Fausto
Coen
Italiani ed ebrei: come eravamo
Marietti, Genova, 1988
L'11 novembre 1938 il consiglio dei ministri
approva in Italia le Leggi per la difesa della razza.
D: Quale effetto ha avuto sulla politica fascista della razza la conquista
dell'Impero?
R: La conquista dell'Impero ha avuto l'effetto d'imporre la tutela dell'unità
e della purezza della razza italiana, come condizione della nostra superiorità
colonizzatrice e perché non avvengano miscugli di sangue che determinerebbero
il triste e ripugnante fenomeno del meticcismo, rovina delle nazioni e degli
imperi.
D: Gli ebrei appartengono alla razza italiana?
R: No, gli ebrei, anche se nati in Italia non appartengono alla razza italiana.
Essi rappresentano l'unica popolazione che non si è mai assimilata in
Italia perché è costituita da elementi razziali non europei, diversi
in modo assoluto da quelli che hanno dato origini agli Italiani.
D: Chi è considerato di razza ebraica?
R: E' considerato di razza ebraica colui che nasce da genitori entrambi ebrei,
o da padre ebreo e madre di nazionalità straniera, o, pure essendo nato
da un matrimonio misto, professa la religione ebraica, oppure la professava
dopo il I° Ottobre dell'anno XVI.
D: Qual è stato, generalmente parlando, l'atteggiamento degli ebrei nei
riguardi dell'Italia fascista?
R: L'ebraismo mondiale è stato l'animatore dell'antifascismo in tutti
i campi, nonostante la larghissima tolleranza di cui gli ebrei hanno goduto
in Italia, e abusato, prima delle leggi restrittive.
D: Quali provvedimenti sono stati presi per mantenere la purezza del sangue
e dello spirito italiano e per difendere lo stato e l'anima nazionale da un'infiltrazione
estranea e nociva?
R: Il regime ha preso i seguenti provvedimenti:
a) di carattere generale
divieto di matrimonio di italiani e italiane con elementi
appartenenti alle razze semita, camita e altre razze non ariane;
divieto ai dipendenti civili e militari dallo stato e da
enti pubblici di contrarre matrimonio con donne straniere di qualsiasi razza;
obbligo a tutti gli italiani e italiane che vogliano contrarre
matrimonio con stranieri anche di razze ariane, di chiedere il preventivo
consenso del Ministero degli Interni;
-
rafforzamento delle misure contro chi attenta al prestigio
della razza nei territori dell'Impero, e sanzioni penali per la difesa del
prestigio di razza di fronte ai nativi dell'Africa italiana;
- leggi speciali riguardanti la posizione dei meticci in A.O.I.
e il loro riassorbimento da parte delle razze di colore.
b) di carattere particolare
-
divieto d'entrata di ebrei di cittadinanza straniera in
Italia, ed espulsione degli ebrei stranieri venuti in Italia dopo il 1919,
anche se abbiano acquistato la cittadinanza italiana, eccettuati quelli di
età superiore ai 65 anni o che abbiano contratto matrimonio misto italiano
prima del I° ottobre Anno XVI;
esclusione degli ebrei dal P.N.F.
esclusione degli ebrei dal servizio militare in pace e in
guerra;
esclusione degli ebrei dai pubblici uffici;
esclusione degli ebrei dall'insegnamento delle scuole italiane
di ogni ordine e grado;
divieto agli ebrei di possedere, dirigere, amministrare,
controllare aziende interessanti la difesa nazionale, banche, istituti di
credito o di previdenza d'interesse pubblico, e aziende di qualsiasi natura
che impieghino cento o più persone;
divieto agli ebrei di essere possessori di terreni il cui
estimo superi le Lire 5000 e di fabbricati il cui reddito imponibile superi
le Lire 20000;
divieto agli ebrei di tenere al loro servizio, in qualità
di domestici, persone di razza ariana.
Così le domande e le risposte ne
Il primo libro del fascista (Mondadori, Verona, 1940),
uno dei tanti libri di educazione fascista della gioventù.
Fausto
Coen
16 ottobre 1943. La grande razzia degli ebrei di Roma
Giuntina, Firenze, 1993
Kappler prese in modo autonomo l'iniziativa della estorsione
dei 50 chili d'oro agli ebrei romani.
Il progetto si rivela astuto e infame e agisce in varie direzioni. Prima di
tutto Kappler farà credere agli ebrei romani che da loro non si
vuole di più e lasciandoli in questa illusione tragica consentirà
di fatto che si realizzi quel blitz di sorpresa che Himmler avrebbe voluto
per il 1° ottobre ma che il rifiuto di un appoggio militare da parte di
Kesselring aveva reso impossibile per quella data. In secondo luogo Kappler
darà all'esecutore materiale del piano (che sarà Dannecker)
tutto il tempo necessario per organizzare la grande retata con metodo e garanzie
di riuscita.
Domenica 26 settembre alle 10 del mattino il dottor Gennaro
Cappa, Capo del Servizio Razza della Questura di Roma, informava il dottor
Dante Almansi, Presidente della Unione delle Comunità Israelitiche
Italiane, e l'avvocato Ugo Foà, Presidente della Comunità
Israelitica di Roma, che alle ore 18 di quella stessa Domenica dovevano recarsi
a Villa Volkonsky dove li aspettava nel suo Ufficio di “Sicurezza Politica”
il tenente colonnello Herbert Kappler per importanti comunicazioni.
Così Foà racconta l'incontro con Kappler:
“Cambiando improvvisamente tono ed accento, mentre il suo sguardo diveniva tagliente
e duro, fece ai suoi interlocutori il seguente discorso: Voi ed i vostri correligionari
avete la cittadinanza italiana, ma di ciò a me importa poco. Noi tedeschi
vi consideriamo unicamente ebrei e come tali nostri nemici. Anzi, per essere
più chiari, noi vi consideriamo come un gruppo distaccato, ma non isolato,
dei peggiori fra i nemici contro i quali stiamo combattendo. E come tali dobbiamo
trattarvi. Però non sono le vostre vite né i vostri figli che
vi prenderemo se adempirete alle nostre richieste. E' il vostro oro che vogliamo
per dare nuove armi al nostro Paese. Entro 36 ore dovrete versarmene 50 chilogrammi.
Se lo verserete non vi verrà fatto alcun male. In caso diverso duecento
fra voi verranno presi e deportati in Germania alla frontiera russa o altrimenti
resi innocui...”
Trentasei ore: la consegna dunque doveva avvenire entro le
12 del 28 settembre.
Nella lunga fila che per 36 ore si snodò sul marciapiede
che costeggia il Lungotevere Cenci, dove, accanto alla Sinagoga principale,
si trovano gli uffici comunitari, c'erano ricchi e poveri, intellettuali e commercianti,
artigiani e venditori ambulanti, gente colta e sprovveduta, ben vestita o dismessa.
Alcuni recavano con sé pacchetti di una certa consistenza, altri involtini
assai più piccoli. La rinuncia a un esile anello, a un paio di orecchini
consunti, a una vecchia spilla o a un modesto braccialetto, esibiti al Tempio
solo nelle feste solenni di Rosh Hashanà (il Capodanno) o di Kippur (il
giorno dell'espiazione), è stata per i più poveri una ferita dolorosa.
Erano oggetti che ricordavano miniàn, nozze, milot, nascite, persone
scomparse. Quegli oggetti avevano scandito alcuni momenti felici. Quel mucchietto
di oro era stato un muto testimone della propria storia di famiglia.
In quella lunga fila non c'erano solo ebrei. C'erano persone
alle quali Kappler non aveva chiesto nulla ma che avevano voluto esprimere
la loro solidarietà a una minoranza offesa e in pericolo. Erano quegli
stessi “uomini giusti” che cinque anni prima, nel 1938, avevano mostrato la
loro solidarietà agli ebrei colpiti dalle inique leggi razziali e che
la propaganda fascista aveva indicato al disprezzo generale come “pietisti”.
E tra costoro non mancarono in quelle 36 ore nella lunga fila anche alcuni sacerdoti.
La S. Sede faceva sapere in via ufficiosa al Presidente della
Comunità che ove non fosse stato possibile raggiungere i 50 chili nel
termine fissato avrebbe coperto la quantità mancante. La Comunità
l'avrebbe restituita “quando - ricorda Foà - fosse stato in grado
di farlo…”. Era un prestito, non un dono, al quale però non fu necessario
ricorrere, perché col passare delle ore cresceva sorprendentemente il
numero degli offerenti.
In ogni caso la disponibilità vaticana sollevò
la Comunità dall'incubo di non raggiungere la taglia imposta da Kappler.
La consegna dell'oro doveva avvenire non già a Villa
Volkonsky ma a Via Tasso, nella palazzina n. 155 che non era ancora il
luogo sinistro delle torture e del terrore, ma almeno formalmente “l'Ufficio
di Collocamento dei Lavoratori italiani per la Germania”.
Alle ore 16 in Via Tasso Kappler non si presentò.
Non aveva voluto abbassarsi alla meschina formalità di ricevere quell'oro
che aveva estorto. Si era fatto sostituire da un ufficiale di grado inferiore,
il capitano Kurt Schutz, che rivelò subito modi arroganti e diffidenti.
Lo Schutz si era fatto assistere da un orafo romano, di cui non si è
mai saputo il nome, e da un altro ufficiale delle SS inviato da Berlino con
un corriere speciale. La pesatura fu eseguita con una bilancia della portata
di 5 chili. Ogni pesata veniva registrata contemporaneamente da Dante Almansi
e da un ufficiale tedesco, che si trovavano alle due estremità del tavolo.
Alla fine dell'operazione, mentre Almansi aveva segnato dieci pesate, il capitano
Schutz dichiarava risentito che le pesate erano nove. Le proteste di tutti gli
ebrei presenti irritarono ancor di più il capitano che si opponeva anche
a quella che era la via più semplice per sciogliere ogni dubbio: cioè
ripetere l'operazione. Finalmente, di fronte alle vive insistenze da parte ebraica,
il capitano Schutz diede ordine di ripetere le pesate. Dovette arrendersi alla
realtà: i chili erano proprio 50 e gli ebrei non erano imbroglioni.
(Alcuni giorni dopo) tutto il complesso degli edifici che
comprendono il Tempio Maggiore e gli uffici comunitari fu circondato
da un cordone di SS. Ogni uscita fu bloccata e agli impiegati fu intimato di
non muoversi dai loro posti. Subito dopo un gruppo di ufficiali e sottoufficiali
tedeschi dei quali alcuni esperti in lingua ebraica “... cominciarono una minuziosa
perquisizione di tutto l'edificio dalla cupola della Sinagoga fino al sottostante
Oratorio di rito spagnolo e alle cantine...”.
Nonostante la perquisizione non avesse portato alla scoperta
di “documenti segreti”, una grande quantità di carte venne ugualmente
prelevata forzando armadi e cassetti quando non venivano subito reperite le
chiavi.
Tra le carte vennero prelevati anche i ruoli dei contribuenti
che saranno, a guerra finita, al centro di discussioni e polemiche. Mentre gli
schedari anagrafici di stato civile e i fogli di famiglia erano stati prudentemente
messi al sicuro, quei ruoli considerati solo documenti tributari erano rimasti
negli uffici senza tener conto che anch'essi recavano le generalità e
gli indirizzi dei contribuenti.
La mattina del 30 settembre, Capodanno secondo il calendario
ebraico, due ufficiali tedeschi tornavano a Lungotevere Cenci questa
volta per ispezionare le biblioteche del secondo e del terzo piano. Erano due
orientalisti, uno dei quali col grado di capitano si era qualificato professore
di lingua ebraica in un Istituto superiore di Berlino. Il giorno successivo,
il 1° ottobre, i due tornavano per esaminare con più attenzione i
volumi esprimendo spesso meraviglia e ammirazione e prendendo numerosi appunti.
Eichmann decideva allora di inviare a Roma per la “Judenrazzia”
Theo Dannecker, un esperto di sua fiducia, relatore per gli affari ebraici
“che aveva dato il via ai rastrellamenti di ebrei a Parigi...”. Dannecker, per
non dare nell'occhio, fissava il suo quartier generale non in via Tasso ma in
una modesta pensione in via Po. Dopo pochi giorni arrivava anche il suo
reparto speciale, formato da quattordici ufficiali e sottoufficiali e trenta
militi delle SS che in parte provenivano dalle formazione specializzate nella
“bonifica antiebraica” sul fronte orientale, le famigerate “ Einsatzgruppen”.
Alle ore 23 di venerdì 15 i coniugi Sternberg -
Monteldi, entrambi ebrei che provenivano da Trieste e avevano preso alloggio
a Roma all'albergo Vittoria, pur essendo muniti di passaporto
svizzero vennero arrestati dalle SS e sottoposti ad interrogatorio. Da nessun
documento risultava che fossero ebrei, nè i loro nomi figuravano su nessuno
degli elenchi di Dannecker. E' impossibile stabilire come la loro presenza fosse
stata segnalata alle SS.
La grande razzia cominciò attorno alle 5,30. Vi presero
parte un centinaio circa di quei 365 uomini (di cui 9 ufficiali e 30 sottoufficiali)
che erano il totale delle forze impiegate per la “Judenoperation”.
Le SS entrarono di casa in casa arrestando le intere famiglie
in gran parte sorprese ancora nel sonno. Quando le porte non vennero subito
aperte le abbatterono col calcio dei fucili o le forzarono con leve di ferro.
Tutte le persone prelevate vennero raccolte provvisoriamente in uno spiazzo
che si trova poco al di là dello storico Portico d'Ottavia attorno
ai resti del Teatro di Marcello. La maggior parte degli arrestati
erano adulti, spesso anziani e assai più spesso vecchi. Molte le donne,
i ragazzi, i fanciulli. Non venne fatta nessuna eccezione nè per persone
malate o impedite, nè per le donne in stato interessante, nè per
quelle che avevano ancora i bimbi al seno. Per nessuno.
I tedeschi tentarono di dare alla brutale operazione il carattere
di un “trasferimento”. Volevano un gregge inconsapevole e cercavano di evitare
possibili gesti inconsulti, atteggiamenti ostili, disordini. Cercavano di evitare
intoppi e contrattempi che potevano rallentare l'operazione. Volevano soprattutto
fare presto.
A questo fine avevano consegnato a ciascuno un ordine bilingue:
-
Insieme con la vostra famiglia e con gli altri ebrei
appartenenti alla vostra casa sarete trasferiti.
-
Bisogna portare con sè viveri per almeno 8 giorni,
tessere annonarie, carta d'identità e bicchieri.
-
Si può portare via
una valigetta con effetti e biancheria personali, coperte, eccetto., danaro
e gioielli.
-
Chiudere a chiave l'appartamento
e prendere la chiave con sè.
-
Ammalati, anche casi gravissimi,
non possono per nessun motivo rimanere indietro. Infermeria si trova nel campo.
-
Venti minuti dopo la presentazione
di questo biglietto, la famiglia deve essere pronta per la partenza.
Si voleva far credere alle vittime ad una destinazione non
definitiva. “Chiudere a chiave l'appartamento e prendere la chiave con sè”
faceva supporre un possibile ritorno. “Tessere annonarie e di identità”
implicavano una destinazione nella quale questi documenti avrebbero potuto servire.
Ma perché allora “ammalati anche gravissimi non possono restare indietro”?
Nessun quartiere della città fu risparmiato. In quelli
di Trastevere, Monteverde e Testaccio, i più prossimi
all'ex Ghetto, si ebbe il maggior numero di arresti.
Così come nelle dimesse case di Portico d'Ottavia anche
in quelle borghesi e signorili di Roma si consumò la grande tragedia.
Vennero versate lacrime, si diffuse la disperazione, si tentarono fughe disperate.
In via Brescia al n.29 i tedeschi si erano avvicinati al letto dove giaceva
la signora Sofia Soria vedova Tabet puntandole un'arma per sollecitarla
ad alzarsi. La signora Sofia, che aveva 92 anni, morì per lo spavento.
Era la suocera del prof. Vittorio Calò, generale medico. Le SS
tornarono due giorni dopo al funerale della poveretta sperando di arrestare
i famigliari. La mancanza di pietà verso i vegliardi, gli infermi, i
bambini appariva incomprensibile per i testimoni di quella giornata. Giulio
Anau ricorda che un parente, Beniamino Philipson, fu prelevato
nella sua abitazione di via Flavia 84 sulla sedia a rotelle di invalido,
perché da molti anni colpito da morbo di Parkinson, “tra la indignazione
dei presenti impotenti tuttavia di fronte ai mitra spianati....”.
In via Adalberto, non lontano da piazza Bologna,
le SS non trovarono nessuno: solo un bimbo di quattro anni - Ennio Lanternari
- che dormiva nel letto dei nonni in quel momento assenti. Le SS lo presero,
il bambino si svegliò spaventato e cominciò a piangere. Intanto
rientrava la nonna che era scesa un momento per comprare qualcosa. Presero lei
e il nipotino.
Anche Settimio Calò si salvò. Anche lui
era uscito di casa per fare la fila per le sigarette. ma quando tornò
nella sua casa, non trovò più nessuno. Né la moglie né
i dieci figli, il più grande dei quali aveva 21 anni e il più
piccolo, Samuele, ancora lattante, 4 mesi. “Mi gettai contro le porte,
volevo unirmi agli altri, non capivo più niente... poi mi sedetti a terra
e cominciai a piangere. Ho vissuto solo perché ho sempre sperato di riaverne
almeno uno, magari Samuele. Rimasi vivo io solo e vorrei essere morto“.
Alle ore 14 la grande razzia era terminata. I catturati erano
1259: 363 uomini, 689 donne, 207 bambini. Sia gli ebrei del vecchio quartiere
sia gli altri furono tutti provvisoriamente sistemati nei locali del Collegio
Militare, il vasto e massiccio edificio in Via della Lungara, dominato
dal Gianicolo. Gli uomini furono separati dalle donne e dai bambini. Divisi
in gruppi, furono distribuiti nelle aule, nei corridoi, nelle palestre e in
altri locali di fortuna. Quando questi spazi furono riempiti, gli uomini più
benportanti furono disposti sotto il porticato di ingresso. Tutte le imposte
delle aule erano state sbarrate con assi di legno inchiodate.
Il pianto incessante delle donne e dei bambini, gli incomprensibili
ordini urlati in continuazione dalle sentinelle, la semioscurità, l'inadeguatezza
dei servizi igienici crearono molta tensione e grande confusione.
All'alba di domenica, dopo un esame minuzioso delle carte
di identità e di altri documenti, furono liberati i coniugi e i figli
di matrimonio misto, i coinquilini e il personale di servizio non ebrei che
al momento della retata si trovavano nelle case dei ricercati. In tutto 237
persone. A Wachsberger fu ordinato sul posto di assumere le funzioni
di interprete e di tradurre l'ordine dell'ufficiale:
... coloro che non sono ebrei
si mettano da una parte. Se trovo un ebreo che abbia dichiarato di non esserlo,
appena la bugia sarà scoperta quello sarà fucilato immediatamente...
Nonostante la gravissima minaccia, sette ebrei riuscirono
a inserirsi nel gruppo di coloro che vennero liberati. Sono Giuseppe Durghello
con la moglie Bettina Perugia e il figlio Angelo; Enrico Mariani,
Angelo Dina, Bianca Ravenna Levi e la figlia Piera.
Dei 1022 infelici, una sola persona non era ebrea. Era una
donna cattolica che per non abbandonare un orfanello ebreo malfermo in salute
affidato alle sue cure non aveva avuto l'animo di dichiararsi non ebrea e aveva
voluto seguire la sua sorte. Nè il bimbo nè la sua generosa protettrice
sono più tornati.
Nella notte Marcella Perugia Di Veroli, al nono mese
di gravidanza, cominciò ad avere le doglie. I tedeschi non permisero
di trasferirla all'Ospedale, acconsentirono solo che venisse chiamato un medico.
La partoriente fu isolata nel porticato del Collegio Militare e diede alla luce
una bimba. Marcella Perugia aveva 23 anni e con lei erano stati arrestati
anche i suoi due figli di 5 e 6 anni. Il marito Cesare Di Veroli era
riuscito a sfuggire alla retata.
Nessun cenno della grande razzia è ovviamente reperibile
nei giornali dell'epoca. Essa può essere desunta solo da una notiziola
dall'apparenza innocente, quasi una “burocratica informazione di servizio”,
sui giornali romani del 18 ottobre. I quali informavano i lettori che “ la partenza
degli ufficiali per il Nord, fissata oggi alle 9, non può effettuarsi
dalla Stazione Tiburtina. Si parte domani da Termini”. La ragione era
evidente. Un ben diverso convoglio sarebbe partito quella mattina dallo scalo
periferico romano e nessun occhio indiscreto doveva essere testimone di quel
crimine.
All'alba di lunedì 18 ottobre gli oltre mille prigionieri
furono trasferiti su autocarri dal Collegio Militare allo scalo merci della
stazione ferroviaria. Su un binario morto si trovava da alcuni giorni un convoglio
composto da 18 carri bestiame. Gli arrestati furono tutti stipati nei vagoni:
50 o 60 su ogni carro, in uno spazio insufficiente. La penosa attesa degli arrestati
durò sei ore.
In fondo alla rampa su un binario morto rettilineo- scrive
Elsa Morante - stazionava un treno che pareva a Ida di lunghezza sterminata.
Il vocìo veniva di là dentro. Erano forse una ventina di carri
bestiame.... Non avevano nessuna finestra se non una minuscola apertura a grata
in alto. A qualcuna di quelle grate si sporgevano due mani aggrappate o un paio
d'occhi fissi.
Su questa sosta (a Padova), l'ultima in terra italiana, c'è
la annotazione sul suo diario giornaliero della ispettrice della Croce Rossa
Lucia De Marchi, quel giorno di servizio.
... alle ore 12, non preannunciato,
sosta alla nostra stazione centrale un treno di internati ebrei proveniente
da Roma. Dopo lunghe discussioni ci viene dato il permesso di soccorso. Alle
13 si aprono i vagoni chiusi da 28 ore! In ogni vagone stanno ammassate una
cinquantina di persone, bambini, donne, vecchi, uomini giovani e maturi. Mai
spettacolo più raccapricciante s'è offerto ai nostri occhi. E'
la borghesia strappata alle case, senza bagaglio, senza assistenza, condannata
alla promiscuità più offensiva, affamata e assetata. Ci sentiamo
disarmate e insufficienti per tutti i loro bisogni, paralizzati da una pietà
fremente di ribellione, da una specie di terrore che domina tutti, vittime,
personale ferroviarie, spettatori, popolo...
Alle ore 23 di venerdì 22 ottobre, dopo un viaggio allucinante
di 6 giorni e 6 notti, il treno arrivò ad Auschwitz-Birkenau.
Nessuno fu fatto scendere fino al giorno successivo. Il convoglio rimase ancora
sigillato e vigilato per tutta la notte.
Formatosi, sotto gli ordini urlati dalle SS, un allineamento
casuale, arrivò il dottor Josef Mengele, la cui fama sinistra
è oggi consegnata alla storia ma allora era un personaggio del tutto
ignoto ai nuovi arrivati. Sotto la sua direzione cominciò la selezione:
i bambini, i vecchi, i vecchi, i malati e coloro che avevano un aspetto gracile
o malaticcio (e anche uomini non vecchi ma coi capelli bianchi) vennero allineati
alla destra di Mengele e dei suoi aiutanti. Erano circa cinquecento.
Alla sua sinistra gli uomini e le donne giudicati adatti al
lavoro.
Intanto era giunto sul posto il Comandante del campo, Rudolf
Hoess. Normalmente Hoess non assisteva alla selezione dei prigionieri ma
nei giorni precedenti c'era stata una grande curiosità per l'annunciato
arrivo degli ebrei italiani. Gli stessi dirigenti del campo ne erano stati contagiati
e vollero assistervi. Era il primo convoglio di italiani che giungeva ad Auschwitz.
Il Comandante Hoess ordinò a Wachsberger
di tradurre l'annuncio che donne, bambini, ammalati sarebbero stati trasferiti
sui camion nei campi “di permanenza” che distavano circa 10 chilometri. Però
anche gli abili al lavoro, che si sentivano stanchi e volevano salire su quegli
autocarri, potevano farlo.
Duecento uomini e cinquanta donne abbandonarono le file dei
“validi” per unirsi agli altri che erano già sugli automezzi. Il viaggio
invece fu brevissimo, meno di un chilometro, percorso in pochi minuti. Gli autocarri
si fermarono davanti alle camere a gas. L'eliminazione fu immediata.
Wachsberger racconta che stava per salire anche lui
sul camion ma Mengele glielo impedì perché aveva ancora
bisogno di un interprete. Più tardi Wachsberger chiese al “dottore” (Mengele
amava spesso chiacchierare con lui e si mostrava curioso dell'Italia e soprattutto
di Mussolini) perché avevano lasciato salire sui camion anche uomini
e donne validi. “Chi non è in grado di fare a piedi dieci chilometri
- fu la risposta - non è adatto a fare il lavoro che si deve fare in
questo campo”. Ma i più erano saliti sui camion per altre ragioni. Sergio
Pace, ad esempio, era stato messo nella fila di quelli destinati al lavoro.
Volle salire sull'autocarro per stare assieme al padre e alla madre. Non lo
tradì né la “pigrizia” né la stanchezza, ma un sentimento
che non era stato mai così forte come in quel momento. E come lui fecero
molti altri.
Ci si può chiedere perché i tedeschi comunque
in questo modo rinunciavano ad una parte di uomini validi. La ragione vera è
che in quei giorni imperversava ad Auschwitz una epidemia di tifo. La immissione
di un numero eccessivo di prigionieri aumentava le probabilità che il
contagio si estendesse. Questo spiega perché nel convoglio del 23 ottobre
la percentuale di coloro che finirono subito nelle camere a gas fu dell'82%
(839 su 1022), la più alta in assoluto di tutti i successivi trasporti
di deportati dall'Italia.
Delle cinquanta donne destinate al lavoro una sola sopravvisse:
Settimia Spizzichino. Allora aveva 22 anni ed era stata presa con la
madre e due sorelle in via della Reginella. Solo il padre si era salvato
dalla retata. Sulla sorte delle 49 compagne che non sono più tornate
la Spizzichino pensa che “... la neve, i lavori pesanti, la cattiva alimentazione,
tutto ha contribuito alla decimazione”. Settimia si è salvata perché
era stata avviata ad un “blocco di esperimenti” e “… fu aiutata da una infermiera
di buon cuore...”. Quando venne liberata aveva 24 anni e pesava 30 chili. E'
persuasa che quello che l'ha aiutata a resistere è stato soprattutto
il pensiero che doveva tornare per raccontare...
Liliana
Picciotto Fargion
Il libro della memoria. Gli ebrei deportati dall'Italia
(1943-1945)
Mursia, Milano, 1991
L'elenco che segue, compilato in ordine alfabetico, è
il risultato di un lavoro decennale. Esso comprende solo i deportati accertati,
deceduti o reduci; non sono nominati quanti, pur arrestati, riuscirono a scampare
alla deportazione per rilascio, per sopravvenuta liberazione o per fuga (423
casi), e neppure i casi sui quali non si è potuto raggiungere sufficiente
certezza (412).
Negli elenchi che seguono, il totale degli ebrei deportati dal territorio italiano
“metropolitano” risulta di 6746; il numero totale degli ebrei deportati dal
Dodecaneso, riportati alla fine dell'elenco italiano, risulta di 1820; il numero
di coloro che perirono non direttamente per la deportazione, ma, comunque, in
conseguenza della persecuzione antiebraica risulta di 303.
Degli 8869 perseguitati 7860 sono deceduti durante la persecuzione.
Solo una posizione preconcetta può contestare la tragica dimensione e
la realtà di queste cifre. Avvalorarle con i nomi di ciascuno è
uno degli scopi di questo libro, un monumento alla memoria di tutte le vittime.
Nonostante gli sforzi e le ore impiegate ad analizzare documenti, si può
calcolare che mancano a questo elenco dalle 900 alle 1100 persone delle quali
si è ormai persa la speranza di ritrovare i nomi. Quest'opera vuole essere
un omaggio anche a loro, rimasti anche in questo libro insepolti: senza volto,
senza nome, ma non senza voce.
Chiunque, nel tempo, sarà in grado di aggiungere, correggere, integrare
i dati qui proposti verrà considerato benemerito.
Così scrive l'autrice, nell'introdurre il suo lavoro.
Louis
Goldman
Amici per la vita
SP 44 Editrice, Firenze, 1993
Nel mezzo di quel tenebroso periodo della storia dell'uomo che fu l'olocausto
ci furono esempi di sacrifici sublimi da parte di alcune persone per salvare da
morte certa gli oppressi.
Questa storia è un tributo verso un gruppo di sacerdoti cattolici italiani
i quali dal 1943 al 1945 rischiarono le loro vite per salvare me ed altri ebrei
dai nazisti.
Se sono stato trattenuto dallo scrivere del loro coraggio, della loro dedizione
e della profonda amicizia che si è instaurata tra noi è stato solo
perché qualunque accenno alle loro azioni li metteva invariabilmente a
disagio.
Ma i testimoni scompaiono e con loro la irrecuperabile documentazione di ciò
che è avvenuto.
Ora i miei figli sapranno. E ricorderanno per sempre.
Con queste parole Louis Goldman,
fotografo ebreo americano di origini polacche, introduce l'odissea della propria
famiglia, costretta a fuggire dalla Francia occupata, coinvolta nel caos italiano
seguito all'armistizio dell'8 Settembre 1943 e intrappolata fra Firenze e Treviso
nella zona occupata dall'esercito tedesco fino alla liberazione nel 1945.
Fu solo grazie all'intervento e alle capacità di un gruppo di giovani preti
cattolici se lui e i suoi familiari riuscirono a sfuggire alle persecuzioni dei
nazisti.
Tutti tranne uno: il padre, arrestato il 6 Novembre 1943 durante la razzia degli
ebrei di Firenze, venne deportato ad Auschwitz. Di lui non si ebbe più
alcuna notizia.
Quei sacerdoti sono oggi ricordati da tutto il popolo ebraico con una pianta di
ulivo lungo il Viale dei Giusti nel Museo dell'Olocausto di Gerusalemme.
Centro
Furio Jesi (a cura del)
La menzogna della razza
Grafis Edizioni, Bologna, 1994
La menzogna della razza
è il catalogo di una mostra che analizza il materiale razzista approntato
dall'Italia fascista. Dai fumetti ai romanzi coloniali, dagli studi pseudo-scientifici
all'invenzione di falsi testi ad uso antisemita è tutto un apparato che
si muove. Il razzismo fascista fu certamente diverso da quello hitleriano, ma
fu lo stesso presente ed ebbe conseguenze nefaste. Nel testo le leggi razziali
del 1938 vengono analizzate nei loro effetti concreti.
La ricerca vuole illustrare e documentare la complessa macchina burocratico-amministrativa
mobilitata al fine di attuare quei provvedimenti persecutori contro i singoli
e i loro beni che caratterizzarono la prassi razzista del regime.
Vengono descritti anche i campi di internamento messi
in opera dal fascismo.
Ferramonti di Tarsia è il principale campo di internamento per gli
ebrei italiani e stranieri, l'unico appositamente costruito a tal fine, mentre
per gli altri campi furono requisiti e sistemati edifici già esistenti.
E' situato nella Valle media del fiume Crati, a circa 40 km da Cosenza
ed a 6 dal paese di Tarsia, in una zona insalubre, paludosa, non ancora
completamente bonificata, malarica; l'isolamento e la mancanza di collegamenti
stradali con centri importanti rendono comunque il luogo adatto per il soggiorno
coatto. I lavori di costruzione del campo vengono affidati alla ditta Parrini
di Roma.
Al momento dell'occupazione nazista vengono costruiti i campi
di transito, per raccogliere gli ebrei prima della deportazione in Germania ed
in Polonia.
Nel periodo che va dal settembre del 1943 al febbraio 1944 viene attivato il campo
di transito di Borgo San Dalmazzo, cittadina situata a 8 km da Cuneo.
Vengono adibiti a tale uso i locali di una ex-caserma degli alpini, capace di
contenere un elevato numero di reclusi e ubicata poco lontana dalla stazione ferroviaria.
I tetri stanzoni di questa costruzione “accoglieranno”, in un primo tempo, 349
ebrei stranieri rastrellati dai tedeschi nelle valli cuneensi, e successivamente
alcune decine di ebrei italiani, arrestati in seguito alla emanazione dell'ordine
di polizia n.5.
Nel centro Italia il campo di transito più famoso, quello di Carpi-Fossoli,
dove transitò anche Primo Levi.
Fossoli è il più importante campo di concentramento italiano,
appositamente allestito per internare gli ebrei italiani e stranieri arrestati
in seguito all'ordine di polizia n.5, diramato nel dicembre 1943; diventerà
il centro di raccolta e smistamento più grande, l'ultima tappa verso la
morte: da qui infatti partiranno la maggioranza dei convogli diretti ai campi
di sterminio nazisti. Il campo, che prende il nome dalla cittadina dalla quale
dista circa 1 km, probabilmente viene scelto dalle autorità in quanto struttura
già collaudata per la raccolta di prigionieri e per la collocazione geografica
che facilita la partenza dei convogli - la stazione di Carpi, dal quale
dista 5 km, si trova lungo la linea ferroviaria per il Brennero.
Una tipologia diversa è quella del lager di
Bolzano:
Bolzano rientra nella categoria dei campi definiti Polizei und Durchgangslager:
centro di raccolta e smistamento verso i grandi Lager della Germania, della Polonia,
dell'Austria.
“Esso, per la sua struttura e funzione, per la composizione degli internati, per
i metodi di trattamento dei prigionieri, per le quotidiane angherie da parte del
personale di sorveglianza, per la rigida disciplina di lavoro, per i decessi dovuti
alla fame, ai maltrattamenti e alle malattie, fu una delle tipiche istituzioni
previste dal regime nazista per la “soluzione finale del problema ebraico”, per
l'estirpazione di tutti gli oppositori ed i nemici dello stato nonché per
lo sfruttamento della forza-lavoro di milioni di prigionieri di guerra e deportati
a favore della industria bellica nazista”. (Steurer L., 1987).
Le conoscenze su questo campo sono incomplete e spesso imprecise a causa della
distruzione dei documenti compiuta dalle SS prima dell'abbandono del campo; difficile
quindi indicare una data precisa per la sua istituzione, probabilmente si può
fissare tra la fine di luglio e i primi di agosto del 1944, nel periodo in cui
viene abbandonato Fossoli e i suoi internati condotti appunto a Gries,
all'epoca un sobborgo di Bolzano.
Secondo testimonianze di ex deportati, il campo viene installato in una vecchia
caserma per automezzi militari.
La struttura è costituita da due grandi capannoni da cui si ricavano, innalzando
dei tramezzi, dei grandi vani - i cosiddetti blocchi - che vengono contraddistinti
con lettere alfabetiche, dalla A alla M; davanti ai blocchi la piazza dell'appello.
Sono poi allestite altre costruzioni che ospitano la cucina, la lavanderia, l'infermeria,
le officine, e una tettoia per i servizi igienici; successivamente viene costruito
il cosiddetto blocco celle destinato agli internati che vengono puniti
o sottoposti agli interrogatori. Il blocco A viene assegnato agli internati che
lavorano come meccanici, falegnami, elettricisti, ecc.; il blocco F è occupato
dalle donne e dai bambini; nel blocco E sono reclusi gli internati ritenuti più
pericolosi; gli altri uomini nei restanti blocchi.
Infine un campo in Italia più degli altri sarà luogo
non solo di detenzione e transito verso la morte, ma luogo di morte stessa.
Nell'ottobre-novembre 1943 viene allestito dai nazisti un campo di concentramento
in un vecchio stabilimento per la lavorazione del riso nel rione di San Sabba,
alla periferia di Trieste. Il campo avrà la denominazione di Polizei-Haftlager,
campo di detenzione per i partigiani, ma sarà attivato anche come centro
di raccolta e smistamento per i prigionieri ebrei. La Risiera di San Sabba
è l'unico campo di concentramento in Italia ad essere provvisto di forno
crematorio... Dal gennaio 1944 a San Sabba transiteranno ebrei italiani e jugoslavi,
una parte dei quali verrà uccisa direttamente nel campo mentre la maggioranza
verrà deportata in Germania. Non è possibile stabilire con certezza
il numero complessivo di ebrei reclusi in Risiera; spesso di loro rimangono soltanto
un nome e una data incise sui muri delle celle.
Poiché i nazisti hanno cercato di cancellare ogni traccia del loro passaggio,
ritrovare il nome di ognuno, ricostruire la tragica vicenda significa dare loro
voce, restituirli alla memoria.
Negli anni Cinquanta il dott.Diego De Henriquez ha eseguito copie di queste
iscrizioni murali, prima che fossero cancellate dagli angloamericani che, ripulendo
gli ambienti, ridipinsero San Sabba diventata, nel dopoguerra, sede di campo profughi.
Danilo
Sacchi
Fossoli: transito per l'olocausto. Quella casa
davanti al campo di concentramento
Roma, 1997
L'autore racconta la storia del campo di
Fossoli, vicino Modena,
campo in cui transitò, fra gli altri, Primo
Levi, prima di essere condotto ad
Auschwitz, da una prospettiva particolare:
Questa è la storia, ma soprattutto una storia del Campo di
concentramento di Fossoli, vista e vissuta da una famiglia di contadini che si
è trovata d'improvviso davanti all'impensabile avvenimento: avvenimento
che cambiò e segnò il vivere antichissimo di ciascuno, grandi e
piccoli.
Vista e vissuta particolarmente attraverso i ricordi di chi allora era bambino
e respirava la guerra dalla casa colonica dove era nato.
Danilo Sacchi
descrive così il primo treno visto al casello di
Fossoli, trasformato in stazione ferroviaria esclusivamente
per i deportati ebrei:
Ne avevo già vista tanta di gente ammucchiata, condotta a piedi come mandrie
di bestie, ma stavolta l'impressione era diversa, colpiva di più.
Notammo in un finestrino che ci stava di fronte un interno movimento, seguito
dall'affacciarsi della faccia smunta di un ragazzo che sembrava fissarci. Allungò
il braccetto sottile tra i reticolati verso di noi, e noi di colpo guardammo il
gelato non ancora finito. Ciro, con un gesto di cui non lo credevo capace,
si avviò tranquillo tendendo la mano con il gelato. Ma l'uomo che stava
dietro fece svelto un passo e l'agguantò per il bavero della maglietta
ritirandolo dov'era: cosa ti salta in mente, ragazzo! vuoi dare un dispiacere
alla tua famiglia!
In quel momento cominciò il movimento, il gesticolare, il gridare che precedono
la partenza di un treno. E come in ogni treno che parte, per quanto è lungo,
era tutto uno sventolare di braccia, di mani, di fazzoletti, di sciarpe, un saluto
a chi resta: perché anche questo era un treno che partiva. Però
quelle mani non dicevano “arrivederci“, ma chiedevano pane e acqua, in una pretesa
senza speranza, perché così era stato in una fermata precedente
e sarebbe stato in quella prossima e in quella più in là ancora,
finchè l'abitudine alla delusione e lo scemare della forza avrebbero impedito
a quelle braccia e a quelle mani di sporgersi oltre il filo spinato del finestrino.
Il treno stentava a prendere velocità, poi finalmente ci riuscì
scomparendo in quel punto che m'insegnavano essere il nord. Il casellante fu il
primo a rompere il silenzio stregato in cui aveva lasciato quel treno.
Maledetti loro e i treni: proprio qua li dovevano far fermare! guardate come mi
hanno combinato i gigli! - Ognuno si voltò ad osservare i gigli seminati
davanti al casotto e che la fuliggine della locomotiva nella sosta aveva annerito
e rovinato. Un contadino rispose: Perché non li pianti dall'altra parte,
che sono fuori mano e ripararti dalla siepe di busso?
Tutti quanti fissavano quel punto come se fosse
la cosa più importante. Il casellante fissò la bandiera rossa arrotolata
che teneva in mano, sospirò e se ne andò senza salutare nessuno.
Giacomo
Debenedetti
16 ottobre 1943
Sellerio Editore, Palermo,1993
Siamo a Roma, nell'ex Ghetto, quartiere popolato
di artigiani, di piccoli commercianti ebrei. Sono passati da poco i giorni dell'armistizio.
Il maggiore Kappler manda
a chiamare i capi della Comunità Israelitica. Gli ebrei di Roma, egli dice,
sono doppiamente colpevoli: come italiani, e quindi traditori; come ebrei, e quindi
nemici della Germania da secoli. Il governo del Reich impone dunque una taglia.
Essi devono raccogliere e versare, tempo un giorno e mezzo, cinquanta chili d'oro.
Con affanno, con fatica, gli ebrei si danno a radunare l'oro. La città
l'ha saputo, e alcuni “ariani” vengono a offrire oro, magari poco, quello che
possono. “Quasi umilmente domandavano se potevano anche loro... se sarebbe stato
gradito... Purtroppo non lasciarono i nomi, che si vorrebbero poter ricordare
per i momenti di sfiducia nei propri simili. Torna a mente, e par bella, una parola
ripetuta anche da George Eliot, il latte dell'umana
bontà ”. Consegnati infine al maggiore Kappler
i cinquanta chili d'oro, gli ebrei di Roma si sentirono tranquilli. Nell'ex ghetto
la quiete ritorna, e ciascuno riprende la sua esistenza d'ogni giorno, il lavoro
d'ogni giorno e i commerci, e le pratiche religiose. Hanno avuto la parola di
Kappler, e se ne fidano: in cambio dell'oro, la sicurezza. “Contrariamente all'opinione
diffusa - scrive Giacomo Debenedetti - gli ebrei non sono diffidenti. Per meglio
dire: sono diffidenti al modo che sono astuti, nelle cose piccole, ma creduli
e disastrosamente ingenui in quelle grandi”.
La vita nell'ex ghetto è dunque ritornata com'era, e “di primo mattino,
non appena un barlume di giorno, viscido e grigio come le loro case, comincia
a far leva sui cornicioni... già li trovi tutti per via, questi ebrei,
e berciano, e si chiamano a gran voce per nome...”. Tutti, fossimo in quell'epoca
vicini a Roma, o in Roma, o lontani, abbiamo in seguito cercato di raffigurarci
le strade di quel quartiere, evocandole nella nostra memoria, o disegnandole nella
nostra immaginazione. Tutti, quando camminiamo oggi in quel quartiere, ripensiamo
a quel 16 ottobre, quando l'odio e la sventura scesero su quelle strade, su quella
gente sprovveduta, affaccendata, ignara.
La sera del venerdì 15 ottobre, sopraggiunse, nell'ex Ghetto, una donna.
Veniva da Trastevere, faceva, in Trastevere, i servizi a ore. “Una donna vestita
di nero, scarmigliata, sciatta, fradicia di pioggia. Non può esprimersi,
l'agitazione le ingorga le parole, le fa una bava sulla bocca”. Ha parlato con
la moglie d'un carabiniere, la quale le ha detto che è stato visto, in
mano a un tedesco, un elenco di nomi di capi-famiglia ebrei, destinati alla deportazione,
con le loro famiglie. Ma nessuno le presta ascolto. La ritengono un'esaltata,
una mentecatta. “Risalirono alle loro case, si rimisero a sedere intorno alla
tavola, a cenare, commentando quella storia senza sugo”.
Può sembrare strano, alla luce dei fatti, tanto candore. Eppure chi ha
vissuto quei giorni, e chi ha vissuto allora la paura della persecuzione, ricorda
bene come al terrore dei nazisti si mescolasse un roseo ottimismo, e l'idea che
forse, in definitiva, la realtà fosse più mite, più ragionevole
dell'immaginazione. Lo stato d'animo che regnava negli ebrei allora, in Italia
e forse anche altrove, era mutevole e discontinuo, e il panico lottava con qualcosa
che voleva rassomigliare al buon senso. Così, seduti a cena, quegli ebrei
dell'ex Ghetto respinsero ogni progetto di fuga, pronunciarono le loro preghiere,
celebrarono l'arrivo del sabato.
Nella notte, per le vie del quartiere si udirono spari. Non soltanto spari ma
urla sinistre, schiamazzi, “voci colleriche, sarcastiche, incomprensibili”. I
bambini piangono, nelle case tutti sono in piedi, spiano, appostati ai vetri,
sui vicoli immersi nel buio, i soldati.
“Che si può dire ai bambini per azzittarli, quando non si sa che dire a
se stessi? Stai buono, ora vanno a Monte Savello, vanno a Piazza Cairoli, ora
finisce, vedrai”. Poi all'alba, a un tratto, le strade tornano deserte, sopravviene
un profondo silenzio. Ciascuno torna a dormire perché “a ripensarci,
non è capitato niente ”. “I letti abbandonati
avevano forse custodito un po' di tepore”.
Ma al mattino, ecco di nuovo i soldati. Niente spari, questa volta, niente urla.
E' iniziato il rastrellamento. “Prendono tutti, ma proprio tutti, peggio di quanto
si potesse immaginare”. Malati, vecchi paralizzati, lattanti, puerpere. Passano
nelle vie le famiglie incolonnate. “I ragazzi cercano negli occhi dei genitori
una rassicurazione, un conforto che questi non possono più dare...”.
“Taluno bacia le proprie creature: un bacio fra quelle vie, quelle
case, quei luoghi che li hanno veduti nascere, sorridere per la prima volta alla
vita”. E “già sui visi e negli atteggiamenti di questi ebrei, più
forte ancora che la sofferenza, si è impressa la rassegnazione”. Al candore
dell'incoscienza, sopravviene fulminea la memoria ancestrale di antiche deportazioni,
che soffersero antenati remoti, dei quali essi mai hanno sentito parlare.
Qualcuno, chissà come, riesce a salvarsi. A una donna,
i due tedeschi di sentinella davanti al suo portone fanno cenno di fuggire. Sono,
si dirà più tardi, due austriaci. La donna, forte della sua fortuna,
chiama una parente, dalla strada: “Scappa, che prendono tutti!”. La parente: “Un
momento, vesto pupetto e vengo”. “Purtroppo vestire pupetto le fu fatale: fu presa
con pupetto e con tutti i suoi”. Un'altra donna, che si crede ormai in salvo,
a Ponte Garibaldi, vede passare un camion carico di parenti e conoscenti suoi
rastrellati, getta un grido, e viene presa con i bambini. Un “ariano” riesce a
salvare una delle bambine, dicendo che è sua. Ma la bambina piange e chiama
la madre, e i tedeschi la mettono allora sul camion, anche lei scompare.
All'alba del lunedì, gli ebrei sono fatti salire in treno, a Roma-Tiburtino.
Impossibile avvicinarsi al convoglio. Si dice che a Fara Sabina, o a Orte, da
un treno che costeggiava il “treno piombato” una ragazza scorse, alla grata, il
viso d'una bambina che conosceva, e la chiamò. Un altro viso apparve allora
alla grata, e accennò di tacere. “Questo invito al silenzio, a non tentare
più di rimetterli nel consorzio umano, è l'ultima parola, l'ultimo
segno di vita che ci sia giunto da loro”.
Dalla Nota di
Natalia Ginsburg, che accompagna il testo di
Debenedetti, scritto nel novembre 1944.
L'autore così conclude il suo scritto:
Né il Vaticano, né la Croce Rossa, né la Svizzera, né
altri Stati neutrali sono riusciti ad avere notizie dei deportati...
Liliana
Picciotto Fargion
L'occupazione tedesca e gli ebrei di Roma
Carucci Editore, Roma, 1979
Il volume studia non solo la prima deportazione degli ebrei di Roma, quella del
16 ottobre 1943, ma anche quelle che seguirono. Questo è il rapporto telegrafico
che Kappler inviò ad Eichman, la sera della grande
razzia:
Iniziata e conclusa oggi azione ebrei modo migliore conforme piano elaborato
d'ufficio. Usate forze polizia sicurezza e ordine disponibili al completo. Impossibile
partecipazione polizia italiana in considerazione sua completa inaffidabilità
al riguardo. Possibili perciò soltanto singoli arresti entro 26 distretti
operativi in rapida successione di tempo. Sbarramenti stradali non effettuabili
in considerazione prerogative città aperta ed insufficienza numerica 365
poliziotti tedeschi. Ciononostante durante azione eseguita dalle 5,30 alle 14
arrestate 1259 persone entro abitazioni ebraiche e portate campo di raccolta in
Scuola Militare locale. Dopo rilascio misti, stranieri incluso un cittadino vaticano,
famiglie matrimoni misti incluso coniuge ebreo, servitori ariani e subaffittuari,
residuano 1.007 ebrei arrestati. Trasporto lunedì 18/10 ore 9.00. Accompagnamento
di 30 uomini polizia dell'ordine. Comportamento popolazione italiana inequivocabile
resistenza passiva ma in alcuni singoli casi aiuto attivo. In un caso per esempio
poliziotti accolti sull'uscio da fascista in camicia nera e distintivo chiaramente
appena subentrato come abitante appartamento ebraico. Osservati tentativi passaggio
ebrei in abitazioni vicine all'arrivo polizia tedesca e certamente riusciti in
numerosi casi. Durante azione rimasta assente parte antisemitica popolazione italiana
e presente invece gran massa che in alcuni casi cercava sottrarre ebrei a poliziotti.
In nessun caso fatto uso armi da fuoco.
Non ha bisogno di commenti la valutazione dell'atteggiamento degli
italiani (polizia e civili) dinanzi alla razzia.
Gli arresti degli ebrei continuarono nei mesi successivi.
Da Roma... dopo quella del 18 ottobre non fu più organizzata direttamente
alcuna deportazione. Il teatro di operazioni si era ormai spostato al Nord. I
convogli furono organizzati da Milano. Tutti gli arrestati dell'Italia Centrale
vennero avviati a Verona, dove furono caricati su carri agganciati ai treni provenienti
da Milano. A Roma la maggioranza degli arrestati venne momentaneamente trattenuta
nel carcere di Regina Coeli...
Oltre ai metodi per effettuare più arresti possibili, occorreva trovare
un modo per organizzare in maniera ordinata la deportazione. Fu quindi scelto,
- come già in altri paesi occidentali (in Belgio Malines, in Olanda
Westerbork, in Francia Drancy e altri) - un campo di transito dove
ammassare, classificare, dividere per categorie, scegliere per la deportazione
tutti gli ebrei arrestati in Italia. La scelta cadde sul campo italiano per prigionieri
di guerra inglesi di Fossoli presso Carpi.
Alla fine del 1943 Fossoli divenne dunque Polizeiliches Durchgangslager
(campo poliziesco di transito) per ebrei e prigionieri politici destinati alla
deportazione. L'amministrazione italiana, già sollecitata dal succinto
ordine di polizia del 30 novembre, predispose tutto. Il 2 dicembre 1943 il Prefetto
di Modena ordinò al podestà del comune di Carpi di allestire
il campo in tale senso. A Fossoli gli ebrei romani, a partire dal gennaio
1944, giunsero a scaglioni. Da febbraio a maggio fu un incessante arrivo di famiglie
disorientate, senza nessuna idea di ciò che stava loro accadendo...
In febbraio, come già visto dal grafico degli arresti, assistiamo a un
pesante giro di vite. Il questore dette ordine di “... procedere con urgenza all'arresto
degli ebrei puri italiani e stranieri rintracciati nelle singole giurisdizioni...”.
Chiese anche “... l'elenco numerico e nominativo completo delle generalità
degli arrestati, lo stato civile e l'indicazione del mestiere esercitato...”.
Completò poi il fonogramma avvertendo che “... debbono essere fermati tutti
i componenti le famiglie”.
Alla stanza 13 dell'Ufficio Politico della questura di Roma si svolgevano
febbrili ricerche di ebrei “allontanatisi dalle loro abitazioni”, si teneva il
conto degli arrestati, si svolgeva una complicata burocrazia di pratiche su casi
dubbi. In marzo, Roma assistette all'assassinio per rappresaglia di 335
persone tra cui vennero scelti anche 77 ebrei rinchiusi nel III braccio di Regina
Coeli in attesa di essere trasferiti al campo di Fossoli: l'eccidio
delle Fosse Ardeatine.
Gli ebrei romani furono deportati ad
Auschwitz dal campo di Carpi-Fossoli
con i convogli del 5/4/44, del 16/5/44, del 26/6/44, e del 2/8/44. La
Picciotto Fargion da l'elenco di tutti i deportati ed
i nomi di quelli avviati direttamente alle camere a gas e dei pochi sopravvissuti.
Viene anche pubblicata nel libro la testimonianza di
Arminio Wachsberger che fu deportato con il convoglio
del 18 ottobre 1943 e fu risparmiato come traduttore dalle SS, perché conosceva
il tedesco. Gli ebrei ancora non davano credito alle voci sullo sterminio:
E' da Radio Londra che abbiamo conosciuto l'esistenza dei campi di concentramento
e dei provvedimenti contro gli ebrei ma, a dire il vero, non ci credevamo molto:
pensavamo che tutte queste storie fossero argomenti della propaganda alleata contro
i tedeschi.
Wachsberger
dovette cominciare a fare l'interprete fra le SS e gli altri ebrei romani già
all'interno del Palazzo Salviati,
prima del trasferimento alla stazione Tiburtina:
Prima di partire il capo delle SS mi chiese di nuovo di tradurre ciò che
stava per dire. Salii dunque su un tavolo e comunicai ai miei fratelli di sventura
le menzogne del capo delle SS, credendo io stesso di dire la verità.
“3State per partire per un campo di lavoro in Germania. Gli uomini lavoreranno
e le donne si occuperanno dei bambini e dei lavori di casa, ma ciò che
avete portato con voi - denaro e gioielli - potrà servire a migliorare
le vostre condizioni. Comincerete col consegnare tutto il denaro e i gioielli
all'amministrazione, che gestirà i vostri averi. A ogni ebreo che trattiene
del denaro o un gioiello, dite che, appena scoperto l'inganno sarà passato
per le armi. Dunque, mettete nella mano destra i gioielli e nella sinistra il
denaro: passerete in fila e mi consegnerete tutto”. Vicino al capo fu messa una
cassa per i gioielli e i soldi, ma quando egli vedeva un bel gioiello, se lo metteva
tranquillamente in tasca. Riuscii comunque a nascondere due anelli, mettendoli
nel risvolto dei pantaloni.
Arrigo
Paladini
Via Tasso. Museo storico della liberazione di
Roma.
Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato, Roma,
1986
A Roma, in via Tasso, a fianco di piazza S.Giovanni
in Laterano, il carcere e le celle di tortura della Gestapo. Da qui fu prelevata
gran parte dei 335 uomini fucilati alle Fosse Ardeatine. Tra i trucidati 73 erano
ebrei.
Giovanni
Melodia
Non dimenticare Dachau
Mursia, Milano, 1993
Giovanni Melodia fu arrestato
dai fascisti, nel 1939, per attività antifascista. Non fu liberato nel
periodo badogliano e venne deportato a Dachau
nell'ottobre 1943.
E' uno dei testimoni degli eventi di quel campo. Quando pensava che non avrebbe
mai potuto vedere niente di peggio di ciò che già aveva visto, assistette
all'arrivo a Dachau dei superstiti
della marcia di evacuazione dei detenuti di Flossenburg,
durante la ritirata nazista. Così descrive quel giorno:
Dopo tutto quello che abbiamo visto e vissuto, specialmente in questi
ultimi giorni, non pensavamo che potesse succedere di restare sgomenti, ammutoliti,
senza più voce né lacrime.
“Vengono da Buchenwald” ha azzardato qualcuno. “No, da Flossenburg,
da Kempten” ha detto un altro. Ma a noi i nomi non interessano. Guardiamo
atterriti perché mai ci è accaduto di vederli così da vicino,
in pieno giorno, gli uomini non più uomini, spettri spaventosi che, disperatamente,
incredibilmente, cercano ancora di camminare e si trascinano, le braccia degli
uni sulle spalle, sulle braccia degli altri, nel tentativo folle, assurdo, di
mantenere l'allineamento, retaggio di un indomabile terrore.
Ma le bocche aperte, le narici affilate, le occhiaie profonde e nerastre in quei
visi che non sono più che teschi coperti di pelle sporca e giallastra,
gli sguardi fissi, senza espressione, come negli agonizzanti.
Guardiamo sgomenti la lunga processione di scheletri che camminano su gambe di
sole ossa con sopra un velo appena di pelle e che seminano di morti anche quest'ultimo
tratto di strada, lunga per loro chissà quante centinaia di chilometri.
Guardo, e ad un tratto dentro di me un balzo, per qualcosa, in uno di quelli,
che due suoi compagni trascinano, trascinati a loro volta, e che neppure più
gli zoccoli ha ai piedi, un balzo dentro perché c'è qualcosa in
questo, un profilo forse, che mi è noto, o forse no, soltanto una somiglianza,
ma intanto loro, e altri e altri, sono passati, è verso il fondo della
Lagerstrasse che li avviano, io sto frugando tra le ultime file, dove c'è
qualcuno che ha un fardello, come una gerla, sulle spalle, il corpo inerte di
un amico, un compagno, o di uno sconosciuto, guardo ancora e ancora, non trovo
niente, non riconosco nessuno, ho soltanto quel viso, ossa soltanto, che cerco
di ricostruire - com'era? com'era? - e d'improvviso, come un grido, un nome, soltanto
il nome, di un tipografo triestino che era con me e con Pellegrini a Civitavecchia...
Dopo la liberazione del Lager, il 29 aprile 1945, si trattenne
spontaneamente per organizzare il rimpatrio di tutti gli italiani. Venne a sapere
che uno dei deportati che ne sosteneva un altro, nella lunga marcia di evacuazione
era Ercole Maranzana, che
è ora Presidente della sezione romana dell'ANED,
(Associazione Nazionale Ex-Deportati).
Come apprenderò più tardi, uno dei fantasmi che avevano trascinato
o si erano caricarti sulle spalle un altro fantasma, era il veneto Ercole Maranzana
che, per molti chilometri, aveva sostenuto e quasi trasportato di peso il suo
conterraneo Francesco Bortoluzzi, lui pure ex partigiano. Notevole
è il fatto che Maranzana non me ne aveva mai parlato. Se l'ho saputo è
perché me lo ha detto il Bortoluzzi, che ha voluto metterlo anche per iscritto,
affinché non possa accadere che il meraviglioso comportamento a cui deve
la vita, resti ignorato.
Enrico
Deaglio
La banalità del bene. Storia di Giorgio
Perlasca.
Feltrinelli, Milano, 1993
Il libro di Deaglio
racconta il salvataggio di circa 5000 ebrei ungheresi, compiuto da un italiano:
Giorgio Perlasca.
La persecuzione degli ebrei ungheresi è ancora oggi pochissimo conosciuta.
Eppure avvenne sotto gli occhi del mondo. Lo sterminio organizzato durò
otto mesi, dal marzo del 1944 al gennaio del 1945, quando già Hitler
aveva perso la guerra, nel corso dell'avanzata contemporanea dell'Armata Rossa
da est e degli anglo-americani da ovest.
Fu uno sterminio annunciato, previsto e seguito in tutte le sue fasi dalle diplomazie
e spesso anche, giorno dopo giorno, dalla stampa internazionale. Fu anche l'unico
olocausto a rimanere interrotto a causa della precipitosa ritirata dell'esercito
nazista; questo fece sì che Budapest rimanesse l'unica città
dell'Europa centrale a non vedere i suoi ebrei completamente sterminati. Se decine
di migliaia sopravvissero, lo si dovette al salvataggio compiuto da un piccolo
gruppo di diplomatici di paesi neutrali, rimasto nella capitale nelle settimane
finali dell'assedio.
Di tutta questa storia, il mondo ha sempre saputo pochissimo, tranne un nome,
quello di Raul Wallenberg, il diplomatico svedese inviato del re di Svezia,
con il compito di portare in salvo, con ampi mezzi finanziari, il più grande
numero possibile di ebrei ungheresi. Ma più ancora che per la sua opera,
il nome di Wallenberg divenne noto soprattutto perché egli sparì
nei giorni dell'entrata a Budapest dell'esercito sovietico e sulla sua sorte continua
ancora oggi, dopo mezzo secolo, un'incertezza che Mosca non ha completamente eliminato.
Da due anni però si conosce un altro Wallenberg nello sconosciuto commerciante
italiano Giorgio Perlasca.
I due non avrebbero potuto essere più diversi e più uguali: ricco
e protetto il primo, con uno status speciale che gli permetteva di trattare con
le SS e di offrire denari al posto di vite umane. Uomo solo e in fuga il secondo,
che pagava di tasca propria il cibo alla borsa nera per mantenere in vita i suoi
protetti. Si incontrarono diverse volte, in quei mesi.
“Alla stazione merci, per esempio,” ricorda Perlasca, “dove andavamo per
cercare di strappare qualcuno dai treni. Era bravo, Wallenberg, ci dava
l'anima. Lo incontrai anche nella legazione di Spagna negli ultimi giorni di assedio.
Il 18 gennaio, quando erano già entrati i russi, ebbi la notizia certa
che Wallenberg era in una casa della via Kiraly. Vi andai, ma mi dissero che era
uscito. Credo che sia morto quel giorno, per una bomba o una pallottola vagante.”
In questo contesto si svolge l'incredibile storia di
Giorgio Perlasca, fascista, reduce dalla guerra di
Spagna. Nella Budapest del
1944, il console di Spagna fugge. Nella città regna il caos, non ci sono
più collegamenti telefonici con la Spagna. Perlasca rischia il tutto per
tutto e, approfittando del disordine e della sua conoscenza della lingua spagnola,
veste i panni da nuovo Console di Spagna,
comincia ad usare la macchina di rappresentanza e gli uffici dell'ambasciata.
Nelle proprietà extra-territoriali spagnole riesce a stipare fino a 5000
ebrei, molti altri ne aiuta insieme ai diplomatici delle altre nazioni.
Continua a difendere gli ebrei raccontando continue menzogne, protetto dalla sua
reputazione di console. La bugia finale, la più clamorosa e decisiva la
deve sostenere dinanzi ad Erno Vajna,
nuovo ministro degli interni dell'Ungheria nazista. E' Perlasca stesso a raccontarla
nel suo diario:
6 gennaio, sabato
... è incredibile come un uomo che appare distinto e gioviale
possa essere in realtà un'anima così cattiva. Abbiamo parlato
per due ore, tutto è così faticoso perché Vayna
parla un tedesco peggiore del mio. Gli ho detto che era giunto il momento di
arrendersi, che la resistenza non ha più senso e causa solo morti e distruzione
della città. Gli ho detto che una immediata capitolazione obbligherebbe
il vincitore a una maggiore comprensione e si potrebbe mettere fine all'azione
delle bande di saccheggiatori. Ho cercato, a lungo, di fargli capire che la
guerra è ormai perduta, che quello che sta avvenendo è insensato
e vergognoso. Gli ho detto che il mondo non lo dimenticherà facilmente.
Mi sono appellato al suo patriottismo e gli ho ribadito che insieme agli altri
diplomatici sarei stato pronto a fare di tutto per facilitare il processo di
resa.
Vayna mi ha risposto che non si parla di resa. La città secondo
lui deve essere difesa fino all'ultimo uomo. Mi dice che una colonna tedesca
proveniente da Esztergom sta per arrivare a Buda.
Allora ho cambiato argomento. Secondo Vayna gli ebrei sono pericolosi
fuori dal ghetto perché potrebbero sabotare la resistenza. Gli ho spiegato
che questo è impossibile perché sono tutti disarmati. Nel ghetto
non ci sono più posti, mancano acqua, gas, cibo e medicine, ci sono migliaia
di morti insepolti. Se si mette a tirare vento caldo ci sarà pericolo
di epidemie. Gli ho anche detto che il comando tedesco ha dichiarato di non
volersi intromettere e che pertanto la responsabilità di quello che sarebbe
successo sarà soltanto sua.
Gli ho detto che l'incendio del ghetto con settantamila persone dentro sarebbe
una malvagità che il mondo non potrà perdonare. “Lei conosce la
malvagità degli ebrei” è stata la sua risposta. Gli ho detto che
non volevo continuare su questo argomento e che la malvagità, secondo
me, viene da tutt'altra parte.
Dopo due ore di colloquio Vayna aveva solo concesso che gli ebrei protetti
dalla nostra ambasciata venissero sistemati fuori dal ghetto, ma nelle immediate
vicinanze di questo. Gli ho detto che tutto ciò era insufficiente. Mi
sono fatto coraggio e gli ho detto quanto segue:
“Signor Vayna, nella mia ultima lettera le ho scritto chiaramente che
il governo spagnolo dovrà ricorrere alla ritorsione se i nostri protetti
dovessero essere vittime del suo crudele trattamento. Se il governo spagnolo,
entro il 10 gennaio, non riceverà una mia missiva rassicurante, avrà
inizio la ritorsione. Sappia che in Spagna vivono tremila cittadini ungheresi
e che il governo ha deciso di internarli e confiscare i loro beni qualora i
suoi protetti qui a Budapest venissero molestati. La stessa cosa è pronta
anche per gli ungheresi che vogliono recarsi in Paraguay e per i quali qui a
Budapest sono stati rilasciati centocinquanta passaporti provvisori”. (Tutto
questo era un bluff colossale. Credo che non ci fossero più di trecento
ungheresi in Spagna).
Vayna mi rispose che non parlavo con un tono degno di un diplomatico.
Gli ho detto che era la situazione che lo richiedeva. Allora lui mi ha chiesto
che garanzia poteva avere che i cittadini ungheresi in Spagna non sarebbero
stati disturbati. Gli ho risposto: “Signor Vayna, il popolo latino non
ha mai perseguitato gli stranieri senza motivo. Se lei è d'accordo con
le mie richieste, che sono legittime e umanitarie, non vedo perché mai
i governi di Spagna e Paraguay dovrebbero infastidire i suoi compatrioti”.
La belva feroce si è calmata. Ho avuto l'impressione che cominciasse
a capire quali sarebbero potute essere le conseguenze dei suoi atti.
Al suo ritorno in Italia, Perlasca viene presto dimenticato.
Quando comincia a raccontare nessuno gli crede. Perciò smette di parlare
dei fatti di allora.
E' strano che tutto questo mi succeda proprio adesso... E' strano perché
io, quando tornai, la storia provai a raccontarla, ma sembrava che nessuno mi
credesse. Probabilmente non interessava, o forse sembrava troppo enorme. Pensi
che nemmeno mia moglie mi credeva.
Diviene famoso 40 anni dopo, perché alcuni ebrei ormai trapiantati in
Israele, cominciano a cercarlo, per poterlo incontrare di nuovo. Viene invitato
con tutti gli onori per l'intitolazione di uno degli alberi nel
Viale dei giusti al suo nome, nel
Memoriale di Yad Washem
a Gerusalemme.
A Deaglio che gli domanda:
“Perché lo ha fatto?”, risponde, con l'umiltà che caratterizza
la sua persona:
“Lei, che cosa avrebbe fatto al mio posto?”
Una di quelle domande pesanti in cui viene richiesta la complicità dell'interlocutore.
Un quesito breve che supplica comprensione, fa balenare la fragilità
e la debolezza umana, non solo di chi parla, ma soprattutto di chi ascolta.
“Avevo paura, sono scappato...Lei che cosa avrebbe fatto al mio posto?” “Nessuno
mi vedeva, l'ho fatto...Lei che cosa avrebbe fatto al mio posto?”
Ma il vecchio signore che me la poneva, non cercava comprensioni o scusanti.
Al contrario, stava cercando di dirmi che tutti, nella maniera più naturale,
avrebbero dovuto comportarsi come si era comportato lui...
Dunque signor Perlasca: perché lo fece?
“Perché non potevo sopportare la vista di persone marchiate come degli
animali. Perché non potevo sopportare di veder uccidere dei bambini.
Credo che sia stato questo, non credo di esser stato un eroe. Alla fin dei conti
io ho avuto un'occasione e l'ho usata. Da noi c'è un proverbio che dice:
l'occasione fa l'uomo ladro. Ebbene di me ha fatto un'altra cosa. Improvvisamente
mi sono ritrovato ad essere un diplomatico, con tante persone che dipendevano
da me. Che cosa avrei dovuto, fare secondo lei? Piuttosto penso che essere un
falso diplomatico mi abbia aiutato, perché ho potuto fare delle cose
che un diplomatico vero non farebbe. Eh... I diplomatici sono persone strane.
Non è che siano proprio liberi di fare quello che vogliono. C'è
l'etichetta, ci sono le formalità, le gerarchie, qualcuno a cui rispondere,
la propria carriera. tante cose, tanti vincoli che io non avevo.”
Luciano
Gherardi
Le querce di Monte Sole. Vita e morte delle comunità
martiri fra Setta e Reno. 1898-1944
Il Mulino, Bologna, 1986
Tanti luoghi italiani sono stati testimoni dei
crimini nazisti. Dal campo di Carpi-Fossoli,
vicino Modena, alla risiera di S. Sabba a Trieste,
al campo di Trento-Gries.
Questo testo racconta lo sterminio delle comunità montane di
Monte Sole, vicino Bologna, avvenuto senza neanche
il motivo della rappresaglia.
Fra le tante storie, il volume racconta anche quella del parroco di
Casaglia.
Elide Ruggeri racconta:
I partigiani convinsero gli uomini, giovani e vecchi, a riparare
in alto nella macchia. Poi consigliarono noi donne di riunirci in chiesa, sotto
la protezione del parroco. Eravamo circa un centinaio. Si unì a noi incoraggiandoci
e sollevandoci un poco don Ubaldo.
Era un prete coraggioso e buono.
Quando alle 9 circa arrivarono le SS sfondando la porta, capimmo che poteva accadere
il peggio. Lo capimmo anche dalla disperazione del parroco. Ci fecero uscire e
formarono una lunga colonna; fummo avviati con le armi puntate ai fianchi verso
il cimitero a duecento metri di distanza. Era recintato e la porta di ferro chiusa.
La sfondarono coi calci dei fucili e ci fecero entrare tutti nel recinto e noi
ci addossammo in mucchio contro la cappella. Poi piazzarono una mitragliatrice
all'ingresso e cominciarono a sparare, mirando in basso per colpire i bambini,
mentre dall'esterno cominciarono a lanciare su di noi decine di bombe a mano.
Durò per tre quarti d'ora circa, e smisero solo quando finì l'ultimo
lamento.
Ferita restai tra i cadaveri... Con me uscirono vive altre quattro donne. Anche
il prete morì. Fu fucilato sull'altare della sua chiesa e dopo averlo ucciso
i nazisti spararono sulle immagini sacre e incendiarono la chiesa e le case intorno
con lanciafiamme. Tre giorni dopo i tedeschi ordinarono ai civili di seppellire
i cadaveri. Fecero una grande buca e li schiacciarono perché si erano irrigiditi.
Lucia Sabbioni aggiunge qualcosa che ci sembra degno di rilievo:
La mattina del 29 settembre, abbandonammo la casa e ci rifugiammo
nella chiesa di Casaglia che
era già piena di sfollati e di contadini. Il parroco
don Ubaldo Marchioni stava officiando la Messa, quando
poco dopo entrarono i tedeschi dicendoci di uscire sul sagrato...
Sembra doversi escludere che don Ubaldo in circostanze simili potesse celebrare
la Messa; tuttavia l'indicazione della Sabbioni, allora quattordicenne, lascia
presumere legittimamente che non si limitasse, come dice la Benni, a “consumare”
le ostie, ma in cotta e stola celebrasse per l'ultima volta il rito della Comunione
eucaristica, che nelle circostanze assunse il valore di un viatico collettivo
prima della strage.... E morì rivestito delle insegne sacerdotali.
Paride
Piasenti
Il lungo inverno dei Lager
ANEI, Roma, 1983
Pochissimi conoscono la tragedia dei 600.000 militari italiani che, dopo l'8 settembre
1943, vengono deportati ed internati dai tedeschi. Così ne parla
Vittorio Emanuele Giuntella, che fu uno di loro, ne
Il nazismo e i Lager:
Gli Italiani costituiscono un grosso problema, che gli stessi tedeschi
esitano ad affrontare con chiarezza. Non vengono riconosciuti come prigionieri
di guerra, secondo le convenzioni internazionali sottoscritte dall'Italia, anche
se in un primo momento viene ad essi concesso di inviare al Comitato internazionale
della Croce Rossa a Ginevra la cartolina di cattura. Viene adottata, invece, la
denominazione di internati militari italiani, e non si permette
che il CICR li assista. Nella graduatoria dei militari in mano ai tedeschi finirono,
perciò, al penultimo posto, perché all'ultimo vi erano i prigionieri
russi. Dei russi e degli italiani i tedeschi possono fare quello che vogliono,
senza nessun controllo e senza nessun limite di potere. Gli italiani sono alloggiati
nei campi, dove prima di loro sono passati i russi, e che sono stati dichiarati
inabitabili dal CICR.
Ad essi viene fatta la proposta di essere liberati per militare
nelle forze della RSI o in quelle del Terzo Reich:
... dal canto suo Mussolini preme perché dalla massa degli
internati si possano trarre almeno 20.000 volontari per le forze armate della
Repubblica sociale. Ne va di mezzo, egli avverte, il prestigio del nuovo stato
fascista, per il quale un mancato rientro almeno di una parte degli internati
costituirebbe la prova di un massiccio rifiuto di consenso, tale da influenzare
negativamente, oltre che le centinaia di migliaia di parenti nel paese, genitori,
mogli, figli, tutta l'opinione pubblica. Se si scorre il carteggio Hitler-Mussolini,
utilizzato dal Deakin nel suo volume sulla Repubblica di Salò, si
avverte quanto il problema degli italiani internati in Germania e il loro rifiuto
di continuare la guerra del fascismo sia stato capito da Mussolini nel suo giusto
significato, quello di un plebiscito negativo nei confronti del fascismo.
Le autorità naziste, del resto, hanno già avuto dagli italiani risposte
negative al momento della cattura. A tutti è stata offerta la scelta tra
la deportazione in Germania e il passaggio immediato come volontari nelle file
della Wehrmacht, ma all'unanimità gli italiani hanno rifiutato e le eccezioni
sono infinitesime. La più consistente sembra essere stata quella delle
formazioni di Camicie nere inquadrate dopo la caduta del fascismo nell'esercito,
pur restando unite come corpo. Non vi è testimonianza del loro invio nei
campi di internamento, nei quali solo qualche isolato, appartenente alle milizie
speciali (forestale, ferroviaria, stradale) risulta presente.
Il rifiuto di riprendere a combattere è perciò generale.
Si rivela come un atto di resistenza importante al nazi-fascismo degli ultimi
due anni di guerra, rifiuto pagato spesso con la propria vita.
Un ulteriore tentativo venne compiuto nei campi di internamento, chiedendo agli
italiani un'adesione alle formazioni volontarie SS, ma anche questo invito non
ottenne risultati tangibili.
Come si svolgesse questa propaganda (alla quale, in verità, i comandanti
tedeschi dei campi prestarono una collaborazione formale) ci è narrato
da una relazione inviata a Mussolini da un ufficiale, che, dopo aver rifiutato
l'adesione in un primo momento, finì per cedere. Il documento, conservato
nell'archivio di Mussolini, con l'annotazione che il duce ne aveva preso
conoscenza, è abbastanza noto, ma vale la pena di riprodurlo perché
narra con obiettività gli argomenti della propaganda fascista e l'atmosfera
nella quale erano presentati:
Dopo averci letta una lettera dell'ambasciatore in Germania,
Anfuso, a noi diretta, in cui si parlava della rinascita
e della rivendicazione dell'onore all'Italia quali obiettivi del nostro governo,
il generale ci disse alcune parole: aderendo si aveva il trattamento del soldato
e ufficiale tedesco che mangia bene ed è ben pagato. Anche le nostre famiglie
sarebbero state trattate meglio. Coloro che non avessero voluto aderire sarebbero
stati oramai abbandonati al loro destino e avrebbero pensato la fame e l'inverno
polacco a servirli. Questo discorso, fatto a gente che, affamata, scarsamente
coperta, stava da più di un'ora all'aperto a parecchi gradi sotto zero,
ebbe un effetto deleterio. Ci prese una tristezza e uno scoraggiamento infinito;
ci si chiedeva di essere dei mercenari, perché non della Patria ci si parlava,
ma del soldo e del vitto. Non della fratellanza che sola in tanta sciagura avrebbe
dovuto risollevare dal fango l'Italia, ma un italiano minacciava altri italiani
di essere abbandonati al loro destino. La fame e l'inverno polacco avrebbero pensato
ad eliminare dei fratelli. Anche chi come il sottoscritto era pronto ad aderire
e non desiderava altro che ritornare uomo e soldato, sentì un moto di ribellione
in se stesso. Aderirono su circa 2.000 ufficiali 160 circa, di cui la maggior
parte malati gravi, invalidi e vecchi. I giovani dicevano apertamente agli amici
che aveva vinto la fame.
Queste le conclusioni di Giuntella:
Non si hanno dati estremamente sicuri, ma il ministero della difesa ha
più volte affermato che le adesioni superarono di poco l'uno per cento.
I tedeschi non riuscivano a capire perché gli italiani rispondessero in
massa negativamente. Nel diario di un soldato, salvato a stento e con grave rischio,
è descritto uno di questi episodi di rifiuto:
Il tedesco, con voce stridula, grida, e l'interprete traduce:
- Chi non è fascista alzi la mano. Eravamo in duemila, consapevoli che
stavamo per decretarci un destino di sofferenza, forse di morte, ma tutti, non
uno escluso, abbiamo alzato la mano; era una selva di braccia e in quell'istante
ci siamo sentiti noi. L'ufficiale domanda ancora: Da dove vengono? - Da tutti
i fronti, è stata la risposta.
Quest'ultima testimonianza è di
D.Lusetti, Lager IX B.
Diario di prigionia.
Il volume curato da Paride Piasenti,
per conto dell'Associazione Nazionale Ex-Internati,
approfondisce con moltissime testimonianze la storia dei militari italiani nei
Lager.
Giovannino Guareschi
Diario clandestino 1943-1945
Rizzoli, Milano, 1990
e
La favola di Natale
Rizzoli, Milano, 1971
Giovannino Guareschi, il noto autore di Peppone e don Camillo, fu internato
dai tedeschi in campo di concentramento subito dopo l'8 settembre, come
avvenne per altri 600.000 militari italiani. Queste le tappe della sua
prigionia, secondo la biografia ricostruita dal sito a lui dedicato
www.giovanninoguareschi.com.
9 settembre 1943: viene fatto prigioniero dai tedeschi nella caserma di Alessandria.
Il 13 parte dalla stazione di Alessandria e arriva a quella di Bremerwörde (D) il 18.
Di lì, lo stesso giorno, a piedi, va nell'OFLAG XB di Sandbostel. Riparte a piedi il 23
per la stazione di Bremerwörde (D) da dove riparte subito e arriva il 27 alla stazione
di Czestokowa (Pol.) e da lì alla NORDKASERNE STALAG 367. Il 12 ottobre viene condotto
al Santuario di Czestokowa. Dalla NORDKASERNE STALAG 367 l'8 novembre viene condotto
alla stazione di Czestokowa da dove parte e arriva il 10 a Beniaminowo (OFLAG 73 -
STALAG 333). Riparte per la Germania il 30 marzo 1944 e arriva alla stazione di
Bremerwörde (D) il 1° aprile. Da lì, a piedi, viene condotto all'OFLAG X B di
Sandbostel (D) il 2. Dall'OFLAG X B di Sandbostel (D) a piedi alla stazione di
Bremerwörde (D) il 29 gennaio 1945 e riparte il 30 per l'OFLAG 83 di Wietzendorf
(D) dove arriva il 31 Viene liberato il 16 aprile e parte dall'OFLAG 83 di
Wietzendorf per la cittadina di Bergen il 22. Dalla cittadina di Bergen (D)
rientra nell'OFLAG 83 di Wietzendorf (D) il 1° maggio. Dall'OFLAG 83 di Wietzendorf
(D) viene rimpatriato il 29 agosto e arriva a Parma il 4 settembre 1945.
Il registro che caratterizza i suoi scritti degli anni di prigionia è solo apparentemente
quello dell'ironia. Così scrive nella prefazione al Diario clandestino:
Anche in prigionia conservai la mia testardaggine di emiliano della Bassa:
e così strinsi i denti e dissi: "Non muoio neanche se mi ammazzano!".
E non morii.
Probabilmente non morii, perché non mi ammazzarono: il fatto è che non morii.
La tonalità di fondo è, piuttosto, quella di un grande senso di umanità che
vuole sollevarsi al di sopra di ciò che appare irreparabile, per testimoniare
una speranza più grande dell'uomo. Nel brano intitolato Signora Germania, tratto
dalla conversazione "Baracca 18", scritta nel Lager di Beniaminovo, nel 1944,
così scrive:
Signora Germania, tu mi hai messo tra i reticolati, e fai la guardia perché
io non esca. E' inutile signora Germania: io non esco, ma entra chi vuole.
Entrano i miei affetti, entrano i miei ricordi. E questo è niente ancora,
signora Germania: perché entra anche il buon Dio e mi insegna tutte le cose
proibite dai tuoi regolamenti.
Signora Germania, tu frughi nel mio sacco e rovisti fra i trucioli del mio
pagliericcio. E' inutile signora Germania: tu non puoi trovare niente, e invece
lì sono nascosti documenti d'importanza essenziale. La pianta della mia casa,
mille immagini del mio passato, il progetto del mio avvenire. E questo è ancora
niente, signora Germania. Perché c'è anche una grande carta topografica al 25.000
nella quale è segnato, con estrema precisione il punto in cui potrò ritrovare
la fede nella giustizia divina.
Signora Germania, tu ti inquieti con me, ma è inutile. Perché il giorno in cui,
presa dall'ira farai baccano con qualcuna delle tue mille macchine e mi distenderai
sulla terra, vedrai che dal mio corpo immobile si alzerà un altro me stesso,
più bello del primo. E non potrai mettergli un piastrino al collo perché volerà via,
oltre il reticolato, e chi s'è visto s'è visto.
L'uomo è fatto così, signora Germania: di fuori è una faccenda molto facile da comandare,
ma dentro ce n'è un altro e lo comanda soltanto il Padre Eterno. E questa è la fregatura
per te signora Germania.
Guareschi, che portava il numero 6865, bruciò,una volta liberato, il Diario che aveva scritto
meticolosamente, giorno per giorno. Volle, invece, conservare e pubblicare gli scritti
che apparvero poi sotto il nome di Diario clandestino. Così presenta lui stesso il
senso di questo testo:
E' l'unico materiale autorizzato,in quanto io non solo l'ho pensato e l'ho scritto
dentro il Lager: ma l'ho pure letto dentro il Lager. L'ho letto pubblicamente una, due,
venti volte, e tutti lo hanno approvato.... E' la voce del numero 6865 che parla. E' la
stessa voce di allora. Sono gli stessi baffi di allora.
Non ho aggiunto niente: ho bruciato il famoso diario perché non avevo il diritto di dire
sul nostro Lager cose che non fossero state approvate dai miei compagni di Lager...
Da quelli vivi e da quelli morti. Perché bisogna anche tener conto dei Morti, nella
vera democrazia.
Proprio a coloro che non tornarono è dedicato il Diario clandestino. E' tutta una
umanità che ha lottato insieme per la vita nei campi di concentramento ed essa dovrà,
per Guareschi, incontrarsi di nuovo in Dio.
Ai miei compagni che non tornarono
Egli pensa che, questa notte, nel Lager nessuno guarderà il cielo del nuovo anno:
pensa ai compagni che non sono tornati, ma che un giorno ritroverà.
Sulle strade ferrate corre silenzioso un treno fantasma. E' un treno che ha girato
per tutte le strade ferrate di Germania, di Polonia, di Russia, di Jugoslavia e ha
fatto sosta in tutti i campi di concentramento, ed è un convoglio che non finisce
mai perché è il treno che porta le anime dei morti in prigionia. Ora corre per le
strade ferrate d'Italia si ferma soltanto quando c'è da caricare l'anima di un
ex-deportato. E quando fra cinquanta o sessant'anni, avrà caricato le anime di
tutti i reduci, prenderà l'aereo binario che porta dove Dio vuole, e nessuno
in terra lo vedrà più.
Egli sa che un giorno il treno fantasma si fermerà alla stazione del suo paese,
e anche lui salirà e ritroverà così i compagni perduti.
E, nell'attesa, si consola di ogni anno che passa.
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