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İstanbul, obelisco di Teodosio nell'Ippodromo: l'imperatore consegna la corona al vincitore (clicca per leggere)

Dinanzi all’obelisco di Teodosio
Siamo nella piazza che ripete, più o meno, il tracciato dell’antico “circo” di Costantinopoli, eretto proprio davanti al palazzo imperiale. Possiamo immaginare, dove è ora la Moschea blu – che porta il nome di Sultan Ahmet Camii – l’antico kathisma, o palco imperiale, dal quale l’imperatore assisteva alle gare. È possibile vedere raffigurato questo palco proprio sul basamento dell’obelisco che Teodosio fece erigere intorno all’anno 390 d.C. sulla spina centrale dell’ippodromo. Vedete Teodosio raffigurato quattro volte sul basamento dell’obelisco. Tutte e quattro le volte vi appare l’imperatore, una prima volta con i suoi familiari, poi mentre riceve l’omaggio dei nemici vinti (e sotto queste due raffigurazioni simmetriche sta l’iscrizione in greco ed in latino, ad indicare che si tratta ancora dell’impero romano!), mentre sugli altre due lati si vede l’imperatore che assiste proprio all’erezione dell’obelisco e che incorona i vincitori della corsa delle quadrighe.
I quattro famosissimi cavalli di San Marco a Venezia erano situati sopra il kathisma e furono depredati nel 1204 dai crociati, aizzati dalla repubblica di Venezia, che ottenne così le preziose statue equestri oltre a molti altri oggetti trafugati.

Vedete che, nel lato dell’obelisco dove è la raffigurazione del circo con le quadrighe, si vedono chiaramente quattro squadre. Due erano, però, i demi, cioè le squadre, più famose, quella degli azzurri e quella dei verdi; in alcune età dell’impero se ne sono però contate quattro, a imitazione delle quattro del Circo Massimo di Roma. Non erano solo squadre per le quali si tifava, ma erano anche veri e propri gruppi di influenza politica e di orientamento del sentire delle masse della capitale.
Proprio su questa piazza si svolse un famoso episodio che ci fa percepire l’importanza di questi giochi nell’antichità. Nell’anno 532, mentre era imperatore Giustiniano, si accordarono i due demi degli azzurri e dei verdi, scontenti della politica imperiale, e si ribellarono a lui in questa piazza ed elessero un nuovo imperatore al grido di Nika (“vinci”!) che era il grido con il quale avveniva l’incitamento e l’acclamazione nelle corse – l’episodio è, infatti, passato alla storia come la “rivolta di Nika”. Giustiniano si vide perduto e stava per fuggire; fu solamente la moglie Teodora a trattenerlo ed a fargli coraggio. Nel frattempo Narsete riuscì a ricucire l’alleanza con gli azzurri e Belisario si presentò nell’ippodromo con i soldati fedeli all’imperatore (sono i due grandi e famosi personaggi che conoscete per le vicende italiane, di Ravenna e Roma in particolare). Ci fu una strage di migliaia di rivoltosi ad opera delle truppe imperiali ed, infine, Giustiniano riuscì a riprendere in mano la situazione e salvò il suo regno. Nella rivolta si sviluppò anche un incendio che distrusse Santa Sofia e portò, poi, alla costruzione dell’attuale, avvenuta appunto durante il regno di Giustiniano.

Vogliamo però soffermarci su di un episodio molto importante per la storia del cristianesimo che si svolse proprio in questo ippodromo nel VII secolo d.C. e che precedette il Concilio Costantinopolitano III, del quale parleremo in Santa Sofia. Quel Concilio proclamò la presenza in Cristo di due volontà, quella umana e quella divina, in perfetto accordo fra di loro. Prima del Concilio (689-681), già alla metà del VII secolo, Roma difendeva questa tesi, mentre l’imperatore era schierato a favore della tesi teologica che voleva che in Cristo ci fosse solo la volontà divina (era, cioè, sostenitore della dottrina “monotelita”, come vedremo meglio). Non riuscendo ad avere ragione del pontefice, l’imperatore si risolse ad imporre l’obbligo per tutti di tacere su questa discussione teologica, affermando che solo questo avrebbe permesso la concordia all’interno dell’impero. La politica voleva sottomettere a sé la teologia ed usare la religione in funzione della salvaguardia della tranquillità degli animi.

Già Costantino imperatore si era illuso di rapportarsi alla fede cristiana così come i suoi predecessori si erano rapportati alla religione pagana: dopo un primo momento nel quale aveva convocato il concilio di Nicea ed accettato la condanna di Ario, aveva cercato poi di farlo riammettere nella comunione ecclesiale, invocando la tranquillitas imperii. Non comprendeva che l’esigenza di verità era insita nella fede cristiana, proprio a motivo della rivelazione divina avvenuta nell’incarnazione di Cristo.

Vi ho distribuito un breve testo di Manlio Simonetti che è estremamente illuminante in materia:

(da M. Simonetti, Costantino e la chiesa, in Costantino il grande. La civiltà antica al bivio tra Occidente e Oriente, A. Donati – G. Gentili (a cura di ), SilvanaEditoriale, Milano, 2005, pp. 56-63)
«Se infatti Costantino, quando si autoelesse capo del¬la chiesa, aveva pensato di assumersi un incarico pri¬vo di complicazioni, quale era la funzione di pontefi¬ce massimo, aveva fatto male i suoi calcoli, in quanto aveva sottovalutato una caratteristica forte, che spe¬cificava la chiesa cristiana nei confronti delle religio¬ni pagane, vale a dire la grande litigiosità interna. A differenza di quelle religioni, quella cristiana aveva alle spalle una sua storia e continuava a viverla gior¬no per giorno, storia tormentata, a volte convulsa, perché fatta in gran parte di contrasti e polemiche, rivolte non solo all'esterno, nel confronto con pagani e giudei, ma anche, e addirittura soprattutto, all'in¬terno, per motivazioni di carattere sia dottrinale sia anche disciplinare.
Quanto a Costantino, e al figlio Costanzo che avrebbe seguito, in sostanza, la politica paterna, il fallimento sarebbe stato dovuto al rifiuto, da parte della maggior parte degli interessati, anche se non di tutti, di distinguere tra forma e sostanza, tra l'accettazione soltanto esteriore di una professione di fede e l'adesione intima a un'altra. Il patrimonio di dottrina, che specificava la religione cristiana di fron¬te a quella pagana, che ne era priva, e anche a quella giudaica, dove era di entità molto più ridotta e di significato molto meno vincolante, era sentito come componente essenziale del deposito di fede e perciò tale da imporre un'osservanza in cui sostanza e for¬ma s'identificassero, perciò senza distinzione tra ade¬sione esterna e interna. La rabies theologorum era per¬ciò destinata ad avere la meglio sulla moderazione di una politica di compromesso. Tale stato di cose com¬plicava di molto l'esercizio del potere dell'imperatore sulla chiesa, in quanto lo sollecitava o a forzare ecces¬sivamente la mano nel tentativo di imporre la solu¬zione di compromesso ovvero di addentrarsi addirit¬tura nell'aspetto tecnico del contenzioso in esame alla ricerca di una soluzione non soltanto formale, col rischio di concedere troppo, per ovvia necessità, ai teologi di professione e di trovarsi in difficoltà nell'arginare la loro invadenza. Nell'un caso e nell'altro l'inevitabile interferenza del potere politico in que¬stioni di specifico interesse religioso non poteva non generare uno stato di disagio e provocare reazioni».

Come ai tempi di Costantino così si comportò anche ora, dinanzi alle discussioni monotelite, l’imperatore. Costante II, infatti, emanò un editto, noto come Typos, che vietava ogni discussione in merito. Papa Martino I, per tutta risposta, non appena eletto convocò un sinodo a Roma, per affermare che in Cristo erano presenti le due volontà, quella umana e quella divina.

Costante II, allora, inviò un primo esarca a mettere a tacere il papa, ma questi non vi riuscì. Allora ne inviò un secondo che si insediò nel palazzo imperiale del Palatino. Papa Martino I, che era malato, si fece porre con il suo letto dinanzi all’altare della cattedrale di S. Giovanni in Laterano. L’esarca aspettò che passasse la domenica e nella notte successiva entrò con i soldati in S. Giovanni ed arrestò Martino I. Fece aprire le porte della città e condusse in esilio il pontefice. Un monaco costantinopolitano, che si chiamava Teodoro Spudeo, di Santa Sofia, ha scritto dei documenti che ci informano su ciò che avvenne. Il papa fu condotto a Costantinopoli e, durante il viaggio, gli fu addirittura impedito di lavarsi per 47 giorni. Giunto nella capitale dovette aspettare 93 giorni per essere interrogato. Infine, il processo si rivelò una farsa. Fu condotto qui all’ippodromo ed accusato davanti alla popolazione di aver tradito l’impero. Fu condannato a morte e, dinanzi a tutti, gli vennero strappate le vesti sacerdotali. L’imperatore, dal kathisma, tramutò la condanna a morte in esilio ed egli fu inviato in Crimea, dove morì di stenti pochi anni dopo. La stessa sorte dovette subire il monaco Massimo il Confessore che difendeva le stesse tesi del papa.

Martino I viene ricordato come confessor fidei, perché, pur non essendo stato ucciso direttamente, ha pagato con l’esilio e con la morte di stenti la difesa della fede cattolica: senza una piena volontà umana, Cristo non sarebbe stato vero uomo, ma solo un corpo nelle mani della divinità.

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