglio attirare l’attenzione sul mosaico
di sinistra, che raffigura l’imperatore Costantino IX (1042-1055), che è l’imperatore dello
scisma del 1054. Il mosaico potrebbe essere – non ne siamo sicuri – immediatamente precedente o
immediatamente successivo al giorno in cui il cardinale Umberto di Silva Candida depose proprio sull’altare
di Santa Sofia – era qui sotto di noi, ma fu poi demolito quando S.Sofia fu trasformata in moschea - la
scomunica di Cerulario (ne abbiamo parlato al patriarcato ortodosso). Le scritte recitano: “Il sovrano
credente dei Romani, il servo di Gesù di Dio, Costantino Monomaco” e “La pia Augusta
Zoè” (Costantino fu il terzo marito di Zoè). Notate l’appellativo con cui
l’imperatore si fa raffigurare: “Re dei Romani”. E’ la coscienza di essere eredi
dell’impero di Roma (la parola “bizantino”, come vi dicevo, è successiva). Siamo nel V
periodo della classificazione di Georg Ostrogorsky.
Nel mosaico di destra vediamo invece Giovanni Comneno II (1118-1143) con la moglie Irene, figlia del re
dell’Ungheria, ed il figlio Alessio che morirà giovane (è evidente sul suo viso la malattia).
Giovanni è, probabilmente, il più grande dei Comneni. Lottò contro l’Armenia minore,
conquistandola, e contro il principato di Antiochia, che era ai suoi tempi un Regno franco, nato dalla crociata.
Siamo, infatti, nel periodo delle crociate, ma prima di quella del 1204 – è il sesto periodo
dell’impero, secondo la classificazione di Georg Ostrogorsky.
Usciamo ora dalla Chiesa, per la porta Sud. Volgendoci indietro vediamo, nella lunetta, un ultimo mosaico.
Viene datato al regno di Basilio II (976-1025) – siamo nel periodo dello splendore più grande
dell’impero bizantino. Al centro sta la Vergine con il Bambino. Alla sua destra, Costantino
imperatore, il fondatore di Costantinopoli, che offre alla Vergine ed al suo Figlio la città. Alla
sinistra sta, invece, Giustiniano, che offre proprio la Chiesa della Divina Sapienza. La scritta a fianco
di Costantino dice: “Costantino fra i santi, gran Re”. Nella Chiesa bizantina Costantino è,
infatti, ritenuto santo. Fu lui, ne parleremo a San Salvatore in Chora, a volere qui a Costantinopoli una Chiesa
dedicata ai Dodici Apostoli, come suo sepolcro, volendo che la sua opera fosse vista come continuazione
dell’opera apostolica. Il suo titolo fu quello di “uguale agli apostoli”
“isapostolos”. Esso divenne abituale a partire dal V secolo, ma lo troviamo già in
Eusebio di Cesarea (e probabilmente lo stesso imperatore non deve essere stato estraneo alla incentivazione di
questa venerazione).
Anche Giustiniano ha l’aureola. E’, infatti, considerato anche lui santo, fin dalla tradizione
antica. Nel Sinassario di Costantinopoli ne troviamo la motivazione: “Fu promotore della fede ortodossa,
emanò nuove norme in favore della Chiesa, realizzò opere filantropiche, fece edificare Santa Sofia e
altri luoghi di culto in Oriente, nel Mezzogiorno ed in Occidente, e stabilì la festa dell’Ipapante
(la Presentazione di Gesù al Tempio, il 2 febbraio)”.
N.B. Questo schema non ha alcuna pretesa di completezza. E’ stato preparato al solo fine di fornire a
chi è totalmente digiuno di storia bizantina i primissimi elementi per un orientamento. La periodizzazione
è stata tratta da Georg Ostrogorsky, Storia dell’impero bizantino.
primo periodo 324-610
-è il periodo nel quale l’impero ha effettiva autorità politica, anche se con periodi di
interruzione, sia sull’Oriente che sull’Occidente (anche se Roma resterà formalmente sotto
dominio bizantino fino al 754, anno con il quale si fa tradizionalmente iniziare lo Stato della Chiesa)
-i limiti cronologici di questo periodo vanno dal momento dello spostamento del centro dell’impero in
Oriente, ad opera di Costantino, al momento dell’offensiva Persiana dei primi decenni del seicento (Foca fu
l’ultimo imperatore che fece erigere un monumento nei Fori pur non essendo mai venuto a Roma, la colonna
detta di Foca, nel 608). Nel 663 Costante II fu l´ultimo imperatore a venire a Roma ed a risiedere, sia pure
per pochi giorni, nel palazzo imperiale sul Palatino.
-con Teodosio l’Impero diventa cristiano (ai tempi di Ambrogio vescovo a Milano)
-Giustiniano (527-565), dopo le invasione barbariche, unifica per l’ultima volta nuovamente l’impero;
grandi attività edilizie: Santa Sofia, il cardo di Gerusalemme, il monastero di S.Caterina al Sinai, la
Chiesa di S.Vitale a Ravenna; decisiva la sua codificazione del diritto, il Codex iuris civilis o Codex
Justinianus
-armeni incoraggiati da Costantinopoli, contro la Persia
-l’impero nomina e rimuove i patriarchi; i problemi teologici sono anche il riflesso di problemi politici,
monofisiti dominanti in Siria ed Egitto; Gregorio I (Magno) contesta il titolo di patriarca ecumenico a
Costantinopoli
secondo periodo (610-711)
-è il periodo nel quale l’impero diviene un impero greco (non più bilinguismo, ma solo il
greco)
-i limiti cronologici vanno dagli inizi dell’imperatore Eraclio al momento nel quale l’impero si
rinnova, frenando l’avanzata araba e divenendo così, in Oriente, il cuscinetto fra l’Europa ed
il mondo arabo in espansione
-Eraclio, grande imperatore; il Colosso di Barletta potrebbe essere una sua statua (o una statua di un imperatore
precedente da lui reimpiegata, portata poi dai crociati in Puglia)
-nel 626 Persi e Avari assediano Costantinopoli, nel 630 Eraclio entra a Gerusalemme e poi in Mesopotamia
-istituzione dei “temi”, le divisioni regionali dell’impero
-comincia la prassi del sistematico accecamento del rivale
-nel 674-678 gli arabi assediano Costantinopoli; per la prima volta vengono sconfitti e si arresta la loro
travolgente espansione; il personaggio simbolo della sconfitta è Eyüp-ül-Ensârî-Halit
Bin Zeyd, compagno di Maometto; la moschea di Eyüp, in Istanbul, luogo santo islamico, ricorda la sua morte
(secondo la tradizione Maometto II, il Conquistatore di Costantinopoli, avrebbe miracolosamente ritrovato
l’antica sepoltura)
terzo periodo (711-843)
-è il periodo della crisi iconoclasta, che viene suddivisa, a sua volta, in due periodi
1/ tra il 730 e il 787 (primo periodo iconoclasta sotto gli Isaurici)
2/ tra l’815 e l’843 (secondo periodo iconoclasta sotto la dinastia Amoriana)
-segni premonitori: il patriarca Germano di Costantinopoli richiama all’ordine due vescovi dell’Asia
Minore che vietavano le icone e discorsi di Leone III a partire dal 726
-nel 730 Leone III richiede di firmare una dichiarazione sul rifiuto delle immagini; gli alti funzionari che
rifiutano sono perseguitati (il patriarca Germano fu deposto e sostituito)
-i papi lo attaccano (Gregorio II e III), difendendo le immagini; distacco crescente del Papato dall’Impero
e crescita dell’autonomia temporale (nel 754, con la Dieta di Kiersy Roma avrà le ex terre bizantine,
Esarcato di Ravenna, Pentapoli e Ducato Romano)
-il figlio Costantino V convoca il Concilio di Hieria che vieta la fabbricazione e la venerazione di icone
-Stefano il Giovane, monaco, si oppone nel 765; l’Impero resta iconodulo e continuano le persecuzioni
-concilio di Nicea II del 787
-Leone V, nel 815, riafferma l’iconoclastia
-il patriarca Niceforo con vescovi e igumeni (fra cui Teodoro Studita) si oppongono e vengono allontanati
-Michele II, iconoclasta moderato
-Teofilo, iconoclasta stretto, sceglie come patriarca Giovanni il Grammatico
-la moglie Teodora ripristinò l’uso delle icone alla morte del marito, dopo aver ottenuto
l’assoluzione per lui
-l’11 marzo 843 ci fu la solenne liturgia di restaurazione in Santa Sofia e da allora si celebra la festa
della Domenica dell’Ortodossia, prima domenica di Quaresima (il nuovo patriarca che la celebrò è
Metodio); la Domenica dell’Ortodossia segna anche la fine delle controversie teologiche e cristologiche
quarto periodo (843-1025)
-l’età d’oro, da Basilio I all’apogeo di Basilio II
-al termine di questo periodo di nuovo i Balcani, l’Armenia e la Georgia sotto influsso bizantino
-cristianizzazione degli slavi meridionali e russi; nell’860 i russi, per la prima volta, arrivano sotto
Costantinopoli e saccheggiano le sue campagne; attribuita alla Vergine la fine dell’assedio
-Costantinopoli capisce che deve evangelizzarli e farli entrare nella sua orbita; per rinnovare le sue relazioni
con i Cazari, manda l’ambasceria di Costantino di Tessalonica (noto come Cirillo); il principe moravo
Rotislao chiede l’invio di missionari; inviati, in risposta, Costantino-Cirillo e Metodio (Cirillo
morì poi a Roma nel 869) che cominciarono l’evangelizzazione degli slavi fuori dei confini
dell’Impero; lotta per l’influenza sulla Bulgaria fra Roma ed i franchi, da un lato, e
Costantinopoli, dall’altro; il patriarca Fozio, nel sinodo dell’867, riunito a Costantinopoli,
condanna la processione dello Spirito Santo affermata in Occidente e dichiara illegittime le intromissioni romane
nei territori sotto influenza bizantina
quinto periodo (1025-1081)
-l’unità e la forza dell’impero viene sgretolata da una aristocrazia burocratica con conseguente
progressiva decadenza
-1054, scisma d’Oriente
-crollo in Asia (battaglia di Manzikert, prima vittoria turca), perdita definitiva dei possedimenti bizantini
italiani, indebolimento nei Balcani
-1071, sconfitta di Manzikert, vicino il lago Van; i turchi selgiuchidi in Asia Minore fondano il sultanato di
Rum, con capitale Konya (Iconio); sarà il motivo scatenante le crociate
-nel 1077 i Selgiuchidi prendono Gerusalemme
sesto periodo (1081-1204)
-aristocrazia militare, Comneni e Angeli
-il dominio del mare passa da Bisanzio alle repubbliche marinare
-visioni diverse della lotta con i Selgiuchidi: per Costantinopoli è un affare bizantino, per il quale
chiede un aiuto ai latini, per l’Occidente è in vista della liberazione della Terra Santa
-nel 1096 arrivano a Costantinopoli i crociati, conquistano Nicea e la affidano a Costantinopoli (che ottiene di
nuovo Smirne, Efeso, Sardi), ma, quando conquistano Antiochia ne fanno un principato franco, nonostante le
proteste di Costantinopoli
-nel 1099 i crociati prendono Gerusalemme
-Giovanni II Comneno riconquista l’Armenia minore
-tentativo fallito di una espansione in Italia (Ancona e Brindisi) e nuove battaglie con il sultanato di Iconio
(1176); la sconfitta fu paragonata a Manzikert
-crescente tensione con Venezia; 1171, arresto dei veneziani e confisca dei beni, 1182, massacro dei mercanti
(veneziani e genovesi)
-1187 cade Gerusalemme
-1203-1204: si sommano la politica aggressiva di Manuele nei confronti dell’Occidente,
l’atteggiamento antilatino di Andronico, l’ostilità occidentale verso Bisanzio, gli interessi
politici ed economici di Venezia, il desiderio di Alessio Angelo, scappato da Costantinopoli, di ottenere il
trono
-i veneziani deviano la crociata verso Costantinopoli; luglio 1203, rimesso sul trono dai crociati
l’imperatore bizantino Isacco II accecato e suo figlio Alessio IV co-imperatore
-il 13 aprile 1204 i crociati, dopo una rivolta della città, la riprendono e, per tre giorni, la mettono a
ferro e fuoco (le reliquie portate via, così le opere d’arte, come i cavalli di S.Marco e la Pala
d’oro)
-il Papa Innocenzo III deplora l’accaduto, ma ne accetta i risultati
-inizia il regno latino di Costantinopoli
-l’impero bizantino ridotto solamente a Nicea; la vera vittima delle crociate è l’impero
bizantino
settimo periodo (1204-1282)
-tutte le isole dello Ionio e dell’Egeo sono ormai veneziane o genovesi
-una Commissione di sei Franchi e di sei veneziani per eleggere il nuovo imperatore; il doge Enrico Dandolo
(iscrizione a Santa Sofia) arbitro anche delle scelte a Costantinopoli (vuole un imperatore non in vista, nella
figura di Baldovino di Fiandra e come patriarca il veneziano Tommaso Morosini)
-Costantinopoli divisa; ai veneziani tre ottavi con Santa Sofia
-anche i resti dell’impero sono divisi: i Lascaris a Nicea, fino a Michele VIII Paleologo, in Epiro Michele
Angelo
-i Latini cercano di attaccare il regno di Nicea, trattandolo sprezzantemente come fanno con i bulgari; nel 1205,
quando sembrano essere in grado di prendere tutto il dominio, subiscono ad Adrianopoli una rovinosa sconfitta ad
opera delle truppe bulgare (è insomma il bulgaro Kalojan a salvare i bizantini)
-dopo questo fatto nessuno dei due regni sarà più in grado di imporsi sull’altro
-dopo che nel 1217 Stefano il Primo Coronato (capo dei serbi) si era fatto incoronare a Roma, nel 1219 venne
consacrato a Nicea il primo arcivescovo autocefalo della Serbia (grande successo diplomatico sia per i serbi che
per i bizantini)
-i Comneni resistono nell’Impero di Trebisonda (oramai totalmente sganciato dai bizantini); tale impero
sopravviverà molti anni alla caduta di Costantinopoli
-a Baldovino succede Enrico di Fiandra, Enrico muore; viene incoronato imperatore da Onorio III nel 1217 Pietro
di Courtenay (incoronato a Roma, ma non in S.Pietro dove venivano incoronati gli imperatori tedeschi, bensì
nella più modesta basilica di S.Lorenzo fuori le Mura); fatto prigioniero nello stesso anno 1217, sui
valichi di montagna dell’Albania, passò la vita in prigionia (il portico di S.Lorenzo è opera del
1220 del Vassalletto; in esso si è salvato dal bombardamento proprio l’immagine a mosaico della
presentazione dell’imperatore Pietro di Courtenay)
-nel 1261 Michele VIII Paleologo firma un trattato con i Genovesi e, assicuratosi il loro aiuto, riprende
Costantinopoli (Baldovino II fugge dalla città)
-1274, unione del concilio di Lione, il Paleologo si fa cattolico, ma senza i vescovi e i monaci; l’unione
ha però l’effetto di bloccare Carlo d’Angiò che voleva divenire imperatore di
Costantinopoli; è Gregorio X a fare questo; a lui succede Martino IV, succube, invece, dei francesi che
scomunica il Paleologo; solo i Vespri Siciliani fermeranno Carlo d’Angiò, pronto a partire per la
conquista dell’Oriente, togliendo a lui la Sicilia
ottavo periodo (1282-1453)
-tutti imperatori della famiglia dei Paleologi, a partire dal primo Michele VIII Paleologo (con l’eccezione
di Giovanni VI Cantacuzeno)
-viene chiamato Rinascimento Paleologo, dopo la riconquista di Costantinopoli, ma si rivela come un periodo di
lenta decadenza fino alla caduta definitiva
-i Turchi si organizzano definitivamente; l’emirato di Osman esce dalla Frigia, nel 1326, e diviene
l’elemento unificante (il turco comincia ad essere la vera lingua e non più l’arabo)
-gli Osmanli (Ottomani) nel 1345, avendo aiutato Giovanni Cantacuzeno, sbarcano in Europa
-1357, Costantinopoli chiede aiuto ai turchi ottomani contro i Serbi; i Turchi a Gallipoli
-1369-1371 Giovanni V Paleologo a Roma e a Venezia per l’alleanza, anche a prezzo della conversione al
cattolicesimo
-1371 i Turchi sconfiggono sulla Marizza i principati balcanici
-1389 battaglia del Kossovo, i Turchi sconfiggono Serbi e Bosniaci
-Costantinopoli è ormai una testa senza più un corpo
-lettera di Manuele II Paleologo al figlio Giovanni VIII alcuni anni prima di Ferrara-Firenze in un Chronicon del
XV secolo:
Figlio mio, sinceramente e veramente sappiamo degli infedeli (cioè i turchi e i musulmani) che sono assai
paurosi che noi possiamo unirci e accordarci ai cristiani d’Occidente; sono infatti del parere che se
questa unità tra Oriente e Occidente dovesse accadere, un grave danno ne deriverebbe a loro per la nostra
opera. Per ciò che concerne il Concilio in vista dell’unione, occupatene quindi, fa ricerche, e
ciò soprattutto quando hai bisogno di mettere paura nei musulmani. Quanto a realizzare il Concilio, non
intraprendere mai una tale cosa, perché, per quanto vedo io, i nostri non sono pronti a trovare il metodo e
il modo di unione e di accordo e di pace e di concordia, se non preoccupandosi che quelli, intendo gli
occidentali latini, facciano ritorno indietro, alla situazione in comune in cui eravamo fin dalle origini. Ma
ciò in realtà è impossibile. Io temo quasi che se ci fosse un concilio di unione, lo scisma
andrebbe ad aggravarsi e noi resteremmo col fianco scoperto nei confronti degli infedeli saraceni
-1439 concilio di Ferrara-Firenze
-12 dicembre 1452 a Santa Sofia si proclama l’unione in rito latino, ma molti dicono: “Preferirei
vedere in mezzo alla città il turbante turco, piuttosto che la mitra latina” (in Occidente si voleva
un nuovo Impero latino)
-1453, la sera del 28 maggio, messa comune di greci e latini in Santa Sofia; 29 maggio, la città è
presa
-per 3 giorni il saccheggio turco della città
-la tradizione cristiana restò come la cosa più sacra per greci e slavi; preservò i popoli
dall’assorbimento turco, rese possibile la rinascita del secolo XIX; pochi anni dopo la caduta di
Costantinopoli Mosca si ribellò al giogo tataro e divenne la più importante potenza indipendente
ortodossa; Ivan III sposò la figlia di Tommaso Paleologo, nipote dell’ultimo imperatore; la
“terza Roma”
Abbiamo visto soprattutto gli splendidi sarcofaghi di questo Museo delle antichità. E’ commovente il
tentativo di tutti i popoli, in ogni epoca, di ricordare i morti, di pensare alla loro eternità: nel
sarcofago detto “di Alessandro Magno”, attraverso il narrare le battaglie con i Persiani e le
cacce, similmente nel sarcofago Licio, in maniera molto più vicina a noi nel Sarcofago delle
Piangenti, con l’espressione del lutto, delle lacrime di tanti, per la persona morta.
Non siamo, però, riusciti a vedere i tre pezzi archeologici che volevo mostrarvi. Sono, infatti, custoditi
qui tre reperti interessantissimi relativi alla Bibbia, ma le sale non erano oggi aperte al pubblico. Sono tre
reperti emersi dagli scavi in Terra Santa, quando essa era ancora sotto dominazione turca, nel periodo
dell’Impero Ottomano.
Innanzitutto il cosiddetto Calendario di Gèzer, ritrovato nel 1908. E’, forse, la più
antica iscrizione conosciuta in lingua ebraica – viene datata intorno al 925 a.C. Elenca i mesi a partire
dal lavoro caratteristico che veniva compiuto in essi.
Più interessante ancora è l’iscrizione di Siloam, relativa al regno di Ezechia di Giuda
(ca. 725-697 a.C.). E’ stata scoperta nel 1880 all’interno del tunnel di Siloam, un tunnel scavato a
mano, probabilmente poco prima dell’assedio a Gerusalemme di Sennacherib, per portare l’acqua dalla
fonte di Gihon, che era fuori delle mura di Gerusalemme, fino alla piscina di Siloe (che sarà poi citata nel
vangelo di Giovanni, in epoca neotestamentaria) all’interno delle mura. Così recita il testo, secondo
la ricostruzione dell’Introduzione all’Antico Testamento di J.A.Soggin:
...la perforazione, e questo è il modo (in cui viene effettuata) la perforazione: quando non restavano
che... piccone, un uomo di fronte l’altro; non restavano che tre cubiti da per(forare quando
s’udì) la voce di un uomo, il quale chiamava il proprio compagno perché vi era zdh (termine non
chiaro) nella roccia a destra e a (sini)stra. Quando la perforazione fu compiuta, i minatori picconarono uno
incontro all’altro, piccone contro piccone. E scorsero le acque dalla sorgente al serbatoio per 1200
cubiti, mentre di 100 cubiti era l’altezza della roccia sulla testa dei minatori...
Infine il pezzo, forse, più importante, per capire tanti aspetti della novità cristiana. E’
l’iscrizione del Tempio di Gerusalemme - il Tempio rinnovato da Erode il Grande, poco prima della
nascita di Gesù - ritrovata nel 1871 e relativa al I secolo d.C. Indica chiaramente che a nessuno che non
sia ebreo è concesso di oltrepassare il Cortile detto dei “Gentili”, cioè delle
“genti”, dei “pagani”, per penetrare nella parte del Tempio riservata ai soli ebrei, lo
Hieròn, la zona sacra. Così recita l’iscrizione:
Nessuno straniero penetri al di là della balaustra e della cinta che circonda lo hieròn; chi venisse
preso sarà causa a se stesso della morte che ne seguirà
Innanzitutto il nome. In turco questo luogo viene chiamato Kariye Camii, cioè Moschea di Chora, poiché
la stragrande maggioranza delle Chiese bizantine sono state trasformate in moschee, subito dopo la conquista
turca di Costantinopoli. Questa trasformazione ha portato alla distruzione di tutto il patrimonio artistico dei
mosaici e degli affreschi contenuti in queste chiese. Pensate che questa chiesa è l’unica
ancora esistente che abbia conservato gran parte della decorazione iconografica originaria.
Vi ho consegnato una scheda che segnala le chiese più importanti che esistevano prima della caduta di
Costantinopoli. Gli studiosi calcolano che c’erano qui a Bisanzio, nel periodo di massimo splendore, 450
Chiese e 340 monasteri circa, tutti completamente affrescati o con mosaici. Di questi si sono conservati solo le
immagini di San Salvatore in Chora, i pochi mosaici che abbiamo visitato in Santa Sofia ed alcuni
superstiti nella Chiesa della Theotokos Pammakaristos (“la Madre di Dio in tutto beatissima”),
detta in turco Moschea Fethiye, Fethiye Camii. Di tutto il resto non si è conservato praticamente nulla,
poiché nel passaggio da Chiese a Moschee – per il rifiuto delle immagini caratteristico
dell’Islam – tutte le raffigurazioni cristiane sono state cancellate. Qui a San Salvatore in Chora
esse si sono conservate, perché tutto era stato ricoperto di intonaco e, una volta che lo Stato ha acquisito
questo edificio e lo ha trasformato in Museo, è stato possibile riportare alla luce tutta la bellezza di
queste immagini che sono davanti ai vostri occhi. Anche qui, come a S.Irene e a S.Sofia è proibito
celebrare.
Ma cosa vuol dire “in Chora”? Lo capiamo subito se leggiamo le iscrizioni poste a commento
più volte, proprio in questa chiesa, delle figure di Gesù e di Maria, sia ai lati dell’abisde sia
qui nell’esonartece e nell’endonartece (cioè nel nartece esterno e nel nartece interno).
Gesù Cristo è detto η χωρα των
ζωντων (Chora ton zonton), cioé “dimora dei viventi. Il mosaico
che è alla sinistra dell’abside ce lo spiega. Vediamo, infatti, Cristo con il libro aperto sul quale
è scritta la frase evangelica: “Venite a me voi tutti che siete affaticati ed oppressi ed io vi
ristorerò”. Cristo è la Chora, la dimora, la casa, dove ogni uomo abita e trova riposo.
Dov’è il nostro posto? E’ in Cristo! Solo lì troviamo la vita, la difesa, il senso,
l’amore del Padre, insomma tutto! Tornano in mente le parole del vangelo di Giovanni: “Ora lo schiavo
non resta per sempre nella casa, ma il figlio vi resta sempre”. E’ la nostra casa, perché noi
siamo “figli del Padre”. E’ la nostra identità più vera. E non abbiamo altra casa,
altro luogo dove dimorare. Anche gli apostoli, appena conosciuto Gesù, gli domandano, nel vangelo di
Giovanni: “Maestro, dove abiti?” E, continua il testo, “quel giorno si fermarono presso di
lui”. E’ il tema che già abbiamo meditato del “dimorare” in Gesù.
Maria è detta invece, sempre nei nostri mosaici, η χωρα του
αχωρητου (Chora tou achoretou), cioè “Dimora
dell’Incontenibile”. Dio è incontenibile, nessuno può fargli una casa, un tempio dove
farlo abitare, perché egli è infinitamente più grande di qualsiasi “casa” l’uomo
possa anche solo pensare. Ma è Dio stesso a degnarsi di farsi piccolo, di farsi carne e di abitare nel
grembo di Maria, Lui che è, di per sé, incontenibile. E’ Maria la “dimora” di Dio in
terra.
L’artefice della decorazione di San Salvatore in Chora è Teodoro Metochites. Lo vediamo
raffigurato nella lunetta al di sopra dell’ingresso principale, nell’endonartece, in atto di offrire
al Cristo, “dimora dei viventi”, proprio la Chiesa di San Salvatore. L’iscrizione dice di lui:
“Il fondatore, Logoteta del Genikon, Teodoro Metochites”. Logoteta era l’importantissima carica
imperiale di controllore del tesoro bizantino e, perciò, di primo ministro. Il padre di Teodoro,
Giorgio, era stato un fautore della riunificazione della Chiesa latina e della Chiesa greca, che era
finalmente avvenuta al II Concilio di Lione, nel 1274. Erano stati l’imperatore di Costantinopoli Michele
VIII da un lato - che non vedeva, con lungimiranza, altra salvezza per l’impero se non la riunificazione
con la Chiesa latina - ed il papa Gregorio X dall’altro a volere questa unione, con il concorso del re di
Francia, poi proclamato Santo, Luigi IX. Realmente gli intenti dei Papi del tempo erano, fondamentalmente, quello
della liberazione della Terra Santa e quello del ristabilimento della pace religiosa con l’Oriente
cristiano, dopo lo scisma del 1054 e la crociata del 1204. Per un po’ questo atteggiamento riuscì a
frenare Carlo d’Angiò che, invece, voleva marciare su Costantinopoli e farne un suo possesso. Il
Concilio di Lione, purtroppo, pur giungendo a buon fine, con le firme di unione del Gran Logoteta a nome
dell’Imperatore, e dei rappresentanti del Patriarcato di Costantinopoli, in realtà fu subito avversato
in Oriente, perché ormai era forte il risentimento anti-latino e, dopo alcuni anni, ininfluente anche in
Occidente quando morì l’italiano Gregorio X e gli succedette Martino IV, francese, che sembrò
schierarsi apertamente per le posizioni angioine. Così, presto, coloro che erano stati favorevoli
all’unione furono esiliati e, fra di essi, anche Giorgio, con il figlio Teodoro Metochites. Solo nel 1290,
l’imperatore Andronico II prese come suo funzionario Teodoro, nonostante le posizioni paterne.
Teodoro divenne Gran Logoteta nel 1321 e resse la carica fino al 1328 quando l’avvento al trono di
Andronico III, avversario di Andronico II, portò alla confisca dei suoi beni e, nuovamente,
all’esilio. Due anni dopo gli fu concesso di tornare nella capitale, come monaco. Visse così in San
Salvatore in Chora, dove morì e fu sepolto nel 1332.
Una ipotesi che propongo è questa: la presenza iconografica dei SS.Pietro e Paolo proprio ai lati
dell’ingresso della navata nell’endonartece, sotto la lunetta che raffigura Teodoro dinanzi al
Cristo, potrebbe essere un segno di questo legame profondo con Roma, sostenuto dalla famiglia del Logoteta.
Il programma iconografico dei mosaici di San Salvatore è quello di presentare l’evento
dell’Incarnazione: come Maria sia divenuta la “dimora” di Dio e come, attraverso di lei, il
Figlio di Dio, il Cristo, sia divenuto nella carne la “dimora” dei viventi. Possiamo seguire la
narrazione dei mosaici a partire dall’endonartece, nelle campate di sinistra. Si succedono le vicende della
nascita e della vita di Maria, poi quelle della nascita e dell’infanzia di Cristo, fino agli eventi della
vita pubblica del Signore. Probabilmente la storia del Signore, in particolare la Passione e la Resurrezione, era
narrata poi nell’interno, ma questa parte è andata distrutta. All’interno della Chiesa è
rimasta, infatti, solo la rappresentazione della Koimesis, della “dormizione” della Madonna. Il filo
della narrazione intreccia i testi evangelici canonici e gli eventi narrati dai vangeli apocrifi. Vediamo in
primo luogo le due cupole dell’endonartece, una all’estremità sinistra e l’altra a quella
destra, con la genealogia di Gesù. Cominciamo con quella di destra: vediamo il Cristo al centro, poi
disposti in due cerchi concentrici, nella zona superiore la discendenza da Adamo a Noè (Gen 5.), Adamo,
Abel, Set, Enos, Kenan, Maalaleèl, Iared, Enoch, Lamech, poi da Noè a Terach, padre di Abramo
(Gen11,10ss.), Sem, Iafet, Arpacsad, Selach, Eber, Peleg, Reu, Serug, Nacor, Terach (vi ho dato i nomi secondo la
più comune traduzione di Genesi della CEI, per noi italiani; i nomi sono leggermente diversi in Lc3, 34-38,
inoltre alcuni nomi sono omessi), infine i nomi dei tre patriarchi, Abramo, Isacco, Giacobbe. Nella zona
inferiore, invece, la discendenza di Giacobbe con i suoi 12 figli (Gen 35,23-26. Ruben, Simeone, Levi, Giuda,
Zabulon, Issacar, Dan, Gad. Aser, Neftali, Giuseppe, Beniamino) ed altri. Notiamo subito almeno una
particolarità, che ci ricorda che siamo in Oriente: Adamo schiaccia con il suo piede il serpente,
avendo in mano l’albero della vita. Nella versione greca dei LXX non c’è il famoso pronome
“illa” della versione di Girolamo, la Vulgata – “lei ti schiaccerà la testa”
– che ha portato la tradizione latina a leggere in Gen 3, la profezia di Maria. E’ la stirpe di Adamo
a cui viene annunziata la vittoria sul male (ma certo essa si compirà solo in Maria e nel suo Figlio
Unigenito!).
Nell’altra cupola, all’altro estremo dell’endonartece, vediamo invece la discendenza regale di
Gesù. Al centro la Madre di Dio, con il suo Bambino e, nella zona superiore, i re della casa di Davide, da
Davide a Salatiel (Mt1,6-12) fino alla distruzione di Gerusalemme: Davide, Salomone, Roboamo, Abia, Asaf,
Giosafat, Ioram, Ozia, Ioatam, Acaz, Ezechia, Manasse, Amos, Giosia, Ieconia, Salatiel. Nella zona inferiore sono
invece rappresentati coloro che hanno profetizzato e prefigurato l’Incarnazione: Melchisedek, Mosè,
Aronne e Cur, Giosuè, Samuele, Anania, Azaria e Misaele, Daniele, Giobbe.
Partendo proprio da questa cupola, possiamo ora seguire nei mosaici delle diverse campate, la storia di Maria
prima e di Gesù poi:
Endonartece
I campata da sinistra
Il sacerdote respinge al Tempio l’offerta di Gioacchino
Gioacchino sulla montagna prega perché gli nasca un figlio
Annunciazione fatta ad Anna della nascita di Maria
Incontro di Anna con Gioacchino
II campata da sinistra
Nascita di Maria
La famiglia di Maria
Presentazione di Maria al tempio, da parte dei genitori
Benedizione di Maria da parte dei sacerdoti
I primi sette passi di Maria bambina
Presentazione al Tempio di Maria bambina
Maria riceve la lana purpurea per tessere il velo del tempio
Preghiera di Zaccaria, capo dei giudici davanti alle dodici verghe, per scegliere il futuro marito di Maria
Consegna della verga germogliata come segno del fidanzamento di Maria con Giuseppe
Giuseppe porta a casa sua la Maria Vergine
Annunciazione a Maria al pozzo
III campata da sinistra
Angelo che dà da mangiare il pane a Maria
Esonartece
I campata da sinistra
Un angelo annuncia in sogno a Giuseppe la nascita di Gesù
Visitazione
Partenza per Betlemme
La Sacra famiglia in viaggio
Giuseppe e Maria davanti al governatore di Siria per il censimento
nella cupola, forse, Gesù fra i dottori
II campata da sinistra
La nascita di Gesù Cristo
Ritorno della sacra famiglia dall’Egitto a Nazaret
Gesù adolescente condotto a Gerusalemme
Giovanni Battista rende testimonianza a Gesù
Battesimo
Tentazioni del diavolo
IV campata da sinistra
I tre Magi a cavallo sulla strada per Gerusalemme
I tre re magi in udienza dal re Erode
Fuga di Elisabetta e di Giovanni inseguiti da un soldato
V campata da sinistra
Erode interroga i rabbini sul luogo della nascita di Gesù
Madri in lutto per la strage degli innocenti
VI campata da sinistra
Il re Erode ordina l’uccisione dei bambini
La strage degli innocenti
Gesù guarisce un paralitico
Gesù guarisce l’emorroissa
Seconda guarigione di un paralitico
Gesù guarisce una moltitudine di infermi
L’incontro di Gesù al pozzo con la donna samaritana
Di nuovo endonartece
IV campata da sinistra
Gesù guarisce la suocera di Pietro
Gesù guarisce un lebbroso
Gesù guarisce un sordomuto
Gesù guarisce una donna che chiede di essere guarita
Gesù guarisce i due ciechi di Gerico
III campata da sinistra
Il miracolo delle nozze di Cana
La moltiplicazione dei pani
Solo alcune note di lettura. Innanzitutto la centralità delle nozze di Cana e della moltiplicazione dei
pani, proprio nella campata dinanzi all’ingresso principale – come anche la raffigurazione
dell’angelo che da’ da mangiare il pane a Maria. Sono immagini che richiamano il sacrificio
eucaristico, il motivo per il quale si entra nella chiesa, e sono, insieme, immagini di Cristo che da il cibo,
nella sua dimora, perché vi si possa vivere ed abitare.
Altre particolarità ci riportano alle tradizioni tipiche della Chiesa bizantina. Molti episodi sono
conosciutissimi anche in Occidente, poiché risalgono ai vangeli apocrifi, come tutta la vicenda dei genitori
di Maria, Gioacchino ed Anna, dalla sterilità della coppia, alla preghiera di Gioacchino, rifiutata nel
Tempio, ma accolta da Dio stesso – basti vedere la Cappella degli Scrovegni di Giotto dove tutta la storia
è narrata con cura – o ancora come l’episodio del sorteggio delle verghe per la designazione del
marito di Maria. Altri, invece, non lo sono, come la prima annunciazione a Maria, che avviene al pozzo di
Nazareth – la tradizione ortodossa divide in due parti l’annunciazione, situando la prima parte alla
fontana del villaggio e la seconda nella casa della Madonna. Ancora è tipicamente bizantina la presenza
dei primi quattro figli di Giuseppe, nati da un suo primo matrimonio, conclusosi con la morte della moglie e
la vedovanza di Giuseppe. E’ questa la spiegazione orientale ai brani evangelici che fanno riferimento ai
fratelli di Gesù. La tradizione latina privilegia, invece, l’interpretazione dell’espressione
“fratelli” come semplice designazione dei parenti prossimi di Gesù, come è usuale in molti
passi dell’Antico Testamento (ad esempio, Lot, nipote di Abramo, è chiamato “fratello”).
Entrambe le tradizioni fanno così salva, con due diverse possibili ricostruzioni, la filiazione unigenita
di Maria, affermata a ragione dalla fede.
Se ci spostiamo ora a destra, possiamo entrare nel Parekklesion (“cappella a fianco della
chiesa”), costruzione che si fa risalire direttamente a Teodoro Metochites. Probabilmente era pensato
proprio come luogo della sua sepoltura che, effettivamente, deve aver avuto luogo qui. Ma non dobbiamo
dimenticare che la Chiesa, che preesisteva a Teodoro, era nota come custodia dei corpi di grandi santi che erano
qui venerati.
Se la tradizione vuole che il monastero di San Salvatore in Chora sia stato il rifugio ed il luogo di accoglienza
dei monaci della regione palestinese che venivano a Costantinopoli, da quando, per primo, vi fu ospitato San
Saba (439-532), il fondatore di Mar Saba nel deserto di Giuda, il suo essere punto di riferimento fu
confermato quando, nel corso delle lotte iconoclaste vi fu confinato il Patriarca Germano I (715-730) e
quando nel secolo successivo si trasferirono qui gli iconoduli palestinesi Michele Sincello ed i suoi discepoli,
Teofane e Teodoro "hoi Graptoi" ("gli Scritti", per via dei dodici trimetri ingiuriosi - composti di pugno
dall'Imperatore Teofilo, da essi sbugiardato in una disputa dottrinale - che erano stati marchiati a fuoco sulla
loro fronte). Le reliquie di S.Teofane Graptos qui custodite furono preda dei crociati, dopo il 1204, e se ne
persero le tracce.
Tutta l’iconografia del Parekklesion ci parla di resurrezione e vita eterna.
Nell’abside vediamo la discesa di Gesù agli Inferi, secondo la tipica rappresentazione
bizantina. Aperte le porte degli inferi, calpestate le porte che impedivano la resurrezione e le chiavi con le
quali i morti erano imprigionati, legato e gettato a terra ormai impotente il Maligno, Cristo può prendere
per mano Adamo ed Eva – e con essi tutti i morti – e condurli alla resurrezione. Tutti gli uomini
delle generazioni precedenti sono rappresentati, santi, re, profeti, con in testa Giovanni Battista a sinistra ed
Abele, il primo dei morti nella storia biblica, a destra.
Subito vicino vediamo le raffigurazioni degli episodi evangelici che prefigurano la resurrezione finale: la
resurrezione della figlia di Giairo e la resurrezione di Lazzaro.
Se facciamo qualche passo indietro vediamo gli affreschi dedicati al Giudizio universale. Ecco il tempo
della storia che finisce – vediamo il cielo che si arrotola, secondo il testo di Ap6,14: “Il cielo si
ritirò come un volume che si arrotola e tutti i monti e le isole furono smossi dal loro posto”.
E’ il tempo che, come dice S.Paolo, ha ormai “ammainato le vele”, è giunto in porto, ha
raggiunto la sua meta finale e scompare per lasciare il posto all’eternità. Vediamo il mendicante
Lazzaro nel grembo di Abramo e l’uomo ricco (“Epulone”) tra le fiamme dell’inferno. I
beati salgono in paradiso. Un serafino è vicino alla porta del Paradiso per custodirla e, attraverso di
essa, primo dopo il Cristo, è già passato il “buon ladrone”, mezzo nudo, con la sua croce
in spalla.
Ancora più indietro altre scene veterotestamentarie sono prefigurazioni del momento in cui Dio sarà
tutto in tutti e gli uomini potranno vivere la piena comunione con la Trinità: ecco alcune figure che
trasportano l’arca dell’alleanza, ecco la scala di Giacobbe e Giacobbe stesso che lotta con
l’angelo, ecco Mosè presso il roveto ardente, ecco Aronne ed i figli che portano doni votivi
all’altare. Infine, secondo la vediamo la raffigurazione di una profezia di Isaia, l’angelo che batte
gli assiri davanti a Gerusalemme, segno della difesa della Gerusalemme celeste, ormai invincibile.
I santi fanno corona agli eventi della salvezza. Sotto la discesa agli Inferi di Cristo nell’abside,
troviamo le splendide figure di 6 padri della Chiesa: S.Atanasio, S.Giovanni Crisostomo, S.Basilio,
S.Gregorio il Teologo (Gregorio di Nazianzo), S.Cirillo d’Alessandria (colui che preparò il Concilio
di Calcedonia affermando l’unità secondo l’ipostasi).
Nei quattro pennacchi più indietro la rappresentazione di 4 innografi (scrittori di inni sacri):
S.Teofane Grapto, del quale abbiamo già parlato, S.Cosma il Melode (sec.VIII), S.Giovanni Damasceno, anche
lui di Mar Saba, S.Giuseppe l’Innografo (sec.IX).
In particolare S.Giovanni Damasceno (660-750 ca) fu grande difensore delle immagini, delle icone, durante
il primo periodo iconoclasta. Fu anche il primo cristiano del quale si siano conservate considerazioni scritte
sull’islam. Figlio di una famiglia che fu al servizio del califfo del tempo, con grandi
responsabilità, lavorò come suo amministratore fino al 725, quindi si ritirò in monastero.
Giovanni Damasceno descrive l’islam in un grande capitolo della sua opera De Aeresibus, definendolo
“un’eresia simile a quella ariana” (Gesù non è Dio, ma è solo uomo), e chiamando
i musulmani “figli di Agar” e non figli di Abramo, poiché è dalla schiava di questi che
nacque Ismaele. Giovanni commenta poi Gal. 4,21-31: non basta essere figli di Abramo, ma bisogna arrivare a
riconoscere il Cristo
Questa scheda vuole fornire solo alcuni dati sparsi per invitare ad una conoscenza più approfondita del
patrimonio architettonico bizantino di İstanbul e non ha alcuna pretesa di completezza. Basti pensare che,
secondo studi recenti, nel periodo di massimo splendore Costantinopoli vantava la presenza di circa 450 chiese e
di 340 monasteri. Molti dati sono tratti dal sito Constantinopolis di Tommaso Braccini, visitabile
all’indirizzo:
http://www.geocities.com/Athens/Acropolis/5022/constan1.htm
La prima delle Chiese a Costantinopoli fu quella dei Santi Apostoli, edificata dallo stesso Costantino.
Era dedicata ai Dodici Apostoli, di ciascuno dei quali era presente un'icona corredata da un epigramma
esplicativo. Sulla lunetta della porta principale era presente un altro epigramma, nel quale erano descritte le
morti degli apostoli (Cod. Laur. K.34):
"Il popolo di Alessandria mette a morte Marco. / Matteo dorme il grande sonno della vita. / Roma vede Paolo morir
di spada. / Filippo sconta la stessa morte di Pietro. / Bartolomeo muore soffrendo sulla croce. / Una croce
strappa alla vita anche Simone. / Il vano Nerone crocifigge Pietro in Roma. / Da morto e da vivo vive Giovanni. /
In pace Luca è morto, alla fine. / Gli uomini di Patrasso crocifiggono brutalmente Andrea. / Un coltello
tronca i percorsi di Giacomo. / In India uccidono Tommaso con le lance". Costantino la concepì come suo
mausoleo funebre e vi si fece seppellire. Anche Giustiniano fu qui sepolto e così la maggior parte degli
imperatori e dei patriarchi fino all’XI secolo.
Nel 356 o 357 vi furono traslate le reliquie di S.Andrea apostolo, di S.Luca e di S.Timoteo. Successivamente
anche quelle di S.Gregorio di Nazianzo, detto il Teologo, e di S.Giovanni Crisostomo. Nel 1204 i crociati
profanarono la Chiesa, asportando tutti gli oggetti preziosi. In un primo momento il conquistatore di
Costantinopoli, Maometto II, permise, nel 1454, a Gennadio Scolario, il patriarca da lui designato (fortemente
avverso agli accordi di Ferrara-Firenze), di insediarvi la sede patriarcale. Nel 1461 demolì, invece, la
struttura e vi costruì la Moschea Fatih Mehmet Camii, per esservi sepolto.
La Chiesa della Panaghìa delle Blacherne, il più celebre luogo di culto della Vergine a
Costantinopoli, fu costruita al tempo di Pulcheria negli anni 450-453. La fama di questa chiesa nacque durante
l'assedio avaro-persiano di Costantinopoli (626), quando la salvezza della città fu attribuita
all'intercessione della Vergine, da allora definita "Blachernitissa" e raffigurata in una celebre icona
(dove ha le braccia alzate in segno di preghiera, e lo sfondo è occupato dalla cinta muraria). Nel 944
furono posti nel suo parekklesion il sacro Mandylion di Edessa e la lettera di Abgar. Alle reliquie si
aggiunsero anche altri oggetti ritenuti il mantello, il velo e la cintura della Vergine.
Un incendio nel 1434 ed i saccheggi turchi fecero scomparire per sempre la chiesa delle Blacherne. Una piccola
chiesa ortodossa, di recente costruzione, ricorda ora il luogo dell’antica.
Il Monastero di Cristo Akataleptos è ora convertito in moschea. Durante l'occupazione latina di
Costantinopoli la sua chiesa era stata riconsacrata a S. Francesco di Assisi.
Il Monastero di S. Giorgio ai Mangani, dopo la caduta di Costantinopoli, fu abbattuto ed i suoi materiali
impiegati nella costruzione di un serraglio.
La Chiesa d Sant'Eufemia all'Ippodromo fu distrutta alla conquista turca (il sarcofago di Eufemia è
attualmente in possesso del patriarcato ecumenico). La maggior parte delle sue rovine è stata
definitivamente demolita nel 1951, per far posto al Palazzo di Giustizia di Istanbul.
La chiesa attuale Zoodochos Pege è una ricostruzione ottocentesca (l’edificio originale era
scomparso già nel sedicesimo secolo); vi sono seppelliti molti Patriarchi.
Pare che la chiesa di Santa Teodosia vada identificata con la moschea attualmente nota come Gul
Camii. Era il katholikòn del monastero dedicato alla santa omonima, che venne martirizzata durante le
persecuzioni iconoclaste. Un gruppo di soldati di Leone III stava rimuovendo la grande icona di Cristo posta
sopra la Chalke (porta d'ingresso al Sacro Palazzo). Alcune pie donne, tra cui Teodosia, tentarono di impedire
l'azione; lei stessa, in particolare, tirò giù dalla scala l'ufficiale che stava eseguendo l'ordine,
uccidendolo. I soldati infuriati decapitarono le donne, ed uccisero Teodosia trapassandole il collo con un corno
d'ariete. Il nome turco "Gul Camii" significa "Moschea delle rose". Secondo una tradizione, il giorno della presa
di Costantinopoli era appunto la festa di S.Teodosia, ed una congregazione di donne stava celebrando la santa
all'interno della chiesa, decorata per l'occasione con festoni di rose. A quanto riferisce lo storico Ducas, gli
invasori turchi trucidarono barbaramente sul posto tutte le devote.
La chiesa dei Santi Teodori è oggi quasi unanimemente identificata con la moschea "Kilise
Camii".
Il Monastero di Costantino Lips (Panachrantos) è quasi unanimemente identificato con la moschea
Fenari-Isa Camii.
La chiesa della Panaghìa Mouchliotissa fu donata da Maometto II all'architetto greco Cristodulo (che
aveva progettato la moschea sorta sopra i Santi Apostoli), e per questo è rimasta ortodossa fino ai nostri
giorni.
Del Monastero del Myrelaion sopravvive al giorno d'oggi solo il katholikòn, tramutato in moschea
(Bodrum Camii), originariamente dedicato alla Theotòkos.
Il Monastero della Pammakaristos fu sede del Patriarcato dal 1456 al 1587, quando il sultano Murat III
convertì la chiesa in moschea (Fethiye Camii), per commemorare la conquista della Georgia e
dell’Azerbaigian.
La Chiesa del Monastero di Cristo Pantepoptes fu convertita in moschea poco dopo la conquista, prendendo
il nome di Eski Imaret.
Nel Monastero di Cristo Pantokrator Manuele Comneno (1143-1180) traslò da Efeso la Pietra
dell'Unzione, sulla quale si diceva che il corpo di Gesù fosse stato preparato per la sepoltura. Vi fu
trasferita da Tessalonica anche la famosa icona di San Demetrio. Durante l'occupazione latina il monastero cadde
in mano ai Veneziani; questo spiega perché ancor oggi i suoi antichi beni (tra cui la famosa Pala d'Oro) e
le reliquie sono conservati nella basilica di San Marco. Attualmente noto come Zeyrek Camii, o Mollazeyrek
Camii (Moschea di Zeyrek).
Il katholikòn del Monastero di San Giovanni Battista in Trullo fu trasformato in moschea nel
1520.
Pare che nel Monastero dei SS. Sergio e Bacco alloggiassero gli inviati papali, ed officiasse il clero
latino risiedente in città. In origine il katholikòn era sontuosamente decorato, ma dei mosaici a fondo
d'oro e dei marmi pregiati non resta traccia sotto la massiccia intonacatura risalente alla trasformazione in
moschea (1506-1512). Tra l'altro qui era conservato il cranio di S.Giovanni Crisostomo, ora a Firenze.
Il Monastero di S.Giovanni Battista di Studios per larga parte della sua storia fu il monastero
più importante di Costantinopoli, fecondo centro di cultura, e baluardo dell'Ortodossia, specie nel periodo
iconoclasta. Fu fondato dal patrizio Studios nel 463 (secondo alcuni 447), che vi stabilì monaci "Akoimetoi"
("Insonni"), che celebravano, alternandosi, un'innodia perpetua.
Tra i vari personaggi famosi del monastero, oltre Teodoro di Studios, è da ricordare Eutimio, che
compilò il primo typikon (regolamento) per il monte Athos.
Tra le tante reliquie che erano qui conservate (quasi tutte trafugate durante l'occupazione latina) si ricordano
i teschi di S.Giovanni Battista, di suo padre Zaccaria e di S.Teodoro. Verso il 1500 avvenne la conversione in
moschea.
Il testo che segue è tratto dal volume “Melania la benefattrice” di T.Špidlík,
ed.Jaca Book, Milano, 1996, pagg.127-135. Per ulteriori notizie sulla santa, cfr. i testi nella sezione Santa
Melania del nostro sito www.gliscritti.it
Il sacerdote-biografo a cui si fa riferimento nel testo è probabilmente Geronzio.
Arrivò una lettera dallo zio... Era un personaggio noto, con un nome dalle belle cadenze: Rufio
Antonio Agrippino Volusiano. Aveva fatto una carriera rapida: ancora giovane divenne proconsole in
Africa dove, negli anni 411-412, corrispondeva con Agostino su temi della mistica cristiana. Ma era un interesse
puramente accademico: rimase pagano ed un suo amico, parimenti pagano, Rutilio Namaziano, gli dedicò il suo
poema di propaganda anticristiana.
Quali furono le sue relazioni con Melania? Sembra che durante il soggiorno a Tagaste ella non lo incontrò.
Del resto, egli tornò presto nella «grande Roma», ebbe un posto nel palazzo imperiale, divenne
prefetto della città negli anni 428-429, prefetto della Pretura e infine, nel 436, venne inviato
dall’imperatore Valentiniano III a Costantinopoli, dove morì il 6 gennaio 437. La sua missione nella
«nuova Roma» fu breve, ma molto importante.
La «pia imperatrice» Eudocia aveva deciso di dare in matrimonio sua figlia a Valentiniano III:
ciò doveva rafforzare l’unione tra le due parti del grande impero romano. Lo zio di Melania aveva
giocato un ruolo importante nella definizione degli accordi come ambasciatore d’Occidente.
Proprio da Costantinopoli aveva scritto alla nipote: il suo modo di vivere a Gerusalemme preoccupava sempre la
famiglia. E Melania? Per quanto affermasse che la sua rinuncia al mondo fosse già perfetta, ricevuta
la lettera, desiderò vedere Volusiano. Forse presentiva la morte di lui come prossima, ed era preoccupata
del suo persistere nel paganesimo. Gli sembrò necessario, quindi, andare a parlargli a
Costantinopoli.
Come faceva di solito, Melania si consultò con i «santi uomini», chiedendo preghiere, e
partì. Uscendo dalla città di Gerusalemme, venne accompagnata, per un tratto di strada, dai vescovi, il
clero e le vergini. Era un onore speciale che veniva tributato solo agli alti funzionari. Un piccolo gruppo la
seguì per il resto del viaggio: tra questi vi fu il suo biografo che, tra l’altro, ci racconta un
«miracolo» che avvenne a Tripoli di Siria, per mezzo delle preghiere di Melania.
È un episodio che noi, di solito, non annoveriamo tra i fatti miracolosi, ma che fu, per i compagni di
Melania, una bella «uscita dai guai». Per poter viaggiare nelle carrozze di stato occorreva un
biglietto speciale che i compagni di Melania non avevano. Il funzionario statale, di nome Messala, rifiutò
quindi bruscamente di dar loro i cavalli. Melania rimase rattristata, e, trovandosi alloggiata nel
martyrium di san Leonzio, fece una fervida preghiera al santo chiedendo il suo aiuto. Improvvisamente
Messala cambiò parere, chiese di vedere la «gran dama», la «serva di Dio», e
inginocchiatosi chiese perdono per la sua ostinazione, prestò i cavalli e non volle accettare alcun
compenso. Giustificò il suo cambiamento di parere affermando che lui e la moglie erano stati ammoniti in
sogno dal martire Leonzio di soddisfare la richiesta di Melania. Ella commentò il fatto laconicamente:
«Abbiate coraggio, il nostro viaggio è nelle mani di Dio». Prima di arrivare a Costantinopoli,
Melania si fermò a Calcedonia sul luogo del martirio di santa Eufemia e confessò che qui avrebbe
ricevuto l’incoraggiamento ad entrare con fiducia nella «nuova Roma». A Costantinopoli Melania
era attesa. Lo zio aveva avvertito i dignitari di corte e così il ciambellano Lauso si occupò
subito dell’ospite e del suo seguito. Ella si affrettò a vedere lo zio: come aveva presentito, egli
era caduto seriamente malato. L’incontro fu commovente, tutti piansero. L’uomo di mondo e di carriera
fissò la nipote con i poveri vestiti, stanca del viaggio ed esaurita dall’ascesi. Aveva sentito molto
parlare del suo modo di vivere, ma non riusciva a credere che si sarebbe umiliata a tal punto. E disse a
Geronzio: «Non sai, sacerdote, con quali tenerezze è stata educata, più degli altri della nostra
famiglia. Ed ora, come è ridotta, a quale austerità e a quale povertà». Melania non perse
tempo ed approfittò subito dell’occasione per dirgli: «Hai sentito dalla mia bocca, mio
signore, che io ho disprezzato la gloria, le ricchezze e la facilità di questa vita per i beni eterni che ci
aspettano. L’autore e demiurgo dell’universo li concederà a coloro che credono sinceramente in
lui. Ti prego, quindi, accedi al bagno dell’immortalità affinché anche tu che hai goduto dei beni
temporali, ottenga i beni eterni. Liberati dagli inganni dei demoni, i quali bruceranno nel fuoco eterno quelli
che obbediscono loro».
Volusiano non osò interromperla, ma non era pronto a convertirsi. Altri avevano già provato, ma senza
successo.
Questa volta, invece, Melania vide che bisognava agire senza indugio. E voleva cercare l’aiuto di persone
più importanti e riferire il caso agli stessi imperatori. Il malato lo seppe e ne fu costernato.
Scongiurò, quindi, la nipote di non farlo, cercando di temporeggiare, allo stesso modo di altre precedenti
occasioni. A Costantinopoli, in quel tempo, i pagani non erano più ben visti nelle alte cariche, ma
normalmente non si faceva pressione su di loro. Con gli imperatori non si poteva mai sapere. Ed ecco la sua
difesa: «Prego la tua santità, non togliermi il dono del libero arbitrio che Dio ci ha dato
dall’origine. Sono pronto a lavarmi dalle immondizie delle mie numerose mancanze. Ma se lo facessi per
ordine degli imperatori, vi sarei costretto con la forza e perderei il beneficio della mia decisione».
Contro tali argomentazioni era difficile agire. Melania tuttavia ebbe paura che Volusiano volesse solo guadagnar
tempo per non decidere nulla. Non andò dagli imperatori, ma chiese aiuto al patriarca Proclo, eminente
personaggio difensore dell’ortodossia contro il nestorianesmo, figura umanamente dotata di gran
tatto e delicatezza. Il patriarca si recò a trovare Volusiano facendo finta che fosse di sua iniziativa. Ma
il vecchio diplomatico non si fece ingannare: sospettò immediatamente che dietro vi fosse Melania. In
ogni caso, non poteva rifiutare un colloquio con Proclo.
La conversazione fu lunga e ad alto livello culturale, e alla fine Volusiano dichiarò: «Se a Roma
avessimo tre uomini come il signor Proclo, non vi sarebbe più un pagano». Ma non si decise ancora a
farsi battezzare.
Cosa poteva fare di più Melania? Era dispiaciutissima. Aumentò suppliche e mortificazioni, e la
sua preghiera, come in altre occasioni, si rivelò decisiva. Il racconto che il biografo inserisce a questo
punto troverà difficilmente credito presso i lettori di oggi, ma è grazioso e ci piace
trascriverlo. Il diavolo, nemico della verità, si accorse che stava per perdere la battaglia per
l’anima di Volusiano a causa di Melania. Prese, quindi, le apparenze di un giovane negro, si avvicinò
a Melania e le disse: «Fino a quando, con i tuoi propositi, vuoi distruggere le mie speranze? Sappi
che io sono capace di indurire il cuore di Lauso e degli imperatori. E al tuo corpo procurerò tali sevizie
che dovrai temere per la tua vita: così starai zitta per forza».
Melania avrebbe confidato al sacerdote-biografo le minacce del demone e subito dopo venne colpita da un
terribile male all’anca. Rimase per sei giorni con dolori inesprimibili. Il settimo sembrò
l’ultimo perché stava per morire. Pervenne la notizia che lo zio rischiava di andarsene da questa
vita.
Allora la donna ordinò: «Portatemi da lui prima di morire». Temevano, però, di
toccarla. Poiché insisteva: «Portatemi da mio zio, altrimenti morirò di dolore», si
procurarono un lettuccio per condurvela, tuttavia tergiversavano a causa delle sue condizioni. Seppero intanto
che Volusiano stesso aveva chiesto che Melania andasse da lui, ma, sentendo che era gravemente malata, aveva
mandato una certa Eleutheria, dama di corte nutrice dell’imperatrice Eudocia. Inoltre, aveva manifestato il
desiderio di essere battezzato. E ciò era stato fatto.
La notizia venne trasmessa a Melania, che subito dopo cominciò a muovere senza fatica il piede, in
precedenza immobile come un pezzo di legno. Si alzò, andò da sola al palazzo imperiale,
salì le scale e si mise a sedere accanto al letto dello zio, lo consolò, gli fece portare per tre volte
la santa comunione e, nella festa dell’Epifania, «lo inviò in pace verso il Signore».
Il ringraziamento che ella pronunciò è stato così riassunto dal biografo: «Come è
grande, o Signore, la sollecitudine della tua bontà anche verso una sola anima! Hai fatto venire Volusiano
da Roma fin qui e ci hai messo in cammino da Gerusalemme per la salvezza di una sola anima che ha vissuto
tutto il tempo nell’ignoranza». La notizia che Melania rimase a Costantinopoli per partecipare
all’ufficio del quarantesimo giorno dalla morte dello zio è preziosa per lo studio della liturgia. Si
tratta di un uso orientale che qui viene attestato come antico.
È implicito che, ristabilitasi dalla malattia, la nostra edificò molti con le sue conversazioni, tra
cui l’imperatore Teodosio e l’imperatrice Eudocia con la loro figlia Eudossia.
L’imperatrice voleva recarsi a Gerusalemme per adempiere a un voto; fu necessario l’intervento
di Melania per ottenere il consenso del marito, che lo concesse, ma non per l’immediato.
Era febbraio e faceva molto freddo; ciò non impedì a Melania ed al suo gruppo di mettersi in
cammino.
Il ritorno da Costantinopoli a Gerusalemme fu più duro di quanto ci si poteva aspettare. Il nostro gruppo
era partito nella seconda metà di febbraio e sperava di godere il primo sole di marzo. Invece
quell’anno fece ancora neve abbondante e molto freddo. I vescovi della Galazia e della Cappadocia (regioni
che dovettero attraversare) testimoniavano di non ricordare un inverno simile. Negli alloggi cercarono di
scaldarsi come meglio potevano. Melania invece, «dura come acciaio», non voleva assolutamente
ridurre i suoi digiuni. Il suo cuore era pieno di gioia e di gratitudine per il successo della sua missione a
Costantinopoli. A chi voleva offrirle qualche cibo particolare, rispondeva: «Più che mai abbiamo
bisogno di fare penitenza per rendere grazie a Dio, maestro di tutte le cose, per le grandi meraviglie che
ha compiuto in me». E quando gli altri si lamentavano per il freddo, aveva un metodo per aiutarli:
intensificare la preghiera. Così si dimentica ciò che ci fa soffrire. Come al solito, prendevano
contatto con i vescovi nelle varie città dove alloggiavano. Questi volevano offrir loro
ospitalità fin quando fosse cessato il freddo intenso, ma in tal caso non sarebbero arrivati a
Gerusalemme per la Settimana Santa, e quindi si proseguiva. Il gruppo, infatti, arrivò in tempo, e con
grande consolazione di Melania partecipò alle cerimonie pasquali per poi riprendere la sua vita
normale. Questo significava per Melania occuparsi di nuovo dei suoi due monasteri. E lo fece con grande premura.
Chiese che costruissero un piccolo oratorio affinché, dopo la sua morte, vi si potesse celebrare la liturgia
per lei e i suoi cari, dato che «qui si sono posati i piedi del Signore». La costruzione venne
realizzata in breve tempo perché, ormai, tutti attuavano volentieri ciò che ella desiderava. Frattanto
venne annunciato che l’imperatrice Eudocia, in viaggio verso Gerusalemme, aveva già raggiunto
Antiochia. Andarle incontro? Melania esitava: «Se vado verso di lei con questa mia umile tenuta, temo,
attraversando la città, di farle fare brutta figura. Se al contrario resto qui, la mia condotta può
essere interpretata come orgoglio».Alla fine decise di mettersi in cammino così com’era, con le
sue povere vesti. Perché vergognarsi dell’umile giogo di Cristo? Arrivò sino a Sidone, dove prese
alloggio nel santuario di san Foca, che si credeva fosse originariamente il luogo dove abitava la donna
cananea, la quale disse al Signore che anche i cagnolini mangiano dal tavolo dei loro padroni. Nessuno
ostacolò Melania nell’accostarsi all’imperatrice. Nonostante le umili vesti era ormai nota ai
funzionari e tutti le portavano rispetto. Peraltro chiedeva udienza per una degna causa: ringraziare
l’imperatrice per i suoi favori a Costantinopoli. Anche il gesto di Eudocia fu nobile. Appena vide Melania
la ricevette con ogni riguardo, come sua madre spirituale. E lo disse pubblicamente: «Ora adempio un
doppio voto al Signore: venerare i luoghi sacri e vedere la mia madre. Ho desiderato, infatti, vedere la
tua santità mentre servi il Signore ancora nella carne». Il voto di Eudocia è attestato anche
dalla storiografia ufficiale: costituiva il ringraziamento per il felice esito del matrimonio della figlia,
destinata a divenire imperatrice della «grande Roma». Il desiderio di vedere ancora in vita
Melania ci fa supporre che i colloqui avuti con lei a Costantinopoli l’avessero profondamente
impressionata. Non si definisce tanto facilmente «madre spirituale» una persona incontrata per
una volta. Di questo onore pubblicamente reso beneficiarono entrambi i monasteri eretti da Melania. Le vergini si
sentirono lusingate quando vennero chiamate dall’imperatrice «care sorelle» ed i monaci in
sua presenza deposero le reliquie nell’altare della cappella appena edificata su richiesta di Melania.
Il biografo, che ama raccontare i miracoli accaduti in quel periodo, ne riferisce uno anche per questa occasione.
Al demonio non era certo gradito l’onore attribuito all’umile Melania e cercava di
contrastarlo. Causò una distorsione al piede dell’imperatrice, mentre si preparava a salire sul Monte
degli Ulivi per assistere alla deposizione delle reliquie nell’altare. Ma la preghiera di Melania e delle
sue vergini operò la guarigione da questo dolore e impedì uno spiacevole incidente nella festa.
Ad ogni modo l’imperatrice, che si trattenne ancora a Gerusalemme, colse l’occasione per altri
colloqui con la madre spirituale; poi tornò soddisfatta a Costantinopoli mentre Melania riprendeva la sua
ascesi abituale.