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Valle di Zelve (clicca sull'immagine per leggere dei padri cappadoci, Basilio, Gregorio di Nazianzo e Gregorio di Nissa)

Nella valle di Zelve si è tornati a presentare la figura dei tre padri cappadoci, di Basilio, di suo fratello minore Gregorio di Nissa, di Gregorio di Nazianzo.

Si è fatto cenno, innanzitutto, a come essi abbiano coniugato il Logos e l’Agape. Loro desiderio fu sempre quello di presentare la fede cristiana anche alle persone colte del tempo, di mostrare come la fede non richiedesse la morte del pensiero e dell’intelligenza, ma, anzi, esaltasse la ragione umana, valorizzandola. Al contempo essi vissero orientati a quella carità che è la suprema sapienza. In particolare la vita monastica da loro promossa continuamente si strutturò in aiuto dei più poveri e Basilio è famoso anche per avere fondato in Cesarea, città nella quale era vescovo, vari ospizi per i bisognosi. Lo storico Sozomeno chiama l’insieme di questi luoghi di carità la Basiliade, quasi una città della misericordia.

Si è poi fatto riferimento al tema dell’amicizia. Sono state lette le famose parole con le quali
Gregorio di Nazianzo parla del suo rapporto di amicizia con Basilio:

«Eravamo ad Atene, partiti dalla stessa patria, divisi, come il corso di un fiume, in diverse regioni per brama d'imparare, e di nuovo insieme, come per un accordo, ma in realtà per disposizione divina. Allora non solo io mi sentivo preso da venerazione verso il mio grande Basilio per la serietà dei suoi costumi e per la maturità e saggezza dei suoi discorsi, ma inducevo a fare altrettanto anche altri che ancora non lo conoscevano. Molti però già lo stimavano grandemente, avendolo ben conosciuto e ascoltato in precedenza. Che cosa ne seguiva? Che quasi lui solo, fra tutti coloro che per studio arrivavano ad Atene, era considerato fuori dell'ordine comune, avendo raggiunto una stima che lo metteva ben al di sopra dei semplici discepoli. Questo l'inizio della nostra amicizia; di qui l'incentivo al nostro stretto rapporto; così ci sentimmo presi da mutuo affetto. Quando, con il passare del tempo, ci manifestammo vicendevolmente le nostre intenzioni e capimmo che l'amore della sapienza era ciò che ambedue cercavamo, allora diventammo tutti e due l'uno per l'altro: compagni, commensali, fratelli. Aspiravamo a un medesimo bene e coltivavamo ogni giorno più fervidamente e intimamente il nostro comune ideale, Ci guidava la stessa ansia di sapere, cosa fra tutte eccitatrice d'invidia; eppure fra noi nessuna invidia, si apprezzava invece l'emulazione. Questa era la nostra gara: non chi fosse il primo, ma chi permettesse all'altro di esserlo. Sembrava che avessimo un'unica anima in due corpi. Se non si deve assolutamente prestar fede a coloro che affermano che tutto è in tutti, a noi si deve credere senza esitazione, perché realmente l'uno era nell'altro e con l'altro. L'occupazione e la brama unica per ambedue, era la virtù, e vivere tesi alle future speranze e comportarci come se fossimo esuli da questo mondo, prima ancora d'essere usciti dalla presente vita. Tale era il nostro sogno. Ecco perché indirizzavamo la nostra vita e la nostra condotta sulla via dei comandamenti divini e ci animavamo a vicenda all'amore della virtù. E non ci si addebiti a presunzione se dico che eravamo l'uno all'altro norma e regola per distinguere il bene dal male. E mentre altri ricevono i loro titoli dai genitori, o se li procurano essi stessi dalle attività e imprese della loro vita, per noi invece era grande realtà e grande onore essere e chiamarci cristiani».
(dai Discorsi di san Gregorio Nazianzeno, vescovo; Disc. 43, 15. 16-17, 19-21; PG 36, 514-523)

Si rivela qui tutta la ricchezza dell’amicizia che, se è vera, unisce due persone, ma non le chiude in un rapporto a due, anzi le apre a Dio e ad un rapporto ancora più generoso con tutti.

Si è accennato poi al servizio della parola che, in questa ottica, fu così importante nella vita dei padri cappadoci. Così scrive ancora Gregorio di Nazianzo:

«Servo della Parola, io aderisco al ministero della Parola; che io non acconsenta mai di trascurare questo bene. Questa vocazione io l’apprezzo e la gradisco, ne traggo più gioia che da tutte le altre cose messe insieme» (Discorso 6,5; cfr anche Discorso 4,10).

La dignità della vita umana emerge in questo rapporto con Dio, come scrive Gregorio di Nazianzo:

«Hai un compito, anima mia, / un grande compito, se vuoi. / Scruta seriamente te stessa, / il tuo essere, il tuo destino; / donde vieni e dove dovrai posarti; / cerca di conoscere se è vita quella che vivi / o se c’è qualcosa di più. / Hai un compito, anima mia, / purifica, perciò, la tua vita: / considera, per favore, Dio e i suoi misteri, / indaga cosa c’era prima di questo universo / e che cosa esso è per te, / da dove è venuto, e quale sarà il suo destino. / Ecco il tuo compito, / anima mia, / purifica, perciò, la tua vita» (Poesie [storiche] 2,1,78).

E ancora, rivolgendosi a Cristo, poiché solo lui può accompagnare l’uomo a ritrovare continuamente questa dignità:

«Sono stato deluso, o mio Cristo, / per il mio troppo presumere: / dalle altezze sono caduto molto in basso. / Ma rialzami di nuovo ora, poiché vedo / che da me stesso mi sono ingannato; / se troppo ancora confiderò in me stesso, / subito cadrò, e la caduta sarà fatale» (ibid., 2,1,67).

Sullo stesso tema dell’altissima dignità dell’uomo così si esprime Gregorio di Nissa:

«Non il cielo è stato fatto a immagine di Dio, non la luna, non il sole, non la bellezza delle stelle, nessun’altra delle cose che appaiono nella creazione. Solo tu [anima umana] sei stata resa immagine della natura che sovrasta ogni intelletto, somiglianza della bellezza incorruttibile, impronta della vera divinità, ricettacolo della vita beata, immagine della vera luce, guardando la quale tu diventi quello che Egli è, perché per mezzo del raggio riflesso proveniente dalla tua purezza tu imiti Colui che brilla in te. Nessuna cosa che esiste è così grande da essere commisurata alla tua grandezza» (Om. sul Cantico 2).

Ma l’uomo realizza la propria vocazione non perdendosi in se stesso, bensì rivolgendosi a Dio:
«Se, con un tenore di vita diligente e attento, laverai le brutture che si sono depositate sul tuo cuore, risplenderà in te la divina bellezza ... Contemplando te stesso, vedrai in te Colui che è il desiderio del tuo cuore, e sarai beato» (Le Beatitudini 6).

Per l'anima, infatti, «si tratta non di conoscere qualcosa di Dio, ma di avere in sé Dio» (Le Beatitudini 6: PG 44,1269c).

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