Sapete che “bizantino” è termine recente, coniato dalla storiografia tedesca
nell’ottocento, riprendendo l’antico nome di Bisanzio, la piccola cittadina greca sulla quale
Costantino edificò poi Costantinopoli nel 330 e che oggi si chiama Istanbul. Quella che noi chiamiamo
“civiltà bizantina” non ha mai usato questo nome per autodefinirsi. Gli arabi chiamano ancora
gli ortodossi i “rum”, i “romani”, perché l’impero di Costantinopoli si
considerava, a ragione, la continuazione dell’impero romano. Prima della fondazione di Costantinopoli le
città importanti della zona orientale dell’Impero, nel territorio dell’odierna Turchia, erano
Nicomedia, oggi İzmit, che era la capitale pre-costantiniana e, appunto, Nicea, che oggi si chiama
İznik.
Nicomedia era la città più importante della Bitinia, favorita dal suo porto che la collegava,
attraverso il golfo, al mare aperto. Ci passeremo vicino, attraversando con il traghetto proprio il suo golfo,
per risparmiare tempo e godere del panorama. Nicomedia fu elevata al rango di capitale della parte
orientale dell’impero da Diocleziano. E, proprio a Nicomedia, emanò il famoso editto del 24
febbraio 303, con il quale iniziò l’ultima ed una delle più feroci persecuzioni dei cristiani
in età imperiale. Nicea era città più riparata, sulle sponde del lago che abbiamo appena
costeggiato. A Nicea ha risieduto Plinio il Giovane, il famoso scrittore del Rescritto a Traiano. Sotto i romani
egli era il procuratore della Bitinia, nome appunto di questa regione. Avete visto il lago, lungo la strada.
Plinio il Giovane aveva proposto a Traiano di aprire un canale per arrivare da qui al mare.
Costantino aspettò inizialmente per decidere dove far sorgere la sua capitale, perché una zona
così bella sarebbe stata ideale se si fosse aperto un canale navigabile; ma esso non fu mai realizzato.
Scelse allora l’antica Bisanzio e la chiamò Costantinopoli e questa città, pian piano,
emerse, per la sua posizione geografica - ed ora anche politica - superiore a tutte le altre. Nicea, però,
ed anche Nicomedia, conservarono a lungo la loro importanza. Per un certo periodo Costantino visse qui tra Nicea
e Nicomedia. E proprio a Nicomedia riceverà, in punto di morte, il battesimo, da un vescovo
“semi-ariano”, appunto Eusebio di Nicomedia. Costantino, infatti, a differenza di quanto racconta la
leggenda in relazione al suo essere stato battezzato da papa Silvestro disceso dal monte Soratte per guarirlo
dalla lebbra, si era solo avvicinato al cristianesimo, senza arrivare alla scelta definitiva del battesimo. Solo
alla fine della vita, mentre stava per morire, ricevette il battesimo.
Due avvenimenti importantissimi della Chiesa antica riguardano Nicea: i due concili ecumenici che si sono svolti
in questa città. Noi ci troviamo esattamente nella Chiesa di S.Sofia nella quale si svolse il
secondo dei due concili di questa città. Questa Chiesa è, infatti, una Chiesa del periodo
giustinianeo, quindi successiva al 527. Giustiniano è l’ultimo imperatore che unisce Oriente ed
Occidente. E’ quello, ben noto in Italia, per la città di Ravenna, anche se in realtà
Giustiniano mai vi giunse; vi risiedette, invece, il suo rappresentante, il generale Belisario, che
strappò Ravenna ai goti, riunificando, appunto, Oriente ed Occidente e dando vita all’esarcato di
Ravenna. Ricorderete tutti i famosi mosaici di S.Vitale con Giustiniano, Teodora, il vescovo Massimiano e,
probabilmente, Belisario fra i grandi dignitari. Di Giustiniano abbiamo già parlato ad Aphrodisias, in
merito alla sua opera legislativa e parleremo ancora ad İstanbul.
Dunque in questa Chiesa di S.Sofia venne celebrato nel 787 il Concilio II di Nicea, che è il VII
ecumenico, di cui vi parlerò tra poco.
Invece il Niceno I si tenne nel palazzo imperiale di questa città. Ce ne racconta esplicitamente
S.Atanasio, nella sua opera De decretis. Atanasio venne qui, come diacono del suo vescovo Alessandro di
Alessandria e fu testimone oculare dei fatti. Possiamo immaginarlo passeggiare per le vie di questa città.
Ed anche Eusebio di Cesarea fu presente al Concilio.
Costantino, una volta divenuto imperatore, avvertì che vi erano discussioni tra i cristiani e
convocò lui stesso il Concilio, come imperatore, perché fossero risolte. Vennero tutti i vescovi
dell’Oriente e parteciparono anche dei delegati da Roma, in rappresentanza del papa, in particolare il
famoso Ossio, vescovo di Cordova. Non so indicarvi esattamente dove si trovasse il palazzo imperiale, nel quale
si tenne il I Concilio di Nicea, ma, tra le case che noi vediamo, è stato celebrato, nel 325, quel
Concilio che è il primo ecumenico. Ancora una volta non ci interessa tanto il luogo preciso, ma la visione
d’insieme della città nella quale si svolsero fatti tanto importanti per la vita della Chiesa.
Cos’è un Concilio? Un concilio è un incontro dei vescovi, è il convenire dei
vescovi per prendere delle decisioni. Ecumenico è il termine che si usa per indicare che in quel Concilio
sono presenti vescovi che rappresentano tutta la Chiesa (da “ecumene”, che significa in greco
“tutta la terra”). In conseguenza di ciò, le sue decisioni valgono per tutta la
cattolicità della Chiesa e non valgono solo per l’una o l’altra regione. Per questa
ecumenicità necessita, chiaramente, l’avallo della Chiesa di Roma, del Papa, che può essere
fisicamente presente o, comunque, come nel caso appunto di Nicea, approvare l’operato del Concilio. I primi
sette concili – Nicea I è il primo e Nicea II è il settimo - sono riconosciuti dai cristiani
di tutto il mondo: cattolici, ortodossi, protestanti. Tutti fanno riferimento a questi sette concili. Tutti e
sette si sono svolti in città che oggi appartengono alla Turchia e sono stati celebrati prima della grande
divisione della Chiesa. Voi sapete che quest’anno, il 2004, ricorre appunto il 950° anniversario dello
scisma d’Oriente che è del 1054 quando ci furono le scomuniche reciproche fra Costantinopoli e Roma
(meglio, fra due vescovi di allora e non fra le due Chiese, lo vedremo poi) poi revocate da papa Paolo VI e dal
patriarca Athenagoras, ma senza che questo portasse ancora alla comunione pienamente ristabilita, per la quale
non cessiamo di pregare.
Una premessa ancora: che cos’è un dogma?
Un dogma è un’affermazione teologica certa e vera. La dichiarazione di questa verità viene
fatta, innanzitutto, per escludere delle posizioni erronee. La teologia sa che Dio è così grande
che le nostre parole per parlare di Lui sono ben poca cosa. Questo è importante: noi dobbiamo avere il
senso del mistero di Dio. Così come lo abbiamo del mistero della persona, anzi molto di più! Come
una persona è infinitamente più grande di quello che noi pensiamo di lei - guai a dimenticare
questo, guai alle persone che si fanno un’immagine dell’altro, se la mettono in tasca e dicono:
“Ecco, io so come pensa quello”. Se questo è vero di una persona, figuriamoci quanto questo
è vero di Dio. Tertulliano diceva una frase bellissima: “Si comprehendis, Deus non
est”, se tu pensi di aver compreso Dio, allora non è Dio! Se pensi di saperlo spiegare
chiaramente vuol dire che non è Dio, che è, invece, un tuo giocattolo.
Allora il dogma non è l’illusione di capire tutto di Dio. Il dogma nasce dal fatto che Dio stesso ha
detto delle cose di se stesso, rivelandosi. E, sebbene Dio sia infinitamente più grande, però
quello che noi affermiamo a partire dalla rivelazione del mistero che Lui stesso ci ha donato è
sicuramente vero. Ed è talmente vero che chi nega quell’affermazione dogmatica non è
cristiano. La teologia vive sempre di una tensione fra l’affermare che Dio è infinitamente
più grande di ciò che diciamo di Lui (questo è ciò che si chiama l’aspetto
apofatico della teologia) e l’affermare al contempo che ciò che si dice di Dio è vero
(è l’aspetto detto catafatico della teologia). Se di Dio non sapessimo niente saremmo dei pazzi a
credergli. Dico sempre che, se non conosciamo chi è Dio, non dobbiamo credergli! Proprio la rivelazione di
Cristo ci mostra come l’idea di una divinità sia una realtà estremamente pericolosa,
finché non viene purificata dalla presenza di Cristo. Cristo è così necessario che, senza di
Lui, il credere ad una divinità può essere mortifero! Avviciniamoci a comprenderlo con
l’esempio dell’amore umano. L’innamoramento nasce così, senza che ancora si conosca
l’altro, ma l’amore - che è cosa ben diversa dall’innamoramento - è possibile
solo conoscendo l’altro. L’amore non è cieco – è l’innamoramento che
è cieco! – l’amore ci vede benissimo, anzi è l’unico atteggiamento che vede
veramente chi è l’altro. Siccome l’amore è l’unica realtà che legge il
cuore dell’altro, solo chi ama sa cosa c’è davvero nell’altra persona. E’ pazzo
uno che si sposa con uno che non conosce. Non si sposa uno senza aver verificato che è una brava persona,
che ha dei valori, che vuole amare a sua volta. L’amore non è irrazionale, come molti pretendono,
anzi è una forma di conoscenza altissima, per certi aspetti molto più grande della
razionalità. In maniera ancora più vera, è solo perché sappiamo chi è Dio che
possiamo amarlo e seguirlo.
La fede cristiana è definita, non è generica e confusa, perché sa di dire delle cose vere su
Dio. E ciò che la fede afferma lo riceve dall’ascolto di ciò che Dio ha detto di sé
nella Sua rivelazione, nella rivelazione di Sé stesso. Non è un’invenzione degli uomini. La
fede cristiana interroga il superstizioso ed il credulone: “Se Dio non ha detto nulla di sé,
perché gli credi? E se fosse cattivo? Se volesse tarpare le ali all’umanità? E se poi facesse
del male agli uomini? Se la morale divina ti distruggesse la vita?” E’ perché noi sappiamo chi
è Dio, poiché si è fatto conoscere in Cristo, che gli possiamo credere. C’è un
rapporto tra la fede e la conoscenza, sebbene poi Dio sia infinitamente più grande di quello che noi ne
conosciamo.
Veniamo allora finalmente al primo concilio di Nicea. I concili nascono di solito, come dicevamo, quando
c’è un problema di fede, quando qualcuno nega un punto essenziale della fede cristiana. In quegli
anni prima del 325 Ario, un prete di Alessandria d’Egitto, aveva cominciato a dire che Gesù
non era Dio. Le sue affermazioni avevano diviso i cristiani che le accettavano o le rifiutavano con veemenza.
Costantino chiamò i vescovi, i vescovi parlarono tra di loro ed, al termine del Concilio di Nicea,
decisero che questa affermazione di Ario non era compatibile con la fede cristiana. Si arrivò così
alla definizione dogmatica: “Gesù è veramente Dio, è della stessa sostanza di
Dio”. Vi leggo il Simbolo niceno, il Credo definito al Concilio primo di Nicea (ricordate che
durante la messa recitiamo il Credo niceno-costantinopolitano, perché il Credo di Nicea è stato poi
integrato con alcune aggiunte nel Concilio primo di Costantinopoli, nel 381, come vedremo ad Istanbul):
Crediamo in un solo Dio,
Padre onnipotente creatore delle cose visibili e invisibili,
e in un solo Signore, Gesù Cristo, Figlio di Dio,
solo generato dal Padre, cioè della sostanza del Padre,
Dio da Dio, luce da luce, vero Dio da vero Dio,
generato non creato, della stessa sostanza del Padre,
per mezzo del quale tutto è stato creato nel cielo e nella terra,
che è disceso dal cielo per noi e per la nostra salvezza,
si è incarnato, si è fatto uomo, ha sofferto, è risuscitato il terzo giorno,
è salito al cielo e verrà a giudicare i vivi e i morti.
E allo Spirito Santo.
Questo testo è importantissimo. Notate le parole “luce da luce”, “Dio da
Dio”, “generato non creato, della stessa sostanza del Padre”. Qui è molto bello
rilevare il fatto che i cristiani di allora non ebbero paura di usare la terminologia filosofica - noi sappiamo
bene che nei Vangeli non c’è scritto “della stessa sostanza”.
I Padri conciliari di Nicea capirono che la cultura, la grecità, non erano da disprezzare, che
l’essere credenti non si opponeva al pensiero teologico e filosofico. Dissero con parole moderne quello che
Giovanni aveva detto nel prologo, anche lui utilizzando già il termine Logos che derivava dal pensiero
filosofico e non solo dalla Scrittura veterotestamentaria:
In principio era il Verbo, e il Verbo era presso Dio, e il Verbo era Dio. Egli era in principio presso Dio:
tutto è stato fatto per mezzo di lui, e senza di lui niente è stato fatto di tutto ciò che
esiste (Gv1,1-3).
Il Concilio riprende questa affermazione biblica di Giovanni, forse scritta durante la permanenza giovannea ad
Efeso, ed afferma che il Verbo è Dio. Non è una creatura, non è come le creature. Il Padre
ed il Figlio erano dall’inizio, prima della creazione del mondo, prima del tempo
nell’eternità, ed è per mezzo del Figlio “che tutto è stato creato nel cielo e
sulla terra”. E’ nel Figlio che siamo stati pensati. Siamo a sua immagine, a immagine di Lui che
è l’unico generato dall’eternità, mentre noi siamo creati.
E’ proprio per questo suo proclamarsi come Dio che Gesù viene processato e ucciso. Nei vangeli
vediamo emergere continuamente la coscienza del Cristo di non essere semplicemente un servitore, un profeta, un
inviato, ma di essere il Figlio di Dio. Le espressioni dei sinottici - “Aveva ancora uno, il figlio
prediletto. Lo inviò per ultimo dicendo: Avranno rispetto per mio figlio”, “Perché
Davide lo chiama Signore?”, “Quando il Figlio dell’Uomo verrà nella gloria del Padre suo
con gli angeli santi”, “Chi perderà la propria vita per causa mia, la salverà”,
ecc. ecc. – e del vangelo di Giovanni - “Io e il Padre siamo una cosa sola”, “Io
sono”, “Chi vede me vede il Padre”, ecc. – ci spalancano dinanzi il mistero
dell’identità assolutamente unica di Gesù. Egli non è semplicemente un uomo, per
quanto di una statura morale e spirituale più elevata degli altri uomini. Non è un
“illuminato”, ma è la “luce stessa” come annuncia la Trasfigurazione. Egli
è l’unico figlio, come annuncia il Padre nel Battesimo: “il mio figlio, colui nel quale mi
sono compiaciuto” (e non possiamo non sentire qui riecheggiare le parole tipologiche del sacrificio di
Isacco, “Prendi il tuo figlio, il tuo unico figlio, quello che ami”). E fin dai primi versetti del
testo più antico del Nuovo testamento, la prima lettera ai Tessalonicesi, la Chiesa ha ripetuto,
contemplato e annunciato la pari dignità del Padre e del Figlio: “Grazia a voi e pace da Dio Padre e
dal Signore Gesù Cristo” (1Tes1,1-2). Nicea riprende tutto questo e lo presenta con parole che
penetrano nel mistero.
Vedremo che tutti i primi concili ruotano intorno alle quattro grandi affermazioni teologiche che si richiamano
reciprocamente: il Cristo è Dio, il Cristo è uomo, poiché il Cristo è Dio, Dio
è Trinità, il Cristo è uno. In ognuna di queste affermazioni sta tutta la bellezza e
l’assoluta novità del cristianesimo. Ma voglio già qui accennare a qualcosa che commenteremo
meglio poi. Poiché Cristo è Dio, ecco l’annuncio del mistero di amore della Trinità:
non tre dei, ma l’unità dell’unico Dio, Padre, Figlio e Spirito. Perché se il Figlio
non fosse Dio, neanche il Padre potrebbe essere Padre. Dio diverrebbe Padre solo al momento della creazione degli
uomini. Un’immagine che voglio suggerirvi è quella che i Padri hanno usato per parlare della
Trinità - per dire che Dio è unico, ma nella relazione di amore delle tre Persone - quella del
mare, dell’oceano. L’oceano continuamente fluisce e rifluisce. A chi appartiene l’oceano? Alle
correnti dell’ovest o a quelle dell’est? La sostanza divina, come il mare, è donata totalmente
e continuamente. Fluisce e rifluisce da un luogo all’altro. Il Padre è Dio in quanto donante la
divinità. Il Figlio è Dio in quanto è Colui che la riceve e la restituisce di nuovo. Mentre
noi diamo, ma tratteniamo sempre qualcosa per noi, nel mistero di Dio, non c’è nulla che il Padre
non dia, e non c’è niente che il Figlio non riceva e non doni di nuovo in cambio. Una sola quindi
è la sostanza divina, ma le persone sono diverse. Dio non è Padre come noi. Gli uomini diventano
padri ad un certo punto della loro vita, solo quando hanno dei figli, ma c’è un periodo della loro
vita nella quale non sono padri. Noi diciamo che Dio è sempre Padre e che il Figlio è sempre
Figlio. Il Figlio non è nato ad un certo punto del tempo come avviene per gli uomini, perché se non
ci fosse stato il Figlio, neanche il Padre sarebbe stato Padre.
Eccoci ad adoperare, con Nicea, dei termini che sono sì derivati dalla filosofia, dal pensiero umano -
così come tutte le parole bibliche sono parole umane! – ma in una prospettiva totalmente nuova che
solo la Rivelazione poteva indicare. Aristotele, il grandissimo Aristotele, aveva detto che c’è una
causa ultima, una sostanza sussistente, l’assoluto, Dio, ma non ne poteva affermare né
l’amore, né la personalità. Non poteva capire chi era Dio, sebbene arrivava ad affermarne
l’esistenza. Noi professiamo l’amore delle Tre Persone, nell’unica sostanza divina,
nell’unità dell’unico Dio, perché il Signore, il Figlio, ce lo ha mostrato. Noi
cristiani affermiamo non solo che esiste un Dio – e che è unico - ma che questo Dio è amore.
Questo è ciò che Nicea afferma, dichiarando che il Figlio è della sostanza del Padre e non
è una creatura come le altre, ma è generato dal Padre dall’eternità. Nicea traduce nei
termini dell’epoca ciò che la rivelazione di Gesù aveva annunciato in mezzo agli uomini:
“Io e il Padre siamo una sola cosa... chi vede me, vede il Padre”.
Ne possiamo intuire ancora una volta anche le immense conseguenze spirituali. Perché l’uomo soffre,
se non ama? Perché l’uomo non capisce niente della sua vita, se non si dona? Noi diciamo:
“Perché il Padre, nel crearci, guardava al Figlio”. Perché Dio è amore, è
Trinità. Ogni uomo sa che se non ama è un “fallito”. Noi cristiani sappiamo qual
è la ragione di questo. Ho studiato quest’anno uno dei “miti” del nostro tempo: Vincent
Van Gogh. E’ straordinario come avesse coscienza, pur nel suo malessere, che per dare senso alla propria
vita non gli fosse sufficiente fare quadri di una bellezza unica. Era stato da giovane pastore protestante e
cercava un senso alla vita, desiderava una famiglia, un figlio, costruire nell’amore la sua casa ed, in
fondo, la pace della comunione con la fede che aveva perso. Perché era ad immagine di Dio!
Parlare del II concilio di Nicea ci fa fare ora un passo avanti, nella nostra riflessione. Ci sono cinque
concili fra il I ed il II di Nicea, che è il settimo. Dobbiamo arrivare al 787 ed, in quell’anno,
proprio nella Chiesa di S.Sofia nella quale siamo, si svolge questo altro importantissimo evento ecclesiale.
Siamo ai tempi della crisi iconoclasta. Alcuni monaci, per certi versi giustamente - siccome la gente era
un po’ bigotta, aveva una venerazione esagerata per le immagini, al punto che le immagini sacre diventavano
quasi più importanti della fede stessa - cominciarono a distruggere tutte le immagini, tutte le icone,
quelle della Trinità, quelle di Cristo, quelle della Madonna e dei Santi. Ma la loro polemica – e
qui era il problema di fondo – nasceva dall’affermazione teologica che, poiché Dio era
incommensurabile, infinito, era eresia ridurlo in una rappresentazione, in una immagine: questo era offendere la
sua stessa gloria, era bestemmiarlo. Fare un’immagine di Dio voleva dire – secondo la loro posizione
- renderlo piccolo, immiserirlo, addirittura compiere un atto di idolatria. Se tu poni in una Chiesa –
dicevano - un’immagine, una statua, un mosaico, un’icona, sei un idolatra, perché non veneri
più la purezza di Dio, ma l’immagine. Ci fu una lotta terribile. Il Concilio si riunì qui in
questa chiesa e difese la visione cristiana che è bellissima.
I vescovi dissero che non solo è possibile rappresentare con immagini Dio, ma che è una conseguenza
necessaria del dogma. Se noi non facessimo le immagini, ciò equivarrebbe a dire che Dio non si è
mai fatto carne.
Ecco alcuni passaggi del testo conciliare:
Il santo, grande e universale concilio, per grazia di Dio e per decreto dei pii e cristiani nostri imperatori
Costantino ed Irene, sua madre, riunito per la seconda volta nella illustre metropoli di Nicea in Bitinia nella
santa chiesa di Dio del titolo di Sofia, seguendo la tradizione della chiesa cattolica, definisce quanto segue...
Noi intendiamo custodire gelosamente intatte tutte le tradizioni ecclesiastiche, sia scritte che orali. Una di
queste, in accordo con la predicazione evangelica, è la pittura delle immagini, che giova senz'altro a
confermare la vera e non fantastica incarnazione del Verbo di Dio, e ha una simile utilità per noi.
Infatti, le cose, che hanno fra loro un rapporto di somiglianza, hanno anche senza dubbio un rapporto scambievole
di significato.
In tal modo, procedendo sulla via regia, seguendo in tutto e per tutto l'ispirato insegnamento dei nostri
santi padri e la tradizione della chiesa cattolica riconosciamo, infatti, che lo Spirito santo abita in essa noi
definiamo con ogni accuratezza e diligenza che, a somiglianza della preziosa e vivificante Croce, le venerande e
sante immagini sia dipinte che in mosaico, di qualsiasi altra materia adatta, debbono essere esposte nelle sante
chiese di Dio, nelle sacre suppellettili e nelle vesti, sulle pareti e sulle tavole, nelle case e nelle vie;
siano esse l'immagine del Signore e Dio e Salvatore nostro Gesù Cristo, o quella della immacolata Signora
nostra, la santa madre di Dio, degli angeli degni di onore, di tutti i santi e pii uomini. Infatti, quanto
più continuamente essi vengono visti nelle immagini, tanto più quelli che le vedono sono portati al
ricordo e al desiderio di quelli che esse rappresentano e a tributare ad essi rispetto e venerazione. Non si
tratta, certo, secondo la nostra fede, di un vero culto di latria, che è riservato solo alla natura
divina, ma di un culto simile a quello che si rende alla immagine della preziosa e vivificante croce, ai santi
evangeli e agli altri oggetti sacri, onorandoli con l'offerta di incenso e di lumi, com'era uso presso gli
antichi. L'onore reso all'immagine, infatti, passa a colui che essa rappresenta; e chi adora l'immagine, adora la
sostanza di chi in essa è riprodotto...
Se qualcuno non ammette che Cristo, nostro Dio, possa esser limitato, secondo l'umanità, sia
anatema.
Se qualcuno rifiuta che i racconti evangelici siano rappresentati con disegni, sia anatema.
Se qualcuno non saluta queste (immagini), (fatte) nel nome del Signore e dei suoi santi, sia anatema.
Se qualcuno rigetta ogni tradizione ecclesiastica, sia scritta che non scritta, sia anatema.
Il fatto che si possa dipingere Cristo deriva dal fatto che Cristo è veramente venuto in mezzo a noi.
Quindi non solo è possibile, ma è necessario. Guai ai cristiani che non usano le immagini!
Il Concilio dice, certo, che non bisogna adorare le immagini, le quali sono sempre solo un mezzo. Il cristiano
deve sapere che l’immagine è un mezzo, non è Dio. Guai allora a chi scambia un quadro per Dio
stesso. Ma che esista una icona, un affresco, una rappresentazione della storia della salvezza, questo è
una cosa meravigliosa. Capite bene che, come il Concilio primo di Nicea è stato uno dei capisaldi della
teologia cristiana, così il secondo Concilio di Nicea è un crocevia della storia dell’arte
orientale ed occidentale. Se il Concilio non avesse detto questo, noi non avremmo Giotto, Michelangelo,
Caravaggio, Roublev. La cultura europea occidentale ed orientale si basa, dal punto di vista pittorico, su due
pilastri: la cultura classica del paganesimo greco-romano ed il cristianesimo. Entrambi affermano che è
doveroso dipingere l’uomo ed è doveroso dipingere Dio. Le culture ebraiche ed islamiche sono,
invece, aniconiche perché vi è fatto esplicito divieto della rappresentazione non solo di
Dio, ma anche della figura umana. Il cristianesimo, invece, afferma che proprio perché Dio si è
fatto uomo, anche l’uomo può essere dipinto, rappresentato, anche nella sua nudità!
Michelangelo può fare il Giudizio Universale! Senza questo Concilio noi non avremmo tutta la storia
dell’arte così come la conosciamo, cioè come arte che vive della pittura e della scultura non
di sole piante o animali, non di sole espressioni della natura, ma anche della storia sacra e della storia umana.
Le storie bibliche, le storie dei santi, Dio, Cristo, l’uomo stesso – e non solo con il Rinascimento,
ma come scelta di fondo! - tutto questo è bene che sia dipinto perché è a gloria di Dio. Dio
è diverso dalla sua rappresentazione iconografica, ma quest’ultima è, per il cristianesimo,
necessaria e meravigliosa.
Per chi è più interessato, do anche delle note storiche sullo svolgimento della crisi
iconoclasta.
La crisi iconoclasta avviene in due periodi distinti. Un primo periodo precede il 787 e si chiude con il
Concilio che chiude la questione dal punto di vista dogmatico. Però seguì al Concilio una nuova
serie di imperatori contrari alle immagini, di modo che la crisi riesplose alla morte dell’imperatrice
Irene (813-842): è questo il secondo periodo della crisi.
Ma procediamo con ordine. La questione degli iconoclasti comincia intorno al 726, quando il Patriarca di
Costantinopoli, Germano di Costantinopoli, richiama all’ordine due vescovi dell’Asia minore che
vietano le icone. L’imperatore Leone III l’Isaurico sposa le dichiarazioni dei due vescovi contrari
alle immagini e chiede a tutti di firmare una dichiarazione sul rifiuto delle immagine nel 730. Gli alti
funzionari che rifiutano vengono perseguitati ed, infatti, il patriarca Germano viene deposto e sostituito.
Il papa, venuto a conoscenza a Roma dei fatti, attacca Leone III e prende posizione a favore degli iconoduli
(“quelli che venerano le icone”).
I papi romani di questo periodo sono Gregorio II e Gregorio III. Tra l’altro la nostra crisi si interseca
con un fatto che avrà conseguenze importantissime per la storia dell’Occidente: la nascita dello
Stato della Chiesa che comincia di fatto nel 754. Noi sappiamo benissimo che la donazione di Costantino
è un falso, ma, se chiedete a qualcuno come sia nato lo Stato della Chiesa, pochi sanno rispondervi, al di
là di generiche affermazioni talvolta anticlericali. E’ proprio negli anni della crisi iconoclasta
che, indebolendosi sempre più l’impero bizantino in Occidente, il Papato si rivolge ai Franchi.
Quando essi strappano ai Longobardi le terre che questi avevano tolte ai Bizantini – cioè
all’impero “romano” - le consegnano al Papa. Questo avviene nel 754, con la Dieta di Kiersy,
nella quale i Franchi decidono di affidare a Roma le ex-terre bizantine (l’Esarcato di Ravenna, la
Pentapoli ed il Ducato Romano).
Sarà poi nell’800, proprio durante la crisi iconoclasta, che il famoso Carlo Magno diventerà
imperatore cristiano, incoronato dal Papa in S.Pietro. Questo che a noi sembra un avvenimento ordinario,
sarà avvertito, invece, in Oriente come un grande strappo, perché per gli imperatori bizantini
l’Impero Romano non era mai caduto e l’imperatore di Costantinopoli era il legittimo imperatore
romano. I nostri manuali di storia dicono che l’impero romano finisce nel 476, con Romolo Augustolo, ma, in
realtà, esso termina solo con la fine di Costantinopoli, per mano dei Turchi.
Torniamo alla crisi iconoclasta. I papi si schierano a favore di Germano di Costantinopoli e dei monaci che sono
favorevoli all’uso delle immagini. La dinastia degli imperatori contrari alle immagini si chiama isaurica.
Appunto nel Concilio di Nicea II, nel 787, avviene la vittoria dogmatica di coloro che venerano le immagini e si
dichiara che quello che gli isaurici hanno affermato è sbagliato: non solo si possono venerare le
immagini, ma è “necessario” farlo. Nell’815, dopo alcuni anni di tranquillità,
inizia la dinastia amoriana. Leone V diventa imperatore e riafferma l’iconoclastia. Inizia così
il secondo periodo della crisi. L’imperatore afferma nuovamente che le immagini vanno distrutte.
Allora il patriarca, con i vescovi e i monaci che gli sono fedeli e che si oppongono all’imperatore,
vengono allontanati. Tra questi monaci c’è Teodoro lo Studita, appunto monaco del monastero
di Studion. Anche lui viene allontanato perché è favorevole alle immagini. Proprio in questi anni
cresce l’importanza del Monte Athos, perché i monaci che sono favorevoli alle immagini vanno
a rifugiarsi nella penisola del monte Athos, la terza penisola della Calcidica, nell’attuale Grecia.
Segue a Leone V un nuovo imperatore, Michele II, iconoclasta moderato, poi un terzo imperatore, Teofilo,
iconoclasta stretto. Solo Teodora ripristina l’uso delle icone, alla morte del marito Teofilo, ma prima
chiede che lui sia assolto. Viene quindi assolto il marito post-mortem e lei ottiene la vittoria definitiva che
viene sancita l’11 marzo 843 dentro S.Sofia di Costantinopoli con la solenne liturgia di restaurazione.
Quella festa diventa, nella chiesa greca, la festa della vittoria dell’ortodossia, celebrata ancora oggi
con il nome di “domenica dell’ortodossia”. Si celebra la definitiva vittoria della
venerazione delle immagini: non solo si può parlare di Dio, ma lo si può vedere raffigurato,
perché Dio si è fatto uomo. Nel 843 era patriarca Metodio, a Costantinopoli, e fu lui a celebrare
in quell’anno, per la prima volta, la grande festa.
La visita di Nicea e la vicinanza di Nicomedia ci portano a soffermarci sulla prima legge contro i cristiani
emanata nell’impero romano. Prima del Rescritto di Traiano, le persecuzioni anti-cristiane erano
state episodiche e, soprattutto, mai inquadrate in uno specifico quadro giuridico. La situazione cambia, quando
Plinio il Giovane - Gaio Cecilio Plinio Secondo (61-112/113), nipote dello storiografo Plinio il Vecchio,
allievo del famoso retore Quintiliano, avvocato, consul suffectus e governatore della Bitinia e del Ponto –
si rivolge all’imperatore Traiano, per chiedere lumi sul comportamento da tenere relativamente ai
cristiani. Il suo epistolario è suddiviso in 10 libri e l’ultimo di essi raccoglie il carteggio
ufficiale con l’imperatore Traiano. Queste lettere risalgono agli anni 111-113, gli anni del governatorato
in Bitinia, e sono perciò scritte proprio da Nicea e Nicomedia.
Così scrive Plinio, proprio negli anni nei quali Tacito, suo amico, redigeva il suo racconto sulla
persecuzione cristiana del 64 ad opera di Nerone:
E’ per me un dovere, o signore, deferire a te tutte le questioni in merito alle quali sono incerto. Chi
infatti può meglio dirigere la mia titubanza o istruire la mia incompetenza?
Non ho mai preso parte ad istruttorie a carico dei Cristiani; pertanto, non so che cosa e fino a qual punto si
sia soliti punire o inquisire. Ho anche assai dubitato se si debba tener conto di qualche differenza di anni; se
anche i fanciulli della più tenera età vadano trattati diversamente dagli uomini nel pieno del
vigore; se si conceda grazia in seguito al pentimento, o se a colui che sia stato comunque cristiano non giovi
affatto l’aver cessato di esserlo; se vada punito il nome di per se stesso, pur se esente da colpe, oppure
le colpe connesse al nome.
Nel frattempo, con coloro che mi venivano deferiti quali Cristiani, ho seguito questa procedura: chiedevo loro
se fossero Cristiani. Se confessavano, li interrogavo una seconda e una terza volta, minacciandoli di pena
capitale; quelli che perseveravano, li ho mandati a morte. Infatti non dubitavo che, qualunque cosa
confessassero, dovesse essere punita la loro pertinacia e la loro cocciuta ostinazione. Ve ne furono altri
affetti dalla medesima follia, i quali, poiché erano cittadini romani, ordinai che fossero rimandati a
Roma. Ben presto, poiché si accrebbero le imputazioni, come avviene di solito per il fatto stesso di
trattare tali questioni, mi capitarono innanzi diversi casi.
Venne messo in circolazione un libello anonimo che conteneva molti nomi. Coloro che negavano di essere
cristiani, o di esserlo stati, ritenni di doverli rimettere in libertà, quando, dopo aver ripetuto quanto
io formulavo, invocavano gli dei e veneravano la tua immagine, che a questo scopo avevo fatto portare assieme ai
simulacri dei numi, e quando imprecavano contro Cristo, cosa che si dice sia impossibile ad ottenersi da coloro
che siano veramente Cristiani.
Altri, denunciati da un delatore, dissero di essere cristiani, ma subito dopo lo negarono; lo erano stati, ma
avevano cessato di esserlo, chi da tre anni, chi da molti anni prima, alcuni persino da vent’anni. Anche
tutti costoro venerarono la tua immagine e i simulacri degli dei, e imprecarono contro Cristo.
Affermavano inoltre che tutta la loro colpa o errore consisteva nell’esser soliti riunirsi prima
dell’alba e intonare a cori alterni un inno a Cristo come se fosse un dio, e obbligarsi con giuramento non
a perpetrare qualche delitto, ma a non commettere né furti, né frodi, né adulteri, a non
mancare alla parola data e a non rifiutare la restituzione di un deposito, qualora ne fossero richiesti. Fatto
ciò, avevano la consuetudine di ritirarsi e riunirsi poi nuovamente per prendere un cibo, ad ogni modo
comune e innocente, cosa che cessarono di fare dopo il mio editto nel quale, secondo le tue disposizioni, avevo
proibito l’esistenza di sodalizi. Per questo, ancor più ritenni necessario l’interrogare due
ancelle, che erano dette ministre, per sapere quale sfondo di verità ci fosse, ricorrendo pure alla
tortura. Non ho trovato null’altro al di fuori di una superstizione balorda e smodata.
Perciò, differita l’istruttoria, mi sono affrettato a richiedere il tuo parere. Mi parve infatti
cosa degna di consultazione, soprattutto per il numero di coloro che sono coinvolti in questo pericolo; molte
persone di ogni età, ceto sociale e di entrambi i sessi, vengono trascinati, e ancora lo saranno, in
questo pericolo. Né soltanto la città, ma anche i borghi e le campagne sono pervase dal contagio di
questa superstizione; credo però che possa esser ancora fermata e riportata nella norma (Epist. X, 96,
1-9).
La lettera ci mostra quale fosse la delicata situazione dei cristiani in quegli anni, ma ci da anche notizie
sulla vita di fede, sul fatto che i cristiani fossero “soliti riunirsi prima dell’alba e intonare a
cori alterni un inno a Cristo come se fosse un dio”. Traiano risponde a Plinio, con un Rescritto che invita
a perseguitare sì i cristiani, ma solo se vengono denunciati in maniera non anonima, solo se qualcuno si
assume la responsabilità di denunciarli:
Mio caro Plinio, nell’istruttoria dei processi di coloro che ti sono stati denunciati come Cristiani,
hai seguito la procedura alla quale dovevi attenerti. Non può essere stabilita infatti una regola generale
che abbia, per così dire, un carattere rigido. Non li si deve ricercare; qualora vengano denunciati e
riconosciuti colpevoli, li si deve punire, ma in modo tale che colui che avrà negato di essere cristiano e
lo avrà dimostrato con i fatti, cioè rivolgendo suppliche ai nostri dei, quantunque abbia suscitato
sospetti in passato, ottenga il perdono per il suo ravvedimento. Quanto ai libelli anonimi messi in circolazione,
non devono godere di considerazione in alcun processo; infatti è prassi di pessimo esempio, indegna dei
nostri tempi (Epist. X, 97).
Il Rescritto traianeo sarà la normativa vigente per gli imperatori immediatamente successivi. Ne troviamo
traccia in scrittori cristiani che presentano l’incongruenza della procedura adottata che ambiguamente non
chiarisce se l’essere cristiani sia o no un crimine. Così, ad esempio, Tertulliano,
nell’Apologetico:
Scopriamo pure che nei nostri confronti è persino proibita l’indagine... Traiano rispose che non
si doveva ricercare questa gente, però la si doveva punire se veniva denunciata. O sentenza apertamente
contraddittoria! Dice che non vanno ricercati, come se fossero innocenti, e comanda che siano puniti, come se
fossero colpevoli. Risparmia ed infierisce, sorvola e punisce. Per qual motivo esponi te stesso alla censura? Se
li condanni, perché allora non li fai ricercare? Se non li ricerchi, perché allora non li
assolvi?... Dunque voi condannate un accusato che nessuno volle si ricercasse, il quale, mi pare, non ha meritato
la pena perché colpevole, ma perché, non dovendo essere ricercato, si è fatto prendere
(Apolog. II, 6-11).