Efeso: resto del tempio di Artemide, Artémision (clicca sull'immagine per leggere di Efeso nella 1Cor)
Un ulteriore brano paolino che è bene meditare ad Efeso è il versetto di 1 Cor 15, 32: «Se soltanto per ragioni umane io avessi combattuto a Efeso contro le belve, a che mi gioverebbe? Se i morti non risorgono, mangiamo e beviamo, perché domani moriremo». Paolo fa riferimento al pericolo che dovette correre a motivo della rivolta degli argentieri che fabbricavano le statuette di Artemide efesina. Riportiamo un breve commento tratto dallo splendido volume di Franco Manzi, Paolo apostolo del risorto, San Paolo, Cinisello Balsamo, 2008, pp. 137-141:
Soltanto quando si ama a tal punto la vita e la terra
da pensare che con la loro fine tutto è perduto
si può credere alla risurrezione dei morti
e a un mondo nuovo (Dietrich Bonhoeffer).
Ma «se non esistesse risurrezione dai morti?» (1 Cor 15,13): anche Paolo si è lasciato provocare da questo dubbio sorto tra i cristiani di Corinto. E ripensando, alla luce di questa ipotesi alla sua instancabile attività apostolica, si è chiesto nella Prima Lettera ai Corinzi (15,30-32): «Perché noi [apostoli] ci esponiamo di continuo al pericolo? Io, ogni giorno, affronto la morte [...]! Se soltanto per ragioni umane io avessi combattuto a Efeso contro le belve, a che mi gioverebbe?» Poi, però, con uno sguardo lucido e disincantato, l’apostolo tira le fila di questo ragionamento ipotetico –per lui comunque inaccettabile-, scrivendo: «Se i morti non risorgono, mangiamo e beviamo, perché domani moriremo!» (15,30b). Senza dubbio fa bene alla nostra fede non dare per scontata la risposta all’interrogativo sulla morte, perché esso è paradossalmente l’interrogativo della vita: «Se non esistesse risurrezione dai morti, che ne sarebbe di me, alla fine? Che ne sarebbe delle persone a me più care? Che senso avrebbero i sacrifici che faccio, il bene che voglio, le energie che spendo per raggiungere nella vita determinate mete? Ma che senso avrebbe la vita in quanto tale?». Verosimilmente, se non ci fosse risurrezione dai morti, l’esistenza terrena potrebbe continuare ad avere anche tanti significati: ciascuno potrebbe comunque individuare i propri scopi da perseguire e i propri valori su cui scommettere per vivere felice. Sarebbero però significati sempre e soltanto parziali e provvisori, in quanto esclusivamente “terreni”. Ma non è che significati sempre e soltanto parziali e provvisori finiscano, prima o poi, per causare nell’uomo la «nausea» di «essere di troppo» sulla faccia della terra, come confessava il filosofo esistenzialista ateo Jean-Paul Sartre (1905-1980)? Non è che il desiderio di felicità infinita sperimentato da ogni essere umano a lungo andare si ammali, se viene sempre e soltanto sottoalimentato da gioie limitate e passeggere? La “malattia mortale” del desiderio non è dovuta al fatto che queste gioie siano già ingrigite a priori dalla prospettiva inesorabile della loro fine nel baratro del nulla? È vero: tante persone preferiscono scantonare abilmente dal pensiero della morte e i modi per farlo sono molti. Denunciando la «chiacchiera» come una delle maniere più consuete di rapportarsi in maniera inautentica alla morte dell’«Esserci», cioè dell’uomo, il filosofo esistenzialista Martin Heidegger (1889-1976), in Essere e tempo (Sein und Zeit, 1927), scrive: «La morte è concepita come qualcosa di indeterminato che, certamente, un giorno o l’altro, finirà per accadere, ma che, per intanto, non è ancora presente e quindi non ci minaccia. Il “si muore” diffonde la convinzione che la morte riguarda il Si anonimo. L’interpretazione pubblica dell’Esserci [=l’uomo] dice: “Si muore”; ma poiché si allude sempre a ognuno degli Altri e a noi nella forma del Si anonimo, si sottintende: di volta in volta non sono io. Infatti il Si è il nessuno. Il “morire” è in tal modo livellato a un evento che certamente riguarda l’Esserci, ma non concerne nessuno in proprio. Mai come in questo discorso intorno alla morte si fa chiaro che alla chiacchiera si accompagna sempre l’equivoco. Il morire, che è mio in modo assolutamente insostituibile, è confuso con un fatto di comune accadimento che capita al Si» (§ 51). D’altra parte, c’è chi cerca di razionalizzare la morte: visto che nessuno può sfuggirle, tanto vale rassegnarvisi! Per farlo, ci si accontenta persino del giochetto logico del filosofo greco Epicuro (341-271 a.C.): «Il più terribile dunque dei mali, la morte, non è nulla per noi, perché quando ci siamo noi non c’è la morte, quando c’è la morte noi non siamo più. Essa non è nulla dunque, né per i vivi né per i morti, perché per i vivi non c’è, e i morti non sono più» (Epistola a Meneceo, 124-127,1). Ragionamenti del genere non sono banali escamotage che lasciano il tempo che trovano? Alla fine rimane il dramma del non cre¬dente che percepisce come tutto ciò che di bello, di buono e di ve¬ro si dischiude nella manciata di anni inquieti di una vita sia desti¬nato a scivolare inesorabilmente nel nulla.
Dunque, al di là di ragionamenti leziosi e vacui sull'inesistenza della morte genericamente intesa, resta il dato nudo e crudo del mio morire, ossia del mio giungere, prima o poi, alla fine della vita: «Gli anni della nostra vita -riconosce con realismo il salmista- sono set¬tanta, ottanta per i più robusti, ma quasi tutti sono fatica, dolore; passano presto e noi ci dileguiamo» (Sal 90,10). La previsione del mio morire ripropone l'interrogativo inquietante: se davvero, dopo alcuni decenni di vita -faticosi o gioiosi che siano-, ci si dile¬guasse nell'oceano del nulla, che senso avrebbe vivere? Che senso avrebbe agitarsi senza requie per il presente, per il futuro, per le persone amate o generate? «Finito io, finito tutto!». In realtà, non è vero -con buona pace di Epicuro e dei suoi se¬guaci- che «la morte non c'è». L'esperienza quotidiana ci sbatte in faccia il dato inoppugnabile che le persone muoiono: talvolta, ce lo fa percepire in maniera brutale; più spesso, in modo discreto e qua¬si inavvertibile; sempre, sotto la forma del morire altrui. Ma il morire di altri è già un'amara pregustazione del nostro finire nella morte, che ci attende al varco. Il morire c’è e fa male... E fa male a tutti! Fa male anzitutto a chi sta morendo. Per rendersene conto, basta iniziare a considerare il fatto che nelle società post-moderne la morte è diventata tabù. Un velo di silenzioso riserbo è fatto calare di frequente sul malato terminale e sul morente, che i parenti più stretti, sia pure senza un’esplicita intenzione di abbandono, finiscono non di rado per affidare e confinare in strutture ospedaliere o in case di cura...
Il morire altrui fa male anche a chi continua a vivere, perché va a colpire i suoi legami d’affetto con il morente, che precedentemente alimentavano il desiderio di felicità di entrambi. Questi legami sono progressivamente ma inesorabilmente sfilacciati, in maniera più o meno lenta e dolorosa, dall’insieme di situazioni connesse al deperimento psico-fisico che conduce la persona amata alla morte, finché vengono strappati del tutto nell’istante del decesso...
...Già i credenti dell’Antico Testamento, per lo meno fino al II secolo a.C., non essendo ancora illuminati dalla speranza nella risurrezione dai morti, erano consapevoli di essere «come l’erba dei tetti», che, «prima che sia strappata, dissecca» (Sal 129,6). Perciò chiedevano a Dio stesso d’insegnare loro a contare i giorni della vita, così da giungere alla sapienza del cuore (Sal 90,12).
Da parte sua Paolo, già da fariseo, coltivava, con la maggior par¬te dei Giudei dei suoi tempi, un'intensa speranza nella risurrezio¬ne universale dai morti (At 23,6). Questa speranza si era rafforzata e precisata in lui alla "luce" di Cristo risorto, che gli si era rivelato sulla strada di Damasco. Ben differente era la situazione dei cristiani di Corinto, prove¬nienti da una tradizione culturale e religiosa incline piuttosto a ri¬fiutare la risurrezione dai morti. Per aiutarli a maturare nella fede cristiana, l'apostolo accetta, nella Prima Lettera al Corinzi, di ra¬gionare a partire dalle loro convinzioni erronee. Considerando, sol¬tanto per ipotesi, il dramma di un'esistenza destinata inesorabil¬mente alla morte, senza la speranza di risorgere con Cristo, Paolo non esita a far prendere loro coscienza di un dato di fatto inoppu¬gnabile: «Se Cristo non fosse risorto», tutto sarebbe vano: la sua predicazione, la loro fede; «e -aggiunge- anche quelli che sono morti in Cristo sono perduti. Se poi noi abbiamo avuto speranza in Cristo soltanto in questa vita, siamo da compiangere più di tutti gli uomini!» (1 Cor 15,14.17.18-19). Finito tutto! Anzi, oltre il danno, la beffa!