Giacomo Poretti. La parola scritta nell'era Twitter: «I miei genitori sono sempre stati molto poveri. Ma non mi hanno mai abbandonato. E mi hanno sempre regalato libri... L’epoca moderna consente a noi abitatori della storia di usufruire di miracoli tecnologici che a volte ci autorizzano persino a dubitare della necessità di Dio»
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Riprendiamo sul nostro sito un video pubblicato sul sito de La stampa il 13/5/2012. Di Giacomo Poretti vedi su questo stesso sito anche il video
ed i testi
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- Quando spunta l'anima di un bambino. Viaggio tra dubbi ed emozioni di un papà che vuole aiutare i figli a crescere
- È più facile fare il premier che fare il papà.
Il Centro culturale Gli scritti (14/5/2012)
Giacomo Poretti. La parola scritta nell'era Twitter
Buon giorno. E buona domenica. Il primo libro che mi regalarono fu «La capanna dello zio Tom», era della Fratelli Fabbri editori e apparteneva a una collana per ragazzi, la copertina era cartonata e azzurra: era il Natale della seconda elementare e mi fu regalato insieme a una bici senza rotelle e ai «Promessi sposi», anche questo della Fratelli Fabbri, di colore giallo e sempre cartonato.
Il Natale della terza elementare non lo dimenticherò mai per due motivi. Il primo è che ricevetti in regalo un fortino con i soldatini e gli indiani a cavallo: ci giocai ininterrottamente fino all’Epifania senza mangiare e senza bere. Il secondo motivo è che ricevetti in dono anche due libri: «Le mie prigioni» e «Oliver Twist». Ricordo che guardai i miei genitori e pensai: «Sono troppo poveri, mi vogliono abbandonare».
Questa convinzione si rafforzò l’anno seguente quando trovai un pacchettino vicino al presepe che conteneva il libro «Passerotti senza nido». I miei genitori sono stati sempre poveri, ma non mi hanno mai abbandonato e mi hanno sempre regalato libri, chissà perché?Forse perché non ne hanno mai letto uno, forse perché volevano riscattarsi tramite i figli, forse perché intuivano che tra quelle pagine, a loro impedite, vi erano storie straordinarie. Per il regalo della quinta elementare non hanno atteso il Natale: il giorno del mio compleanno si presentarono con un pacco gigantesco avvolto da una carta marrone. La carta si cercava di non romperla perché sarebbe servita per altri compleanni, quindi con cautela sciolsi il nastrino rosso e rimasi paralizzato dallo stupore nel constatare che mi avevano regalato «La Divina Commedia» illustrata da Gustave Doré, ovviamente era una copia anastatica. Dopo qualche secondo di silenzio mia madre disse: «Non ti piace? è bellissimo sai, papà lo ha comperato a rate». Un librone di 6 chili e mezzo pagabile in 24 rate mensili di 1000 lire l’una. Dico subito che non ho niente da opporre seriamente a Internet e al suo mondo, se non la nostalgia. È per questo motivo che non ce la farò mai a leggere un libro su un tablet, che per me è come far l’amore con una bambola di plastica. Una volta mi è capitata un’esperienza curiosa: tutti i miei amici mi dicevano che Twitter è fantastico, che ti fa sentire vicino a chiunque nel mondo e che ci puoi fare cose incredibili tipo che c’era uno scrittore che aveva deciso di pubblicare un suo racconto nella speranza di essere letto in tutto il Pianeta. Io ho scaricato l’applicazione di Twitter e ho provato a seguire l’esperimento. Sei frasi da 140 caratteri al giorno: dopo tre giorni il protagonista non aveva ancora finito di lavarsi i denti… Mi sono rotto le palle. Ho chiesto a un amico cosa era successo dopo due settimane, mi ha detto che il protagonista si stava annodando la cravatta e che se tutto andava bene per Ferragosto sarebbe uscito di casa! L’epoca moderna consente a noi abitatori della Storia di usufruire di miracoli tecnologici che a volte ci autorizzano perfino a dubitare della necessità di Dio. Il compiersi prepotente e affascinante della tecnologia sta modificando dentro di noi la percezione di chi siamo e di cosa ci sentiamo in diritto di provare. Una volta acquistavamo una macchina fotografica, spesso ci veniva regalata il giorno della Cresima, si mettevano da parte i soldi per i rullini e poi si portavano le foto a stampare: un terzo erano da buttare, ma le altre le si incorniciava, le si metteva nell’album con il quale si sfinivano gli amici fino a tarda notte; oppure dolcemente ci si immalinconiva nelle sere di inverno, ogni pagina che si voltava si era più grandi di qualche anno, in genere con 8-9 pagine si passava dall’asilo fino a quando si diventava papà.
Un centinaio di foto per sintetizzare trenta, quarant’anni di vita. Ora nei nostri computer immagazziniamo 18.756 foto, tradotti in giga byte: 122! Vi ricordo che i primi pc portatili avevano un hard disk di 20, 30 giga al massimo. Se una volta per vedere l’album di un amico ci si rovinava una serata intera, e calcolando che un album contenesse poco più di un centinaio di foto, significa che per vedere tutta la collezione su iPhoto di 18.756 foto dovremmo romperci le balle per 187 giorni: tutto l’autunno e tutto l’inverno! È per questo che le foto sui computer non le guarda più nessuno: si scatta come degli invasati con i cellulari, con le macchine compatte, con gli iPad, si scaricano sul Pc e poi ci si vanta con gli amici. Non si dice: «Sono stato in India e ho fotografato il Taj Mahal all’alba», ma: «Ho fatto un viaggio con un last minute e ho portato a casa 80 giga di immagini, vuoi venire a vederle mentre ci mangiamo un sashimi da asporto?». «Verrei volentieri ma stasera devo importare tutta la mia libreria di musica sull’iPhone: 3672 brani, 64 giga, 28 giorni di ascolto!». Una volta si conoscevano a memoria le parole delle canzoni di tutto un Lp, ora non sappiamo nemmeno chi canta perché usando il random è il «device» che decide cosa ascoltare. Rischiamo di non avere più la foto del cuore che ingiallisce e si piega insieme a noi, rischiamo di non amare più nessun cantante, confusi e ammassati dentro agli hard disk di un terabyte. Convinti come siamo di poter possedere tutto, di conoscere tutto, in realtà accumuliamo tutto, con il terrore che nessun cantante possa sfuggire alle nostre playlist, che ogni momento della vita possa essere fotografato e immagazzinato. L’importante è archiviarlo, backupparlo, duplicarlo, masterizzarlo. Vedere o ascoltare è secondario. Dicono che questa sia l’epoca della privacy e della sicurezza. Per me questa è l’epoca del terrore di dimenticare la password. Quando ci inventiamo una password il sistema ti dice il grado di sicurezza, in genere ti suggeriscono almeno dieci caratteri, qualche carattere maiuscolo, un segno di punteggiatura. La mia è più lunga di un messaggio Twitter: 143 caratteri, massima sicurezza per il sistema ma impossibile da ricordare, e allora bisogna scriverla su un quadernetto segreto. Ognuno si sbizzarrisce nel modo più originale possibile per ingannare l’eventuale ladro o hacker che verrà in possesso del nostro quadernetto, che normalmente mettiamo nel frigorifero avvolto nella carta del salame assieme ai gioielli di famiglia. C’è chi scrive un nome inventato di una persona, e poi accanto un finto prefisso telefonico e a seguire la password vera, sgamabilissima perché non c’è nessuna compagnia telefonica che ti assegni un’utenza con 23 numeri. Poi ci sono quelli che mettono le date di nascita della moglie e dei figli, e nonostante ciò si dimenticano poi di fare il regalo di compleanno alla moglie. Infine ci sono quelli più fantasiosi che usano i loro miti sportivi: è probabile che la password del direttore Calabresi sia «Terza stella», quella del vicedirettore Gramellini sia «Abbasso la Rubentus» e che Gianni Riotta abbia scelto «22 05 2010 Triplete». Ho sentito un conduttore radiofonico congedarsi con i suoi ascoltatori in questo modo: «Ci risentiamo domani mattina, ma nell’attesa potete seguirmi su Facebook, scrivermi una mail all’indirizzo tal dei tali, cinguettare con Twitter e se mi avete perso mi potete riascoltare con un podcast, e se vi manco proprio tanto tanto mi trovate su YouTube». E poi che fai? Andiamo in vacanza insieme? Ma scusate qui si rischia che se ascolti una canzone alla radio finisce che ti sposi il conduttore! Fate attenzione a dove vi sintonizzate.
La stessa cosa vale per il cibo, la cucina: vorremmo aver assaggiato tutto, mangiato di tutto, cinese, giapponese, messicano, africano, mongolo, toscano, francese, emiliano; per non parlare delle vertiginose elaborazioni dei cuochi a 2 o 3 stelle Michelin, dove si arriva al miracolo della cuisine molecolier: non substance ma nuance! Proposta: e se per una mezza giornata ci comprassimo una michetta ancora calda e aggiungessimo due fette di salame; da bere, rigorosamente una bonarda dell’Oltrepò, poi uno sceglie una canzone a piacere ( io «Have I Told You Lately That I Love You»di Van Morrison), poi mettiamo una foto dei nostri nonni appoggiata alla bottiglia e iniziamo a porci queste domande: Come si fa una michetta? Con che farina? Come si fa a farla con quella forma? E il salame quanto ci vuole perché sia commestibile? E Van Morrison a chi avrà dedicato quella canzone, per chi si sarà sentito lo scrupolo di domandarsi «se ultimamente le aveva detto che l’amava»? Infine i nonni della foto ci aiuteranno forse a non essere così in ansia se al prossimo compleanno il display dello smartphone ci dirà «Memoria piena, non è possibile scattare altre foto», perché loro, i nonni, le foto del loro compleanno non le hanno mai avute.