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Gerapoli (Hierapolis): il martirion di Filippo (clicca sull'immagine per leggere sulla Tradizione cristiana in Papia e Abercio)

A Gerapoli, durante la visita agli scavi, è stato approfondito il tema della Tradizione. A Gerapoli, durante la visita agli scavi, è stato approfondito il tema della Tradizione. Infatti, non solo abbiamo testimonianza del passaggio degli apostoli (Paolo attraversò la Frigia in direzione della Galazia nel II viaggio apostolico, cfr. At 16, 6, e nel III viaggio, provenendo questa volta dalla Galazia, cfr. At 18, 23; il colossese Èpafra, discepolo e collaboratore di Paolo si prodigò molto per Gerapoli, cfr, Col 4, 13; Giovanni o almeno suoi discepoli debbono aver abitato e insegnato nella città), ma anche del ministero dei loro successori.

Si è preso spunto sia dal martirion di S.Filippo (la basilica ottagonale del V secolo che potrebbe essere stata originariamente dedicata sia all’apostolo Filippo o, poiché in Eusebio si parla delle sue figlie, al diacono Filippo ricordato in At 6, 5; 8, 5-40; 21, 8-14), sia dalla figura di Papia di Gerapoli che fu vescovo di questa città (una sua opera, la Spiegazione dei detti del Signore, della quale sono rimasti alcuni frammenti dovrebbe essere stata composta verso il 130/140 d.C.). Papia è contemporaneo del vescovo Policarpo di Smirne.

Si tocca qui con mano la trasmissione di generazione in generazione del vangelo. Filippo è, comunque, della prima generazione cristiana, Papia –potremmo dire- della terza. Papia afferma, infatti, di aver conosciuto i discepoli di quelli che hanno conosciuto il Signore, in particolare i discepoli di Giovanni (la critica discute se si tratti qui dell’evangelista o di Giovanni ‘il presbitero’).

Eusebio di Cesarea racconta, infatti, in un frammento (Historia Ecclesiastica, III, 39, 1-16):

«Lo stesso Papia, nel proemio dei suoi discorsi, rivela di non esser stato affatto uditore e spettatore dei santi Apostoli; ma insegna d’avere appreso le cose che riguardano la fede dai loro familiari. Ecco come egli si esprime:
"Non esiterò ad aggiungere alle [mie] spiegazioni ciò che un giorno appresi bene dai presbiteri e che ricordo bene, per confermare la verità di queste [mie spiegazioni]. Poiché io non mi dilettavo, come fanno i più, di coloro che dicono molte cose, ma di coloro che insegnano cose vere; non di quelli che riferiscono precetti di altri, ma di quelli che insegnano i precetti dati dal Signore alla [nostra] fede e sgorgati dalla stessa verità.
Che se in qualche luogo m’imbattevo in qualcuno che avesse convissuto con i presbiteri, io cercavo di conoscere i discorsi dei presbiteri: che cosa disse Andrea o che cosa Pietro o che cosa Filippo o che cosa Tommaso o Giacomo o che cosa Giovanni o Matteo o alcun altro dei discepoli del Signore; e ciò che dicono Aristione ed il presbitero Giovanni , discepoli del Signore.
Poiché io ero persuaso che ciò che potevo ricavare dai libri non mi avrebbe giovato tanto, quanto quello che udivo dalla viva voce ancora superstite"».

È stato sottolineato come Gesù sia all’origine della Tradizione, prima ancora che del Nuovo Testamento. Egli parla nella viva voce della chiesa (si pensi, in maniera paradigmatica, alla parola pronunciata nei sacramenti -«Questo è il mio corpo che è dato per voi», «Io ti assolvo nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo»- che è parola pronunciata “in persona Christi”, cioè che è realmente parola vivente dello stesso Cristo risorto che la pronuncia oggi attraverso il sacerdote).

La Sacra Scrittura è appunto scrittura della viva tradizione ed è a lei successiva. Ed anche il canone delle Scritture è opera della Tradizione della chiesa che si riconosce proprio in quelle Scritture.

Gesù ha voluto essere incontrato nella viva voce della chiesa che trasmette di generazione in generazione “tutto ciò che essa è e tutto ciò che essa crede” (Dei Verbum, 8). Per questo le sue parole non sono state: «Scrivete il Nuovo Testamento», ma piuttosto: «Andate in tutto il mondo e predicate il vangelo, battezzando e insegnando ad osservare tutto ciò che vi ho comandato».

Durante l’episcopato di Claudio Apollinare, che fu vescovo durante l’imperio di Marco Aurelio (161-180), si raccolse a Gerapoli un sinodo che scomunicò ed espulse dalla chiesa Montano ed i suoi discepoli Massimilla e Teodoto; per notizie sul montanismo vedi la spiegazione tenuta a Laodicea, nella tappa successiva del viaggio).

A Gerapoli è stata anche ritrovata l’iscrizione di Abercio, che è della fine del II secolo o degli inizi del III, voluta dallo stesso Abercio, vescovo di Gerapoli. Su di lui esisteva una leggenda del IV secolo, riportata da codici medievali ma ritenuta in passato falsa, come l’iscrizione greca in versi ivi contenuta. Nel 1883 l’archeologo scozzese William Ramsay rinvenne, incastrati nelle mura delle terme dell’antica Gerapoli, due frammenti originali di tale epitaffio, perfettamente corrispondenti al testo fino allora conosciuto. L’iscrizione di Abercio, i cui frammenti vennero poi donati al papa Leone XIII, è oggi la più antica iscrizione cristiana sicuramente databile. Vi si notino i molti riferimenti ad immagini bibliche (Gesù è il “casto pastore”), all’eucarestia, come pure l’esplicito richiamo alle Scritture, “degne di fede”, e alla figura di Paolo, “compagno di viaggio” (sia per le lettere che evidentemente Abercio leggeva nei suoi viaggi, sia perché lo aveva preceduto nelle città nelle quali passava).

Ecco la traduzione del testo (tra parentesi quadre i versi integrati):
[Cittadino di eletta città, mi sono fatto questo monumento da vivo, per avere qui nobile sepoltura del mio corpo: io di nome Abercio, discepolo del casto Pastore che pascola greggi di pecore per monti e pianure, che ha grandi occhi, che dall’alto guardano dovunque. Egli infatti mi istruì in Scritture degne di fede e] mi inviò a Roma a contemplare il regno e vedere la regina in aurea veste ed aurei calzari. Vidi là un popolo che porta uno splendido sigillo. Visitai anche la pianura e tutte le città della Siria e, passato l’Eufrate, Nisibi. E ovunque trovai compagni, avendo Paolo compagno di viaggio. Dappertutto mi guidava la fede e m’imbandì per cibo dovunque un pesce di fonte immenso, puro, che la casta vergine prende e porge a mangiare agli amici ogni giorno, [avendo un vino eccellente, che ci mesceva insieme col pane. Queste cose ho fatto scrivere qui io Abercio in mia presenza, mentre avevo in verità settantadue anni. Chiunque comprende queste cose e sente come me, preghi per Abercio. Nessuno poi metta altro nel mio sepolcro: se no, pagherà all’erario dei Romani duemila aurei e all’ottima patria Gerapoli mille].

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