Non risulta dalle nostre fonti che S.Paolo sia mai stato a Laodicea, ma piuttosto che da Efeso abbia mandato
delle persone per l’evangelizzazione sia di Colossi che di Laodicea, che spesso sono citate
insieme.
Cominciamo leggendo Col 2,1ss.:
1Voglio infatti che sappiate quale dura lotta io devo sostenere per voi, per quelli di
Laodicèa e per tutti coloro che non mi hanno mai visto di persona, 2perché i loro cuori
vengano consolati e così, strettamente congiunti nell'amore, essi acquistino in tutta la sua ricchezza la
piena intelligenza, e giungano a penetrare nella perfetta conoscenza del mistero di Dio, cioè Cristo,
3nel quale sono nascosti tutti i tesori della sapienza e della scienza. 4Dico questo
perché nessuno vi inganni con argomenti seducenti, 5perché, anche se sono lontano con il
corpo, sono tra voi con lo spirito e gioisco al vedere la vostra condotta ordinata e la saldezza della vostra
fede in Cristo.
Allora - come vedremo poi a Colossi - questi pensieri gnostici ai quali già abbiamo fatto
riferimento nella riflessione fatta a Hierapolis, si stanno pian piano diffondendo a Laodicea. Ci sono delle
correnti, all’interno delle comunità cristiane sia di Colossi che di Laodicea, che cominciano a
teorizzare tutta una serie di figure angeliche che sarebbero in qualche modo più importanti di
Cristo. Come abbiamo già letto, il presbitero Giovanni diceva, probabilmente a Gerapoli: “Chi va
oltre Cristo, perde il Padre e il Figlio”.
Scrivendo la lettera ai Colossesi, S.Paolo, pensando anche a Laodicea, usa questa espressione bellissima:
“la perfetta conoscenza del mistero di Dio, cioè Cristo”. Già vi ho spiegato ad
Efeso come la parola “mistero”, che compare come termine importantissimo anche nella lettera
agli Efesini, nel linguaggio cristiano non vuol dire “ciò di cui non si capisce nulla”.
Dobbiamo stare attenti quando usiamo questa parola, la parola “mistero”, perché chi non crede
la interpreta così. Se voi parlate con chi non conosce bene il cristianesimo sentirete spesso dire:
“Dio è un mistero? Certo! Perché non ci si capisce niente: è uno, sono tre persone,
ecc.”. In realtà Paolo non parla del mistero in questo senso, ma parla del mistero “che era
nascosto e che è stato rivelato”. Dunque ora è conosciuto! Per aiutare a comprendere questo
faccio sempre l’esempio del mistero dell’intimità e dei segreti delle persone. Perché
una persona è un mistero? Perché non ci si capisce nulla? Oppure perché devi attendere che
lei ti si riveli, per comprendere chi è in realtà?
A me è capitato, a volte, di incontrare persone molto arrabbiate o molto tristi e di avvertire che
c’era un mistero, che c’era un motivo nascosto dietro questi atteggiamenti. Ci capita di sentire che
c’è un problema, ma di non essere in grado di dargli un nome. La persona dinanzi a noi resta un
mistero, ma non perché non è possibile capire niente di lei. E’ un mistero perché solo
quando la stessa persona arriva a dire chi è veramente, qual’è la sua storia, che cosa ha
vissuto, che cosa l’ha resa così - e a volte serve una grande fiducia, serve molto tempo per questo
– solo allora tu capisci perché quella persona è così e così.
S.Paolo usa l’espressione “Dio è un mistero” non per dire che di Dio non si capisce
niente. Per Paolo Dio è un mistero perché solo quando Egli, nella sua libertà, ha voluto
donarci Gesù Cristo, solo allora noi abbiamo conosciuto davvero chi è Dio. Quando Paolo dice
“il mistero di Dio, cioè Cristo”, intende proprio dire che Dio ha tenuto nascosto, fino alla
venuta di Gesù Cristo, il mistero del suo amore, e ce lo ha rivelato nella persona di Cristo. Sapete che
noi parliamo della bellezza della Trinità, perché noi crediamo che Dio non sia solitario. Dio
è nella gioia, nella felicità, nell’amore. Lo era anche prima che esistesse il mondo, anche
prima che esistessero gli uomini! Perché è mistero di tre persone che si amano. La Trinità
è per noi l’annunzio che Dio è comunione, Dio è pienezza di amore.
Qual’è il mistero di Dio? E’ la persona di Cristo. Mai l’uomo avrebbe potuto immaginare
il mistero trinitario di Dio, se Egli stesso non l’avesse rivelato nell’Incarnazione del Figlio. Il
mistero di Dio ha una chiave che permette di penetrarvi all’interno. Ma questa chiave non è nelle
mani dell’uomo. Solo dall’interno, dall’intimità di Dio, dal suo disegno insondabile,
dalla sua infinita libertà, poteva nascere la decisione di aprire all’uomo la conoscenza del
mistero. Dio stesso ha voluto rivelarsi, farsi conoscere. Nessun atto nato dall’uomo avrebbe potuto
permettere questo.
E quando diciamo che l’uomo è fatto ad immagine di Dio, noi diciamo che proprio in questo sta questa
somiglianza: in questa necessità di essere nell’amore, di essere in relazione, ad immagine di come
è la Trinità, che è comunione di amore. Lo vedremo meglio parlando più avanti del I
concilio di Costantinopoli, ma voglio accennarlo già qui. Perché l’uomo ha così
bisogno di amare al punto che se non ama - e non è amato - sente profondamente di aver fallito la propria
vita? Perché avverte che, senza amore, la propria vita non è servita a niente? Noi rispondiamo a
questa domanda: “Perché così è Dio e perché l’uomo porta l’immagine
di Dio. Perché l’uomo è stato pensato così, come Dio è, a sua immagine”.
Dio prima ancora di creare l’uomo era amore in se stesso ed ha manifestato questo amore nella creazione e
ancor di più nella salvezza, mandandoci Gesù Cristo. Per questo l’uomo ha bisogno di amare.
Non perché è guidato dall’istinto della riproduzione, della conservazione della specie, ma
perché è a immagine di Dio. Paolo parlando a Laodicea dice così: “il mistero di Dio,
cioè Cristo”. E’ una frase secca, molto forte.
Al capitolo 4 della lettera ai Colossesi, si parla ancora di Laodicea, ai versi 10 ss.:
10Vi salutano Aristarco, mio compagno di carcere, e Marco, il cugino di Barnaba, riguardo al quale
avete ricevuto istruzioni - se verrà da voi, fategli buona accoglienza - 11e Gesù,
chiamato Giusto. Di quelli venuti dalla circoncisione questi soli hanno collaborato con me per il regno di Dio e
mi sono stati di consolazione. 12Vi saluta Epafra, servo di Cristo Gesù, che è dei
vostri, il quale non cessa di lottare per voi nelle sue preghiere, perché siate saldi, perfetti e aderenti
a tutti i voleri di Dio. 13Gli rendo testimonianza che si impegna a fondo per voi, come per quelli di
Laodicèa e di Geràpoli. 14Vi salutano Luca, il caro medico, e Dema.
Notate che ci sono Marco e Luca con S.Paolo, oltre a Barnaba. Sono fra i suoi grandi collaboratori. Due degli
evangelisti hanno conosciuto S.Paolo – o almeno i loro evangeli si pongono nella loro sfera - e hanno
camminato con lui. Più oltre ancora, così si conclude la lettera ai Colossesi
15Salutate i fratelli di Laodicèa e Ninfa con la comunità che si raduna nella sua
casa.
C’era qui una donna, Ninfa, nella cui casa si radunavano tutti quanti i cristiani.
16E quando questa lettera sarà stata letta da voi, fate che venga letta anche nella Chiesa
dei Laodicesi e anche voi leggete quella inviata ai Laodicesi. 17Dite ad Archippo: «Considera il
ministero che hai ricevuto nel Signore e vedi di compierlo bene».
Quindi questa lettera che Paolo ha scritto agli abitanti di Laodicea è persa, noi non l’abbiamo. Da
questo testo sappiamo però che S.Paolo scrisse una lettera a questa comunità e chiese che quella di
Laodicea fosse letta a Colossi e quella di Colossi fosse letta qui.
18Il saluto è di mia propria mano, di me, Paolo. Ricordatevi delle mie catene. La grazia sia
con voi.
Immaginate che questa lettera - e quella che leggeremo a Colossi – è stata letta qui dove sono
queste rovine, forse a casa di questa Ninfa. Tutti i cristiani di Laodicea si sono radunati e hanno letto questa
lettera ai Colossesi.
Una terza lettera neotestamentaria che è riecheggiata qui è quella alla Chiesa di Laodicea,
contenuta nell’Apocalisse, nella sezione delle lettere inviate alle sette Chiese. Leggiamo il testo di
Ap 3,14-22:
14All'angelo della Chiesa di Laodicèa scrivi:
Così parla l'Amen, il Testimone fedele e verace, il Principio della creazione di Dio:
15Conosco le tue opere: tu non sei né freddo né caldo. Magari tu fossi freddo o caldo!
16Ma poiché sei tiepido, non sei cioè né freddo né caldo, sto per
vomitarti dalla mia bocca. 17Tu dici: «Sono ricco, mi sono arricchito; non ho bisogno di
nulla», ma non sai di essere un infelice, un miserabile, un povero, cieco e nudo. 18Ti consiglio
di comperare da me oro purificato dal fuoco per diventare ricco, vesti bianche per coprirti e nascondere la
vergognosa tua nudità e collirio per ungerti gli occhi e ricuperare la vista. 19Io tutti quelli
che amo li rimprovero e li castigo. Mostrati dunque zelante e ravvediti. 20Ecco, sto alla porta e
busso. Se qualcuno ascolta la mia voce e mi apre la porta, io verrò da lui, cenerò con lui ed egli
con me. 21Il vincitore lo farò sedere presso di me, sul mio trono, come io ho vinto e mi sono
assiso presso il Padre mio sul suo trono. 22Chi ha orecchi, ascolti ciò che lo Spirito dice
alle Chiese.
Vi faccio notare una cosa sola, in breve. Questo testo non va letto solo come un discorso morale
che stigmatizza chi è sempre in mezzo al guado, chi è in una via di mezzo. Qui, di nuovo, come in
Colossesi, si parla sempre di Cristo e del suo popolo. Se il popolo è tiepido, Cristo,
all’opposto, viene definito l’ “amen”, il “testimone fedele e verace”.
E’ perché c’è un altro dinanzi a noi, che noi possiamo avere la forza di desiderare di
non essere tiepidi. Noi non possiamo essere “né carne, né pesce”, perché il
Cristo è stato il “sì” di Dio..
Altrimenti saremmo continuamente pieni di sensi di colpa. Il popolo di questa comunità era ritenuto
tiepido, non aveva forza, non aveva carattere. Però Colui che gli parla è veramente il testimone
fedele e verace, il Cristo, Figlio di Dio. In più: “fedele”,
πιστος, si può tradurre in due modi in greco:
“perseverante” o “degno di fede”. Gesù è veramente fedele, ma
Gesù è anche veramente degno di fede. Se ci ha rivelato il mistero di Dio, bisogna credergli,
perché è degno di fede, perché è l’unico che viene da Dio e nel nome di Dio
rivela e salva. Giovanni vuole allora scuotere questa comunità e dice: “Dinanzi a Gesù Cristo
che è fedele, voi cosa state combinando? Misuratevi con la persona dell’ “amen”, del
sì certo di Dio, della promessa di Dio che si compie, che da promessa diviene ora realtà e
certezza, e vediamo cosa ne viene fuori!”
Questa lettera è stata letta qui, in cima a questo colle. E’ stata indirizzata alla città di
Colossi, che non è ancora scavata. Le sue rovine sono sotto i nostri piedi, ancora coperte di
terra..Immaginiamo proprio qui i cristiani radunati per ascoltare per la prima volta la lettera loro
indirizzata.
Vogliamo riflettere insieme su pochi versetti importantissimi della lettera che ci permettono di capirne la
ricchezza principale. Partiamo da Col 2,9:
9E' in Cristo che abita corporalmente tutta la pienezza della divinità, 10e voi
avete in lui parte alla sua pienezza, di lui cioè che è il capo di ogni Principato e di ogni
Potestà
Questa frase potrebbe essere una frase da ricordare come la sintesi di tutto il pellegrinaggio. E’ un
po’ una frase capitale per capire tutto il Cristianesimo e, se volete, esprime proprio la fede cristiana.
Noi capiamo perché viene rifiutata dal materialismo, da quello comunista o da quello scientista, oppure,
all’opposto, da altre forme religiose spiritualiste dell’estremo Oriente. Perché dice una cosa
apparentemente impossibile, se Dio non l’avesse fatta conoscere: “E’ in Cristo che abita
corporalmente tutta la pienezza della divinità”.
Qui noi capiamo perché l’uomo è come teso continuamente, fra la terra ed il cielo.
Perché da un lato vuole vivere di Dio, dell’Assoluto, d’altro canto ama la vita che Dio gli ha
dato, la creazione opera del Signore, la terra. E l’uomo non riesce a conciliare questa tensione a partire
dal suo pensiero, dalla sua filosofia. Gli manca una chiave per comporre in unità di senso tutto. Alcuni
sistemi – quelli appunto materialisti - hanno scelto solo la terra. Come il marxismo, dicono:
“Non esiste l’eterno. L’unico modo per salvare l’uomo è togliere Dio. Se Dio non
c’è, ecco che l’uomo ha valore”. Perché se Dio c’è, Dio è
nemico dell’uomo, Dio con la sua forza distrugge l’uomo, lo spezza, lo obbliga, lo costringe. Oppure,
altra variante, Dio è inventato dall’uomo, da un determinato periodo economico, per nascondere i
meccanismi materiali che soli hanno forza e valore. Per amare la terra, bisogna dimenticare Dio.
Altre forme scelgono l’altro corno del dilemma. Così, ad esempio, le religioni dell’Estremo
Oriente che affermano, più o meno, che per salvare l’uomo bisogna rendersi conto che
l’umanità, la terra, la materia, tutto questo è solo apparenza.
Consideriamo la dottrina della reincarnazione: una persona passa di corpo in corpo, finché non
capirà che nessun corpo è importante. Solo allora uscirà dal ciclo dannato della
reincarnazione, quando smetterà di desiderare di essere individuata e si troverà – meglio, si
perderà – nel tutto. La grande domanda che io pongo, dinanzi a chi propugna la reincarnazione
è: “Ma, allora, a che serve stare vicino ad un bambino malato di tumore, a una persona che muore, o
gioire per una nuova nascita, se tu devi vivere tante vite? Perché tanta sofferenza, tanta gioia, tanto
impegno? Perché?” Costoro dicono che l’unico modo per trovare la pace è dimenticare la
terra, poiché tutto passa e conta soltanto la nostra unione con l’assoluto.
Qui S.Paolo invece scrive: “E’ in Cristo che abita corporalmente la pienezza della
divinità”, tutto Dio, tutta la pienezza di Dio, è presente in quell’uomo. Ed è
questo che ci fa uscire dal dilemma, che ci conduce ad amare immensamente Dio, in Cristo, e ad amare
immensamente la sua umanità, la sua carne, la sua unicità e, attraverso di essa,
l’umanità e la creazione tutta. La persona umana diviene così una realtà dotata di un
valore enorme. Proprio perché il Figlio di Dio si è fatto uomo, per noi l’uomo ha un valore
enorme, assoluto. Qualsiasi cosa faccia, qualsiasi cosa pensi, la persona umana ha un enorme valore proprio per
questo grandissimo annunzio evangelico. E poi Paolo continua affrontando il problema gnostico, del quale abbiamo
già parlato. Problema gnostico, lo ripetiamo, che ha delle somiglianze - anche se gli gnostici antichi
erano un po’ più colti! – con delle posizioni assunte da autori odierni del New Age. Tanti
sono innamorati di angeli, di locuzioni, di segni strani! Vedete quante persone sono un po’ bigotte,
continuamente legate a queste cose.
S.Paolo non dice che non esistono gli angeli, i principati, le potestà – anzi lo afferma
espressamente - ma ciò che gli sta più a cuore è chiarire che sono sottoposti a Cristo. Se
Cristo non dice una cosa, non possono fare niente, perché sono suoi ministri. Al massimo, possono
essere suoi nemici ed, in questo caso, sono sconfitti dalla sua morte e resurrezione. Noi crediamo profondamente
nell’esistenza degli angeli, ma noi affermiamo che gli angeli sono i servitori di Cristo. A persone come
Rosemary Althea o ad altri personaggi New Age che dicono di parlare con angeli o entità superiori -
seguiti con interesse da tanti - dobbiamo far loro osservare che se veramente fossero angeli quelli che parlano
loro, non potrebbero che dir loro: “Comincia ad andare in chiesa, comincia a confessarti, vai a messa la
domeniche, ama il Papa, soprattutto diventa cristiano”. L’angelo è un servitore di Cristo! La
lettera ai Colossesi annunzia che Cristo è il capo di ogni principato e di ogni potestà. E al
versetto 15 dice:
15Avendo privato della loro forza i Principati e le Potestà ne ha fatto pubblico spettacolo
dietro al corteo trionfale di Cristo.
Esistono gli esseri angelici, esistono le potenze spirituali, ma esse sono poste nel corteo trionfale di Cristo.
Avviene come nell’antichità, quando passava l’imperatore vittorioso: lui è il
trionfatore e tutti gli altri sono le sue prede o sono i suoi sudditi, i suoi soldati, i suoi ministri e
servitori. Subito dopo Col continua, ai versetti 16 e 17:
16Nessuno dunque vi condanni più in fatto di cibo o di bevanda, o riguardo a feste, a
noviluni e a sabati: 17tutte cose queste che sono ombra delle future; ma la realtà invece
è Cristo!
Voi capite: qui è la libertà cristiana dalla legge. Il cristiano dice che ogni comandamento
è importante, ma tutto è funzionale a Cristo. Questo è il principio a partire dal quale noi
interpretiamo la legge. La legge dell’Antico Testamento è utile – essa ha comandato
“sabati e digiuni” - ma noi sappiamo che Cristo ci ha liberati per cui, una volta arrivato Lui, tutte
queste leggi devono essere reinterpretate, rilette, a partire da questo principio nuovo che è la sua
persona. Questo fonda la libertà della vita cristiana. Tutto nell’Antico Testamento, adombra,
prefigura, ma “la realtà è Cristo”. E’ il Figlio la Parola a partire dalla quale
capire tutte le parole sugli angeli, i comandamenti, le prescrizioni cultuali, e così via.
Un secondo testo neotestamentario ha a che fare con questa città di Colossi: è la lettera a
Filemone.
Non è una deutero-apolina, come Colossesi, ma è una delle lettere sicuramente autentiche di Paolo.
Questa lettera è scritta perché uno schiavo, Onesimo, è fuggito e si è
rifugiato da S.Paolo.
E’ importante notare subito il ruolo della tradizione nella storia del cristianesimo. Il cristianesimo non
arriva subito a proporre l’abolizione della schiavitù - i tempi sono troppo condizionati dalla
storia e dalla cultura precedente - e solo col passare degli anni si colgono, su questo punto come su altri,
tutte le potenzialità del vangelo. Paolo dice, da un lato che “uomo e donna, barbaro e greco,
schiavo e libero” hanno la stessa dignità e non vi è differenza fra di loro, poiché
sono uno in Cristo, sono persone in Cristo, però la cultura ci mette del tempo ad elaborare questa
verità ed a coglierne le conseguenze. Proprio perché anche Paolo è un figlio del suo tempo e
la schiavitù era costume abituale dell’epoca. S.Paolo non dice di per sé ancora, nella
lettera a Filemone, che la schiavitù è un errore, però apre una riflessione che avrà
grandi conseguenze nel prosieguo della storia, dicendo che si è fratelli in Cristo e quindi, sia il
padrone, sia lo schiavo, debbono avere rapporti come tra fratelli. Dice, al versetto 8:
8Per questo, pur avendo in Cristo piena libertà di comandarti ciò che devi fare,
9preferisco pregarti in nome della carità, così qual io sono, Paolo, vecchio, e ora
anche prigioniero per Cristo Gesù; 10ti prego dunque per il mio figlio, che ho generato in
catene, 11Onesimo, quello che un giorno ti fu inutile, ma ora è utile a te e a me.
12Te l'ho rimandato, lui, il mio cuore.
Paolo è in catene lui stesso, non per schiavitù, ma per la prigionia dovuta alla persecuzione della
sua fede, e dice di Onesimo a Filemone: “Prima era uno schiavo, ma era inutile, ti dava solo un aiuto
concreto. Ora è diventato cristiano, addirittura ti può testimoniare Gesù. Io non ti obbligo
di accoglierlo, sebbene come Apostolo potrei comandartelo, però in nome della carità ti prego di
riprenderlo con te”.
Vediamo ancora Flm 17:
17Se dunque tu mi consideri come amico, accoglilo come me stesso. 18E se in qualche cosa
ti ha offeso o ti è debitore, metti tutto sul mio conto. 19Lo scrivo di mio pugno, io, Paolo:
pagherò io stesso. Per non dirti che anche tu mi sei debitore e proprio di te stesso!
20Sì, fratello!
Paolo scrive: “Se tu sei mio amico, se ti consideri mio amico, è proprio un favore da amico che ti
chiedo: prendilo con te. E se c’è qualcosa che lui ha fatto di male, ci penserò io. E sappi -
e questo è stupendo, perché Paolo, aveva convertito anche Filemone - tu mi sei debitore di te
stesso”. Io ti ho salvato, quindi tu mi devi la vita. Quello che ti chiedo ora è molto meno di
quello che ti ho dato. Ti chiedo di accogliere questo schiavo e di perdonarlo, ma cosa è questo dinanzi
alla salvezza che da me hai ricevuto?
Per concludere, possiamo tornare a quel grande messaggio che il Papa Giovanni Paolo II sta annunciando a tutto il
mondo: il rapporto tra la giustizia e il perdono. Il Papa sta dicendo che in questo momento terribile
dell’umanità l’unico modo di arrivare alla pace è quello di cercare insieme la
giustizia e il perdono. Se ci fosse solo la bontà, ma non si cercassero i veri diritti dei popoli, sarebbe
troppo poco, sarebbe spiritualismo. Ma se si cercasse solo la giustizia, non appena uno sbagliasse di nuovo
comincerebbe una serie infinita di vendette. Sono stato di recente nelle montagne dell’Albania, dove vige
un antico codice non scritto, che viene chiamato il “Kanun”. In esso è stabilita
l’entità della vendetta - sapete che questo serve anche a limitare, per certi versi, i danni che si
potrebbero infliggere per vendicarsi. Se uno uccide un altro, necessariamente, per ristabilire la giustizia -
dice il Kanun – l’omicida stesso o altrimenti un parente della famiglia dell’assassino deve
essere ucciso. Siccome una donna o un bambino non possono essere uccisi, se l’omicida si mette in salvo e
c’è solo un suo figlio maschio, si aspetta che diventi grande e poi lo si ucciderà. Certo
è vero che questa legge ha come obiettivo quello di limitare la vendetta, la catena delle vendette
infinite. Ma c’è un modo più vero di realizzare questo: arrivare a perdonare. E’ la
novità del perdono che permette di mettere un punto alla sequenza del male. Un autore chiamava questo
“il problema della punteggiatura”. E’ la capacità di interrompere una catena di eventi
nefasti con il cessare di vendicarsi, come quando, con un punto, si pone fine ad una frase e se ne comincia
un’altra: “E’ vero, tu hai fatto questo, ma io non ti ricambio con la stessa moneta”. Il
perdono - il Papa continua a dire al mondo - è un gesto di enorme dignità umana, è amare il
nome di Dio ed è venerarlo realmente. Senza questo perdono, la vendetta seguirà la vendetta in una
catena senza fine ed ogni pace sarà distrutta, un istante dopo, da un nuovo atto violento che
pretenderà di ristabilire l’ingiustizia che aveva preceduto la pace. La giustizia, per portare alla
pace, ha bisogno del perdono. Ecco, proprio questo vediamo qui: Paolo chiede di superare la giustizia. Per la
legge di allora lo schiavo doveva essere punito. Paolo dice, invece, al suo amico Filemone: “Abbi
carità. Accogli Onesimo, te lo chiedo io”.
La città di Colossi era allora in condizioni migliori di come è adesso questo cumulo di rovine, ma
proprio qui, su questa collina, sono risuonate le parole di queste due lettere, la lettera ai Colossesi e la
lettera a Filemone.
Dopo aver visto lo straordinario Tetrapylon e lo stadio, ancora splendidamente conservato della città, siamo ora dinanzi al Tempio di Afrodite, che fu trasformato in Basilica cristiana. Sappiamo che qui ad Aphrodisias fu eretta una statua di Elia Flavia Flaccilla, moglie di Teodosio (siamo intorno agli anni del I concilio di Costantinopoli che è del 381), l’imperatore sotto il cui regno l’impero divenne ufficialmente cristiano. Un mio amico, Marco Valenti, sta ultimando una tesi – N.d.R. che è ora consultabile su questo sito (Dai templi pagani alle Chiese paleocristiane e altomedioevali, nella Roma del primo millennio) - che studia il lento trasformarsi degli edifici templari pagani e degli edifici imperiali civili in edifici cristiani.
Voglio qui fare una riflessione ulteriore che prolunga quella che già abbiamo fatto a Priene, parlando di
Alessandro Magno. Quale è stato l’atteggiamento dei Padri della Chiesa, vissuti in questi
luoghi, proprio nel passaggio ad un Impero ormai cristiano, dinanzi alla cultura pagana greca che avevano
dinanzi? La domanda non è solo storica, ma apre delle importanti prospettive per la riflessione odierna,
per il dialogo fra la fede e le culture. Data una fede, la fede cristiana, quale valore e peso dare a
ciò che cristiano non è? In particolare quale rilievo dare a tutta la riflessione sull’uomo,
a tutta la ricerca di verità, a tutta la bellezza che l’uomo ha generato nei secoli? Particolare
rilievo acquista questa problematica anche nel dialogo interreligioso e nelle prospettive di evoluzione di
ciascuna religione. Prendiamo solo il caso della Turchia. Proprio qui ad Aphrodisias abbiamo appena incontrato la
tomba dell’archeologo Kenan T.Erim, che ha dedicato tutta la sua vita agli scavi di questa
città. Come valuta la religione islamica questo? Che spazio viene dato, nella formazione delle nuove
generazioni, all’amore per la grecità classica, che, oltre ad essere pre-cristiana e, ovviamente,
anche pre-islamica?
Ma procediamo con calma. L’affermazione un po’ banale che il cristianesimo non solo non si sia
interessato a tutto ciò che era stato creato culturalmente ed artisticamente prima di lui, ma anzi lo
abbia combattuto, crolla immediatamente dinanzi alla constatazione dell’amore che tanti periodi storici
informati dal cristianesimo – e fra l’altro il tanto “biasimato” Medioevo! – hanno
avuto per i classici pre-cristiani.
Mi servo qui di uno studio di sintesi molto importante scritto da Manlio Simonetti, uno dei più
grandi studiosi del periodo patristico in Italia. Nel suo volumetto Cristianesimo antico e cultura greca (Borla,
Roma, 1983) mostra come, fin dal principio, si sono confrontate nel cristianesimo nascente due visioni, una
positiva ed una negativa, dei valori della cultura pre-cristiana. Alcuni autori hanno voluto bollare in toto
come peccaminosa tutta la cultura pagana, sia perché politeista, sia perché moralmente non
rispettosa dei valori della famiglia e della giustizia, sia, infine, per le sue derive persecutorie nei confronti
del cristianesimo dei primi secoli. Ma, fin dal Nuovo Testamento, e poi via via nel tempo, si è andata
strutturando ed imponendo la posizione opposta degli autori che, essendo loro per primi uomini di cultura, hanno
voluto salvaguardare l’opera di coloro che li avevano preceduti, riconoscendone certo alcuni limiti, ma
anche valorizzandone il grande portato, anche in chiave educativa, nei confronti delle nuove generazioni.
E’ innanzitutto negli ambienti alessandrini – di Alessandria d’Egitto – che va
imponendosi questo rapporto con il passato. A Clemente Alessandrino fa seguito l’opera ancora
più matura di Origene, che si trasferirà poi a Cesarea Marittima in Palestina, costituendo
lì una scuola teologica, dopo quella già affermata di Alessandria. Così scrive M.Simonetti,
nel volume che vi ho citato, a pag. 53:
Origene giustifica l’utilizzazione della filosofia greca da parte dei cristiani con l’allegoria
dell’episodio dell’Esodo che racconta come gli Israeliti, abbandonando l’Egitto, avessero
portato con sé l’oro e l’argento che avevano sottratto agli egiziani: come quelli si servirono
del materiale sottratto agli Egiziani per preparare oggetti per il servizio divino, così i cristiani si
servono della sapienza pagana per approfondire la loro conoscenza di Dio, in quanto le scienze dei Greci possono
introdurre allo studio delle Sacre Scritture:
“Io mi augurerei che tu prendessi dalla filosofia dei Greci quelle che possono diventare – per
così dire – discipline generali e propedeutiche per il cristianesimo, e anche dalla geometria, come
dall’astronomia, le nozioni che potranno essere utili all’interpretazione delle Sacre
Scritture” (ep. ad Greg. 1).
Coerente con questo programma, sappiamo che Origene nella scuola di Cesarea di Palestina iniziava i suoi
allievi allo studio della Scrittura mediante l’insegnamento preliminare delle varie filosofie greche, ad
eccezione di quelle che negavano l’azione della provvidenza divina nel mondo, cioè
l’epicureismo e, a livello minore, l’aristotelismo... Origene si caratterizzava soprattutto per aver
dato a questi principi teorici, nonostante il rischio che essi comportavano, un’applicazione molto
più organica e di vasto respiro.
Ma il passaggio decisivo nella fusione di cristianesimo e mondo classico avviene, in Oriente, proprio alla fine
del IV secolo e proprio qui, nei luoghi dell’odierna Turchia, attraverso le figure dei tre grandi Padri
della Chiesa che vengono chiamati i Padri Cappadoci. Sono Basilio, Gregorio di Nissa, fratello
minore di Basilio e Gregorio di Nazianzo che fu studente ad Atene con Basilio e che divenne suo
grandissimo amico. Così M.Simonetti – vi leggo le pagg.88-91 del suo volumetto – scrive di
loro:
Con Basilio, Gregorio di Nazianzo e Gregorio di Nissa la fusione tra profondo sentire cristiano e paideia
greca è completa e si realizza al livello più alto sia di spiritualità cristiana sia di
formazione classica. Di alta estrazione sociale, educati nel modo più tradizionalmente raffinato e
completo, e nel contempo cresciuti in ambienti profondamente cristiani, essi realizzarono l’ideale di
un cristianesimo colto, che sapesse accettare tutto ciò che c’era di valido
nell’ellenismo, senza sfigurare le linee portanti del messaggio cristiano, in una sintesi che sarebbe
rimasta paradigmatica per la cristianità orientale. Ciò vale soprattutto per Basilio e il
Nazianzeno, che completarono i loro studi ad Atene. Il Nisseno non ebbe questo privilegio.
Temperamenti diversi, il Nazianzeno rappresenta, fra i tre, la tendenza letteraria; e la sua apertura alla
tradizione classica è completa, senza quelle remore, seppure teoriche, nei confronti della
retorica tradizionale che (troviamo)... in Basilio e nel Nisseno: il suo stile è del più puro e
sfrenato asianismo, la sua adesione ai modelli classici, sia in oratoria sia in poesia, è totale, la
grande conoscenza degli autori pagani traspare ogni momento nel suo dettato sia per reminiscenze sia per
citazioni precise. Il Nisseno non è altrettanto dotato sul piano letterario, ma è molto
più approfondito su quello filosofico: Filone Plotino, soprattutto Origene, sono i suoi autori, e in tempi
già tempestosi per il Fortleben di quest’ultimo non teme di riecheggiarne temi già soggetti a
critica e discussione. Basilio contempera le doti letterarie dell’uno con la preparazione filosofica
dell’altro in una sintesi di superiore livello, all’insegna di un senso della misura
ch’è la quintessenza del classicismo e fa di lui l’insuperato esemplare di cristiano
ellenizzato. Tutti e tre insieme, nella varietà di atteggiamenti e nella omogeneità dei motivi
ispiratori di fondo, stanno a significare la fecondità del felice incontro di cristianesimo ed
ellenismo.
L’ideale che essi propugnano, l’iniziativa che portano avanti sono sostanzialmente quelli di
Origene, autore che fu carissimo anche a Basilio e al Nazianzeno, ma aggiornati ad esigenze nuove, che
Origene non aveva neppure potuto immaginare. Con Origene infatti l’incontro fra kerygma cristiano e cultura
greca era avvenuto in circostanze difficili, fra ostilità da una parte e dall’altra, e si era
proposto l’adeguamento di quel messaggio alle esigenze del greco colto quasi esclusivamente a livello
speculativo, al fine di fornirgli un adeguato fondamento dottrinale in linea con la riflessione
filosofica dell’epoca. Al tempo dei Cappadoci la situazione è radicalmente mutata, il cristianesimo
è diventato addirittura religione di stato, e il problema è di carattere ben diverso: si tratta di
vivere il cristianesimo non solo superficialmente ma con assoluta sincerità, e insieme non rinunciare
a quanto di bello, nobile, anche raffinato aveva prodotto la civiltà greca; si tratta, insomma, di sfatare
con la realizzazione pratica la convinzione di chi ravvisava radicale inconciliabilità fra la fede
irrazionale dei cristiani, nemica di ogni valore del mondo, e il razionalismo greco con la sua visione
sostanzialmente ottimista del mondo. L’ambiente elevato da cui provenivano e col quale erano sempre in
contatto per mille tramiti rendeva i Cappadoci particolarmente sensibili a questa esigenza; ed essi con la
raffinatezza letteraria, con l’ardua speculazione filosofica, con «politesse» tipicamente
ellenistica, spinta fino all’affettazione (si leggano certe lettere di Basilio e soprattutto del
Nazianzeno), nell’intrattenere rapporti sia con letterati pagani sia con le più alte
autorità sia con ogni altro ordine di corrispondenti, dimostrarono la compatibilità
dell’impegno cristiano con gli aspetti più raffinati della civiltà greca.
L’intransigenza della fede ispirò in loro, soprattutto in Basilio, l’intransigenza più
rigida ed eloquente nei confronti delle mille ingiustizie che funestavano il mondo di allora, ma non li rese
sordi al richiamo dei valori essenziali della civiltà classica, così come il saldo fondamento
scritturistico della loro formazione li rese aperti all’apporto della ricca tradizione filosofica
greca.
Questa sintesi operata dai Cappadoci fra cristianesimo ed ellenismo è tanto più significativa in
quanto la loro adesione al cristianesimo si realizzò nella forma più spettacolarmente
estranea allo spirito greco, quella del monachesimo. Soprattutto Basilio e il Nazianzeno sentirono a fondo
il sottile fascino della ricerca della perfezione nell’allontanamento dal mondo, e Basilio fu anche grande
organizzatore di vita monastica. Ma essi compresero che l’ideale monastico non s’identificava con gli
eccessi ascetici e le costumanze pittorescamente contestatrici di certo monachesimo egiziano e siriaco; lo
sfrondarono da queste sovrastrutture appariscenti, in cui l’ascesi si sposava spesso ad un esibizionismo di
poco significato cristiano; dimostrarono che il rifiuto della sapienza del mondo non deve significare totale
ignoranza. Ridotto così alla sua vera essenza, che è ricerca di perfezione cristiana
nell’allontanamento dal mondo per un più diretto e continuo contatto con Dio, l’ideale
monastico non solo non è incompatibile con certi valori essenziali della tradizione greca, ma sa
addirittura trarre frutto dall’amor Dei intellectualis, che di quella costituisce una delle conquiste
più alte... la durezza dei tempi mise ben presto a dura prova l’ideale di cristianesimo ellenizzato
proposto dai Cappadoci, ma non ne avrebbe scalfito il significato esemplare.
M.Simonetti sottolinea come, in questa valorizzazione, sia decisiva una scelta di formazione scolastica, una
scelta educativa. La valorizzazione dei classici avviene attraverso la proposta del loro studio richiesto
come propedeutico addirittura in vista di un corretto studio delle Sacre Scritture e della loro interpretazione.
Non è sufficiente, allora, una formazione teologica, ma il giovane necessita di tutte le risorse
sviluppate da quelle che chiameremmo oggi “scienze umane”. Così ancora M.Simonetti alle
pagg.76-77:
Ormai anche là dove l’impegno cristiano era più profondo, l’esistenza della scuola
pagana non era messa in discussione: Basilio nel Ai giovani considera lo studio delle Sacre Scritture troppo
impegnativo, con i loro misteri, per giovani in tenera età, che invece nella istruzione classica
acquisteranno le attitudini necessarie per poter in seguito affrontare quello studio,così come
l’istruzione ginnica deve precedere quella militare. L’opera, che Basilio indirizzò a due suoi
giovani parenti che si accingevano ad intraprendere gli studi, ebbe fortuna immensa, e stabilì in modo
definitivo per l’Oriente anche bizantino i modi della utilizzazione cristiana degli autori
classici:
“Dato che alla nostra vita dobbiamo giungere per mezzo della virtù, per spingerci ad essa molte
cose hanno detto i poeti, colte gli storici, molte di più i filosofi, alla parola dei quali bisogna
soprattutto applicarsi. Infatti è non poco utile che l’anima dei giovani acquisti familiarità
e abitudine con la virtù, poiché tali insegnamenti, se s’imprimono in profondità
grazie alla malleabilità delle anime, diventano irremovibili”. Dato però che negli autori
classici si trova il bene misto col male, bisogna saper scegliere, prendere la rosa ed evitare la spina.
La mia convinzione odierna è che questo rapporto con il passato e con i classici, oltre che l’amore
per la cultura del nostro tempo, sia la chiave di volta per lo sviluppo delle nuove generazioni musulmane.
Soprattutto là dove un confronto diretto ed aperto con il cristianesimo è impedito. Non è
l’esportazione del consumismo che fa evolvere l’Islam! E’, invece, un accresciuto amore a
ciò che è l’uomo ed, in conseguenza, alla capacità dell’uomo di esprimersi
attraverso le tante forme che possediamo: la letteratura, la musica, il cinema, l’arte,
l’affettività, il pensiero e la filosofia. Credo che una ricchezza a questo livello non possa che
far bene. Ed è molto bello vedere in tanti giovani turchi una passione per tutte le creazioni dello
spirito umano e, attraverso di esse, all’uomo in quanto tale. Da questo punto di vista, è evidente
che il mondo arabo – pur nelle enormi differenze fra un paese e l’altro – è globalmente
più indietro. Questo ha una sua profonda ragione storica che non dobbiamo dimenticare, per non limitarci
ad esprimere giudizi moralistici: il mondo arabo si era incamminato anch’esso in questa strada, ma ha
vissuto una battuta d’arresto, alla fine del Medioevo, a causa della dominazione Turca.
Vediamo cosa è avvenuto, a grandissime linee, nel Medioevo. Il periodo dei Padri, che vi ho brevemente
richiamato, non si chiude in se stesso. Il mondo medioevale, soprattutto in alcuni secoli specifici – non
dimentichiamo che il concetto di Medioevo, sebbene lo usiamo correntemente, è un concetto di per sé
anticlericale e, comunque, grossolano, tanto è vero che racchiude un periodo di almeno 10 secoli
enormemente diversi fra loro! – ha avuto un amore per la classicità ancora più grande che nei
primi secoli di storia del cristianesimo. E questo è avvenuto anche in alcuni territori di dominazione
musulmana. Uno dei campi di ricerca che ha fatto progredire di più gli studi di storia della filosofia
medioevale, nel secolo scorso, è stato quello della storia delle traduzioni dal greco dei testi dei
filosofi classici. Si è scoperto che molti testi di Aristotele sono arrivati, all’inizio, in
Occidente attraverso la mediazione delle traduzioni arabe. Platone ed Aristotele non erano tradotti solo in
latino, ma anche in arabo ed in ebraico. Sapete che Afrodisias è nota anche per il suo filosofo Alessandro
di Afrodisia, il più celebre commentatore antico di Aristotele. Ebbene, nel Medioevo, a Toledo sorge una
scuola di traduttori di Aristotele, perché il vescovo desidera che sia conosciuto e studiato. Lui, un
filosofo pagano! Molti testi di Aristotele vengono tradotti in arabo da filosofi musulmani perché tali
pensatori ritenevano necessario, per la loro ricerca teologica, essere nutriti non solo del Corano, ma anche
degli scritti filosofici classici. E’ proprio nel Medio Evo che il mondo arabo ha avuto delle aperture
culturali che oggi sono impensabili. Sapete che il sistema di numerazione che usiamo e che chiamiamo numerazione
araba, non è in realtà arabo, ma indoeuropeo, ma furono gli studiosi di matematica araba a tradurre
i testi dei matematici dell’Estremo Oriente e, tramite loro, arrivarono anche in Europa. La parola
“algebra” è una parola araba – così come altri termini matematici - e così
pure le equazioni di terzo grado sono state sviluppate da matematici arabi medioevali. Abbiamo, infatti, dei
matematici di primissimo livello, nei secoli che vanno dal IX al XII secolo, come al-Khuwarizmi, Thabit
ibn-Qurra, Abu’l-Wafa, al-Karkhi, Ibn-Sina (Avicenna, che fu soprattutto filosofo), al-Biruni,
ibn-al-Haitham (Alhazen), Omar Khayyam, Nasir Eddin, al-Kashi. Soprattutto nella Spagna musulmana, a Baghdad ed
in Persia. La dominazione turca non solo pose fine all’impero bizantino, ma sottomise per secoli (fino alla
fine della I guerra mondiale) il mondo arabo, impoverendolo molto soprattutto dal punto di vista culturale. Alla
fine della dominazione ottomana il livello degli studi nelle città arabe non era più assolutamente
paragonabile a quello delle città europee.
Quello dello studio, della formazione, resta uno degli impegni che la Chiesa sostiene con più energia e,
dove le viene concesso, non si stanca di aiutare popoli anche di altre religioni in questo cammino di passione
per la cultura, formatrice di umanità e di sviluppo.
Un aspetto ancora, spesso a torto trascurato, che voglio richiamarvi qui è quello del diritto. Questo
atteggiamento di valorizzazione e di stima della classicità e dell’umanesimo, questo amore per una
cultura che non aveva avuto la stessa religione del cristianesimo, religione ormai dominante nell’impero,
ha portato con sé anche un profondo apprezzamento del diritto romano. Proprio Giustiniano, l’ultimo
imperatore che ha unificato Oriente ed Occidente, è noto per un capolavoro giuridico, che ha fatto scuola
per tutti i secoli successivi, il Codex Iuris Civilis o Codex Justinianus. E’ sotto il suo
governo che furono fatte ricerche e fu raccolta la legislazione romana precedente, perché la si ritenne
frutto altissimo di ricerca giuridica per i rapporti fra le persone, nello Stato.
La laicità della politica e dello Stato non ha la sua origine prima nella rivoluzione francese. Non
solo perché i diritti dell’uomo proclamati nel 1789 sono cronologicamente preceduti dai diritti
proclamati in Virginia (1776) e poi negli altri stati americani, proprio nel nome di Dio, ma, ancor più,
perché la separazione fra religione e politica affonda nella concezione originaria del cristianesimo, nel
suo rapportarsi alla realtà civile.
Il cristianesimo, non nascendo come religione di Stato - e nemmeno preoccupato della conquista di uno Stato - si
sviluppa avendo nel suo DNA la differenziazione dalla compagnie statale. Il principio affermato da Gesù
“Date a Cesare ciò che è di Cesare ed a Dio ciò che è di Dio”, ripreso
immediatamente da Paolo e dagli altri testi neotestamentari, rinvia ad un rispetto dell’autorità
civile. Il cristianesimo non nasce così in prospettiva anarchica, poiché non idealizza né
una dissoluzione dello Stato, né una occupazione di esso. Il tentativo degli apologeti - gli scrittori
cristiani del II secolo che scrivevano delle apologie, delle difese/presentazioni del cristianesimo per chi non
lo conosceva o lo avversava - dinanzi alla ricorrente accusa rivolta ai cristiani di essere “odiatori del
genere umano”, sarà proprio quello di mostrare come il cristiano sia un fedele servitore dello
Stato. Il cristiano non rifiuta lo stato – spiegavano gli apologeti – ma rifiuta di esso solo il suo
eventuale farsi divino, il pretendere un ossequio religioso, nella venerazione cultuale degli imperatori o dei
loro dei. Ad eccezione di questo, in tutto, il cristiano si conforma al diritto ed alle leggi per contribuire al
bene della compagine civile stessa.
E, quando la maggioranza dei cittadini diverrà essa stessa cristiana e lo stesso imperatore sarà un
figlio della Chiesa, mai la legge stessa rivelata, mai la Bibbia, pretenderà di divenire legge statale.
Sarà così lo stesso imperatore cristiano, nella persona di Giustiniano o più tardi di Leone
VI, a far curare la raccolta delle leggi romane, lo Jus Romanum, perché ne derivi l’ordinamento
dello Stato e dei suoi cittadini. La cultura giuridica, coltivata da autori cristiani nello studio della
legislazione romana, sarà uno dei capisaldi della civiltà tardoantica e medioevale. L’idea di
una sharia cristiana, di una legge civile che sia direttamente derivata dalla Bibbia, non è mai stata
difesa dalla Chiesa; semmai è stata proposta da frange minoritarie o protestanti, animate da una forte
tensione utopica, che si sono contrapposte alla grande Chiesa ed al suo realismo storico. Voglio leggervi un
passaggio di un acuto saggio giovanile dell’attuale card.J.Ratzinger che, paragonando la visione politica
di Agostino e di Origene, affermava:
Per Agostino gli Stati e le patrie della terra passano a un rango secondario perché ha trovato la
città, lo Stato di Dio e in esso la patria unica di tutti gli uomini. Qui non è consentito
abbandonarsi ad alcuna illusione: tutti gli Stati di questa terra sono “Stati terreni” anche quando
sono retti da imperatori cristiani e abitati più o meno completamente da cittadini cristiani. Sono Stati
su questa terra e quindi “terreni” e nemmeno possono divenire di fatto qualcosa d’altro. In
quanto tali, sono forme di ordinamento necessarie di quest’epoca del mondo ed è giusto preoccuparsi
del loro bene; Agostino stesso ha amato lo stato romano come sua patria e si è preoccupato amorevolmente
del suo perdurare. Ma giacché tutte queste formazioni non sono infine e non rimangono che stati terreni,
rappresentano un valore relativo e non meritano una sollecitudine d’ordine supremo. Essa spetta soltanto
alla patria eterna di tutti gli uomini, alla civitas caelestis... convinto che con questo nome, civitas
caelestis, può essere chiamata non solo la celeste Gerusalemme avvenire, ma già anche il popolo di
Dio nel pellegrinaggio attraverso il deserto del tempo terreno: la Chiesa (J.Ratzinger, L’unità
delle nazioni. Una visione dei Padri della Chiesa, Morcelliana, Brescia, 1973, pagg. 95-97).
Da qui, nella tradizione cristiana, contro ogni tentazione anarchica ed utopistica, l’amore e la cura dello
Stato, delle autorità nazionali, comunali, municipali, delle forze dell’ordine, dell’esercito
stesso, delle corporazioni professionali e del loro sviluppo.
La coscienza della differenza fra fede e politica è ciò che ha permesso ai cristiani di
riconoscere, nel dispiegarsi delle diverse stagioni, quella tentazione di dominio che li ha, invece, talvolta
presi. Così pure quando cristiani hanno preteso di ottenere con la forza ciò che solo la libera
adesione di fede è in grado di conseguire. Le richieste di perdono su questi temi – secondo la
grande intuizione di Giovanni Paolo II - si radicano proprio in questa distinzione fra l’adesione di fede e
le norme che debbono regolare il vivere civile.
Non vi sembri, allora, una parentesi senza significato, nell’itinerario del nostro pellegrinaggio, il
passeggiare per le rovine di Aphrodisias. Anche noi mettiamoci tra coloro che onorano la grande figura di Kenan
T.Erim, l’archeologo che tanti anni ha dedicato a questa città. L’avere la certezza della fede
non ci renda mai incapaci di apprezzare l’opera dell’uomo, non ci renda mai autosufficienti, come se
l’avere la fede ci rendesse per ciò solo capaci di dettar legge in ogni campo della vita o del
sapere. No! La fede è quello sguardo particolare che riempie di sé ogni aspetto della vita, ma
insieme rispetta e venera la vita perché l’uomo stesso è originato dallo stesso Dio che ci
dona la fede. Ed ammirare l’opera dell’uomo è rendere gloria al Creatore stesso
dell’uomo.