Rassegna libraria Voci dalla Shoah

Capitolo 8 - L'Italia e gli Italiani

Fausto Coen
Italiani ed ebrei: come eravamo
Marietti, Genova, 1988

L'11 novembre 1938 il consiglio dei ministri approva in Italia le Leggi per la difesa della razza.

D: Quale effetto ha avuto sulla politica fascista della razza la conquista dell'Impero?
R: La conquista dell'Impero ha avuto l'effetto d'imporre la tutela dell'unità e della purezza della razza italiana, come condizione della nostra superiorità colonizzatrice e perché non avvengano miscugli di sangue che determinerebbero il triste e ripugnante fenomeno del meticcismo, rovina delle nazioni e degli imperi.

D: Gli ebrei appartengono alla razza italiana?
R: No, gli ebrei, anche se nati in Italia non appartengono alla razza italiana. Essi rappresentano l'unica popolazione che non si è mai assimilata in Italia perché è costituita da elementi razziali non europei, diversi in modo assoluto da quelli che hanno dato origini agli Italiani.

D: Chi è considerato di razza ebraica?
R: E' considerato di razza ebraica colui che nasce da genitori entrambi ebrei, o da padre ebreo e madre di nazionalità straniera, o, pure essendo nato da un matrimonio misto, professa la religione ebraica, oppure la professava dopo il I° Ottobre dell'anno XVI.

D: Qual è stato, generalmente parlando, l'atteggiamento degli ebrei nei riguardi dell'Italia fascista?
R: L'ebraismo mondiale è stato l'animatore dell'antifascismo in tutti i campi, nonostante la larghissima tolleranza di cui gli ebrei hanno goduto in Italia, e abusato, prima delle leggi restrittive.

D: Quali provvedimenti sono stati presi per mantenere la purezza del sangue e dello spirito italiano e per difendere lo stato e l'anima nazionale da un'infiltrazione estranea e nociva?
R: Il regime ha preso i seguenti provvedimenti:

a) di carattere generale

  • divieto di matrimonio di italiani e italiane con elementi appartenenti alle razze semita, camita e altre razze non ariane;

  • divieto ai dipendenti civili e militari dallo stato e da enti pubblici di contrarre matrimonio con donne straniere di qualsiasi razza;

  • obbligo a tutti gli italiani e italiane che vogliano contrarre matrimonio con stranieri anche di razze ariane, di chiedere il preventivo consenso del Ministero degli Interni;

  • rafforzamento delle misure contro chi attenta al prestigio della razza nei territori dell'Impero, e sanzioni penali per la difesa del prestigio di razza di fronte ai nativi dell'Africa italiana;

  • leggi speciali riguardanti la posizione dei meticci in A.O.I. e il loro riassorbimento da parte delle razze di colore.


b) di carattere particolare

  • divieto d'entrata di ebrei di cittadinanza straniera in Italia, ed espulsione degli ebrei stranieri venuti in Italia dopo il 1919, anche se abbiano acquistato la cittadinanza italiana, eccettuati quelli di età superiore ai 65 anni o che abbiano contratto matrimonio misto italiano prima del I° ottobre Anno XVI;

  • esclusione degli ebrei dal P.N.F.

  • esclusione degli ebrei dal servizio militare in pace e in guerra;

  • esclusione degli ebrei dai pubblici uffici;

  • esclusione degli ebrei dall'insegnamento delle scuole italiane di ogni ordine e grado;

  • divieto agli ebrei di possedere, dirigere, amministrare, controllare aziende interessanti la difesa nazionale, banche, istituti di credito o di previdenza d'interesse pubblico, e aziende di qualsiasi natura che impieghino cento o più persone;

  • divieto agli ebrei di essere possessori di terreni il cui estimo superi le Lire 5000 e di fabbricati il cui reddito imponibile superi le Lire 20000;

  • divieto agli ebrei di tenere al loro servizio, in qualità di domestici, persone di razza ariana.


Così le domande e le risposte ne Il primo libro del fascista (Mondadori, Verona, 1940), uno dei tanti libri di educazione fascista della gioventù.



Fausto Coen
16 ottobre 1943. La grande razzia degli ebrei di Roma
Giuntina, Firenze, 1993

Kappler prese in modo autonomo l'iniziativa della estorsione dei 50 chili d'oro agli ebrei romani.
Il progetto si rivela astuto e infame e agisce in varie direzioni. Prima di tutto Kappler farà credere agli ebrei romani che da loro non si vuole di più e lasciandoli in questa illusione tragica consentirà di fatto che si realizzi quel blitz di sorpresa che Himmler avrebbe voluto per il 1° ottobre ma che il rifiuto di un appoggio militare da parte di Kesselring aveva reso impossibile per quella data. In secondo luogo Kappler darà all'esecutore materiale del piano (che sarà Dannecker) tutto il tempo necessario per organizzare la grande retata con metodo e garanzie di riuscita.

Domenica 26 settembre alle 10 del mattino il dottor Gennaro Cappa, Capo del Servizio Razza della Questura di Roma, informava il dottor Dante Almansi, Presidente della Unione delle Comunità Israelitiche Italiane, e l'avvocato Ugo Foà, Presidente della Comunità Israelitica di Roma, che alle ore 18 di quella stessa Domenica dovevano recarsi a Villa Volkonsky dove li aspettava nel suo Ufficio di “Sicurezza Politica” il tenente colonnello Herbert Kappler per importanti comunicazioni.

Così Foà racconta l'incontro con Kappler: “Cambiando improvvisamente tono ed accento, mentre il suo sguardo diveniva tagliente e duro, fece ai suoi interlocutori il seguente discorso: Voi ed i vostri correligionari avete la cittadinanza italiana, ma di ciò a me importa poco. Noi tedeschi vi consideriamo unicamente ebrei e come tali nostri nemici. Anzi, per essere più chiari, noi vi consideriamo come un gruppo distaccato, ma non isolato, dei peggiori fra i nemici contro i quali stiamo combattendo. E come tali dobbiamo trattarvi. Però non sono le vostre vite né i vostri figli che vi prenderemo se adempirete alle nostre richieste. E' il vostro oro che vogliamo per dare nuove armi al nostro Paese. Entro 36 ore dovrete versarmene 50 chilogrammi. Se lo verserete non vi verrà fatto alcun male. In caso diverso duecento fra voi verranno presi e deportati in Germania alla frontiera russa o altrimenti resi innocui...”

Trentasei ore: la consegna dunque doveva avvenire entro le 12 del 28 settembre.

Nella lunga fila che per 36 ore si snodò sul marciapiede che costeggia il Lungotevere Cenci, dove, accanto alla Sinagoga principale, si trovano gli uffici comunitari, c'erano ricchi e poveri, intellettuali e commercianti, artigiani e venditori ambulanti, gente colta e sprovveduta, ben vestita o dismessa. Alcuni recavano con sé pacchetti di una certa consistenza, altri involtini assai più piccoli. La rinuncia a un esile anello, a un paio di orecchini consunti, a una vecchia spilla o a un modesto braccialetto, esibiti al Tempio solo nelle feste solenni di Rosh Hashanà (il Capodanno) o di Kippur (il giorno dell'espiazione), è stata per i più poveri una ferita dolorosa. Erano oggetti che ricordavano miniàn, nozze, milot, nascite, persone scomparse. Quegli oggetti avevano scandito alcuni momenti felici. Quel mucchietto di oro era stato un muto testimone della propria storia di famiglia.

In quella lunga fila non c'erano solo ebrei. C'erano persone alle quali Kappler non aveva chiesto nulla ma che avevano voluto esprimere la loro solidarietà a una minoranza offesa e in pericolo. Erano quegli stessi “uomini giusti” che cinque anni prima, nel 1938, avevano mostrato la loro solidarietà agli ebrei colpiti dalle inique leggi razziali e che la propaganda fascista aveva indicato al disprezzo generale come “pietisti”. E tra costoro non mancarono in quelle 36 ore nella lunga fila anche alcuni sacerdoti.

La S. Sede faceva sapere in via ufficiosa al Presidente della Comunità che ove non fosse stato possibile raggiungere i 50 chili nel termine fissato avrebbe coperto la quantità mancante. La Comunità l'avrebbe restituita “quando - ricorda Foà - fosse stato in grado di farlo…”. Era un prestito, non un dono, al quale però non fu necessario ricorrere, perché col passare delle ore cresceva sorprendentemente il numero degli offerenti.

In ogni caso la disponibilità vaticana sollevò la Comunità dall'incubo di non raggiungere la taglia imposta da Kappler.

La consegna dell'oro doveva avvenire non già a Villa Volkonsky ma a Via Tasso, nella palazzina n. 155 che non era ancora il luogo sinistro delle torture e del terrore, ma almeno formalmente “l'Ufficio di Collocamento dei Lavoratori italiani per la Germania”.

Alle ore 16 in Via Tasso Kappler non si presentò. Non aveva voluto abbassarsi alla meschina formalità di ricevere quell'oro che aveva estorto. Si era fatto sostituire da un ufficiale di grado inferiore, il capitano Kurt Schutz, che rivelò subito modi arroganti e diffidenti. Lo Schutz si era fatto assistere da un orafo romano, di cui non si è mai saputo il nome, e da un altro ufficiale delle SS inviato da Berlino con un corriere speciale. La pesatura fu eseguita con una bilancia della portata di 5 chili. Ogni pesata veniva registrata contemporaneamente da Dante Almansi e da un ufficiale tedesco, che si trovavano alle due estremità del tavolo. Alla fine dell'operazione, mentre Almansi aveva segnato dieci pesate, il capitano Schutz dichiarava risentito che le pesate erano nove. Le proteste di tutti gli ebrei presenti irritarono ancor di più il capitano che si opponeva anche a quella che era la via più semplice per sciogliere ogni dubbio: cioè ripetere l'operazione. Finalmente, di fronte alle vive insistenze da parte ebraica, il capitano Schutz diede ordine di ripetere le pesate. Dovette arrendersi alla realtà: i chili erano proprio 50 e gli ebrei non erano imbroglioni.

(Alcuni giorni dopo) tutto il complesso degli edifici che comprendono il Tempio Maggiore e gli uffici comunitari fu circondato da un cordone di SS. Ogni uscita fu bloccata e agli impiegati fu intimato di non muoversi dai loro posti. Subito dopo un gruppo di ufficiali e sottoufficiali tedeschi dei quali alcuni esperti in lingua ebraica “... cominciarono una minuziosa perquisizione di tutto l'edificio dalla cupola della Sinagoga fino al sottostante Oratorio di rito spagnolo e alle cantine...”.

Nonostante la perquisizione non avesse portato alla scoperta di “documenti segreti”, una grande quantità di carte venne ugualmente prelevata forzando armadi e cassetti quando non venivano subito reperite le chiavi.

Tra le carte vennero prelevati anche i ruoli dei contribuenti che saranno, a guerra finita, al centro di discussioni e polemiche. Mentre gli schedari anagrafici di stato civile e i fogli di famiglia erano stati prudentemente messi al sicuro, quei ruoli considerati solo documenti tributari erano rimasti negli uffici senza tener conto che anch'essi recavano le generalità e gli indirizzi dei contribuenti.

La mattina del 30 settembre, Capodanno secondo il calendario ebraico, due ufficiali tedeschi tornavano a Lungotevere Cenci questa volta per ispezionare le biblioteche del secondo e del terzo piano. Erano due orientalisti, uno dei quali col grado di capitano si era qualificato professore di lingua ebraica in un Istituto superiore di Berlino. Il giorno successivo, il 1° ottobre, i due tornavano per esaminare con più attenzione i volumi esprimendo spesso meraviglia e ammirazione e prendendo numerosi appunti.

Eichmann decideva allora di inviare a Roma per la “Judenrazzia” Theo Dannecker, un esperto di sua fiducia, relatore per gli affari ebraici “che aveva dato il via ai rastrellamenti di ebrei a Parigi...”. Dannecker, per non dare nell'occhio, fissava il suo quartier generale non in via Tasso ma in una modesta pensione in via Po. Dopo pochi giorni arrivava anche il suo reparto speciale, formato da quattordici ufficiali e sottoufficiali e trenta militi delle SS che in parte provenivano dalle formazione specializzate nella “bonifica antiebraica” sul fronte orientale, le famigerate “ Einsatzgruppen”.

Alle ore 23 di venerdì 15 i coniugi Sternberg - Monteldi, entrambi ebrei che provenivano da Trieste e avevano preso alloggio a Roma all'albergo Vittoria, pur essendo muniti di passaporto svizzero vennero arrestati dalle SS e sottoposti ad interrogatorio. Da nessun documento risultava che fossero ebrei, nè i loro nomi figuravano su nessuno degli elenchi di Dannecker. E' impossibile stabilire come la loro presenza fosse stata segnalata alle SS.

La grande razzia cominciò attorno alle 5,30. Vi presero parte un centinaio circa di quei 365 uomini (di cui 9 ufficiali e 30 sottoufficiali) che erano il totale delle forze impiegate per la “Judenoperation”.

Le SS entrarono di casa in casa arrestando le intere famiglie in gran parte sorprese ancora nel sonno. Quando le porte non vennero subito aperte le abbatterono col calcio dei fucili o le forzarono con leve di ferro. Tutte le persone prelevate vennero raccolte provvisoriamente in uno spiazzo che si trova poco al di là dello storico Portico d'Ottavia attorno ai resti del Teatro di Marcello. La maggior parte degli arrestati erano adulti, spesso anziani e assai più spesso vecchi. Molte le donne, i ragazzi, i fanciulli. Non venne fatta nessuna eccezione nè per persone malate o impedite, nè per le donne in stato interessante, nè per quelle che avevano ancora i bimbi al seno. Per nessuno.

I tedeschi tentarono di dare alla brutale operazione il carattere di un “trasferimento”. Volevano un gregge inconsapevole e cercavano di evitare possibili gesti inconsulti, atteggiamenti ostili, disordini. Cercavano di evitare intoppi e contrattempi che potevano rallentare l'operazione. Volevano soprattutto fare presto.

A questo fine avevano consegnato a ciascuno un ordine bilingue:

  1. Insieme con la vostra famiglia e con gli altri ebrei appartenenti alla vostra casa sarete trasferiti.

  2. Bisogna portare con sè viveri per almeno 8 giorni, tessere annonarie, carta d'identità e bicchieri.

  3. Si può portare via una valigetta con effetti e biancheria personali, coperte, eccetto., danaro e gioielli.

  4. Chiudere a chiave l'appartamento e prendere la chiave con sè.

  5. Ammalati, anche casi gravissimi, non possono per nessun motivo rimanere indietro. Infermeria si trova nel campo.

  6. Venti minuti dopo la presentazione di questo biglietto, la famiglia deve essere pronta per la partenza.


Si voleva far credere alle vittime ad una destinazione non definitiva. “Chiudere a chiave l'appartamento e prendere la chiave con sè” faceva supporre un possibile ritorno. “Tessere annonarie e di identità” implicavano una destinazione nella quale questi documenti avrebbero potuto servire. Ma perché allora “ammalati anche gravissimi non possono restare indietro”?

Nessun quartiere della città fu risparmiato. In quelli di Trastevere, Monteverde e Testaccio, i più prossimi all'ex Ghetto, si ebbe il maggior numero di arresti.

Così come nelle dimesse case di Portico d'Ottavia anche in quelle borghesi e signorili di Roma si consumò la grande tragedia. Vennero versate lacrime, si diffuse la disperazione, si tentarono fughe disperate. In via Brescia al n.29 i tedeschi si erano avvicinati al letto dove giaceva la signora Sofia Soria vedova Tabet puntandole un'arma per sollecitarla ad alzarsi. La signora Sofia, che aveva 92 anni, morì per lo spavento. Era la suocera del prof. Vittorio Calò, generale medico. Le SS tornarono due giorni dopo al funerale della poveretta sperando di arrestare i famigliari. La mancanza di pietà verso i vegliardi, gli infermi, i bambini appariva incomprensibile per i testimoni di quella giornata. Giulio Anau ricorda che un parente, Beniamino Philipson, fu prelevato nella sua abitazione di via Flavia 84 sulla sedia a rotelle di invalido, perché da molti anni colpito da morbo di Parkinson, “tra la indignazione dei presenti impotenti tuttavia di fronte ai mitra spianati....”.

In via Adalberto, non lontano da piazza Bologna, le SS non trovarono nessuno: solo un bimbo di quattro anni - Ennio Lanternari - che dormiva nel letto dei nonni in quel momento assenti. Le SS lo presero, il bambino si svegliò spaventato e cominciò a piangere. Intanto rientrava la nonna che era scesa un momento per comprare qualcosa. Presero lei e il nipotino.

Anche Settimio Calò si salvò. Anche lui era uscito di casa per fare la fila per le sigarette. ma quando tornò nella sua casa, non trovò più nessuno. Né la moglie né i dieci figli, il più grande dei quali aveva 21 anni e il più piccolo, Samuele, ancora lattante, 4 mesi. “Mi gettai contro le porte, volevo unirmi agli altri, non capivo più niente... poi mi sedetti a terra e cominciai a piangere. Ho vissuto solo perché ho sempre sperato di riaverne almeno uno, magari Samuele. Rimasi vivo io solo e vorrei essere morto“.

Alle ore 14 la grande razzia era terminata. I catturati erano 1259: 363 uomini, 689 donne, 207 bambini. Sia gli ebrei del vecchio quartiere sia gli altri furono tutti provvisoriamente sistemati nei locali del Collegio Militare, il vasto e massiccio edificio in Via della Lungara, dominato dal Gianicolo. Gli uomini furono separati dalle donne e dai bambini. Divisi in gruppi, furono distribuiti nelle aule, nei corridoi, nelle palestre e in altri locali di fortuna. Quando questi spazi furono riempiti, gli uomini più benportanti furono disposti sotto il porticato di ingresso. Tutte le imposte delle aule erano state sbarrate con assi di legno inchiodate.

Il pianto incessante delle donne e dei bambini, gli incomprensibili ordini urlati in continuazione dalle sentinelle, la semioscurità, l'inadeguatezza dei servizi igienici crearono molta tensione e grande confusione.

All'alba di domenica, dopo un esame minuzioso delle carte di identità e di altri documenti, furono liberati i coniugi e i figli di matrimonio misto, i coinquilini e il personale di servizio non ebrei che al momento della retata si trovavano nelle case dei ricercati. In tutto 237 persone. A Wachsberger fu ordinato sul posto di assumere le funzioni di interprete e di tradurre l'ordine dell'ufficiale:

... coloro che non sono ebrei si mettano da una parte. Se trovo un ebreo che abbia dichiarato di non esserlo, appena la bugia sarà scoperta quello sarà fucilato immediatamente...

Nonostante la gravissima minaccia, sette ebrei riuscirono a inserirsi nel gruppo di coloro che vennero liberati. Sono Giuseppe Durghello con la moglie Bettina Perugia e il figlio Angelo; Enrico Mariani, Angelo Dina, Bianca Ravenna Levi e la figlia Piera.

Dei 1022 infelici, una sola persona non era ebrea. Era una donna cattolica che per non abbandonare un orfanello ebreo malfermo in salute affidato alle sue cure non aveva avuto l'animo di dichiararsi non ebrea e aveva voluto seguire la sua sorte. Nè il bimbo nè la sua generosa protettrice sono più tornati.

Nella notte Marcella Perugia Di Veroli, al nono mese di gravidanza, cominciò ad avere le doglie. I tedeschi non permisero di trasferirla all'Ospedale, acconsentirono solo che venisse chiamato un medico. La partoriente fu isolata nel porticato del Collegio Militare e diede alla luce una bimba. Marcella Perugia aveva 23 anni e con lei erano stati arrestati anche i suoi due figli di 5 e 6 anni. Il marito Cesare Di Veroli era riuscito a sfuggire alla retata.

Nessun cenno della grande razzia è ovviamente reperibile nei giornali dell'epoca. Essa può essere desunta solo da una notiziola dall'apparenza innocente, quasi una “burocratica informazione di servizio”, sui giornali romani del 18 ottobre. I quali informavano i lettori che “ la partenza degli ufficiali per il Nord, fissata oggi alle 9, non può effettuarsi dalla Stazione Tiburtina. Si parte domani da Termini”. La ragione era evidente. Un ben diverso convoglio sarebbe partito quella mattina dallo scalo periferico romano e nessun occhio indiscreto doveva essere testimone di quel crimine.

All'alba di lunedì 18 ottobre gli oltre mille prigionieri furono trasferiti su autocarri dal Collegio Militare allo scalo merci della stazione ferroviaria. Su un binario morto si trovava da alcuni giorni un convoglio composto da 18 carri bestiame. Gli arrestati furono tutti stipati nei vagoni: 50 o 60 su ogni carro, in uno spazio insufficiente. La penosa attesa degli arrestati durò sei ore.

In fondo alla rampa su un binario morto rettilineo- scrive Elsa Morante - stazionava un treno che pareva a Ida di lunghezza sterminata. Il vocìo veniva di là dentro. Erano forse una ventina di carri bestiame.... Non avevano nessuna finestra se non una minuscola apertura a grata in alto. A qualcuna di quelle grate si sporgevano due mani aggrappate o un paio d'occhi fissi.

Su questa sosta (a Padova), l'ultima in terra italiana, c'è la annotazione sul suo diario giornaliero della ispettrice della Croce Rossa Lucia De Marchi, quel giorno di servizio.

... alle ore 12, non preannunciato, sosta alla nostra stazione centrale un treno di internati ebrei proveniente da Roma. Dopo lunghe discussioni ci viene dato il permesso di soccorso. Alle 13 si aprono i vagoni chiusi da 28 ore! In ogni vagone stanno ammassate una cinquantina di persone, bambini, donne, vecchi, uomini giovani e maturi. Mai spettacolo più raccapricciante s'è offerto ai nostri occhi. E' la borghesia strappata alle case, senza bagaglio, senza assistenza, condannata alla promiscuità più offensiva, affamata e assetata. Ci sentiamo disarmate e insufficienti per tutti i loro bisogni, paralizzati da una pietà fremente di ribellione, da una specie di terrore che domina tutti, vittime, personale ferroviarie, spettatori, popolo...

Alle ore 23 di venerdì 22 ottobre, dopo un viaggio allucinante di 6 giorni e 6 notti, il treno arrivò ad Auschwitz-Birkenau. Nessuno fu fatto scendere fino al giorno successivo. Il convoglio rimase ancora sigillato e vigilato per tutta la notte.

Formatosi, sotto gli ordini urlati dalle SS, un allineamento casuale, arrivò il dottor Josef Mengele, la cui fama sinistra è oggi consegnata alla storia ma allora era un personaggio del tutto ignoto ai nuovi arrivati. Sotto la sua direzione cominciò la selezione: i bambini, i vecchi, i vecchi, i malati e coloro che avevano un aspetto gracile o malaticcio (e anche uomini non vecchi ma coi capelli bianchi) vennero allineati alla destra di Mengele e dei suoi aiutanti. Erano circa cinquecento.

Alla sua sinistra gli uomini e le donne giudicati adatti al lavoro.

Intanto era giunto sul posto il Comandante del campo, Rudolf Hoess. Normalmente Hoess non assisteva alla selezione dei prigionieri ma nei giorni precedenti c'era stata una grande curiosità per l'annunciato arrivo degli ebrei italiani. Gli stessi dirigenti del campo ne erano stati contagiati e vollero assistervi. Era il primo convoglio di italiani che giungeva ad Auschwitz.

Il Comandante Hoess ordinò a Wachsberger di tradurre l'annuncio che donne, bambini, ammalati sarebbero stati trasferiti sui camion nei campi “di permanenza” che distavano circa 10 chilometri. Però anche gli abili al lavoro, che si sentivano stanchi e volevano salire su quegli autocarri, potevano farlo.

Duecento uomini e cinquanta donne abbandonarono le file dei “validi” per unirsi agli altri che erano già sugli automezzi. Il viaggio invece fu brevissimo, meno di un chilometro, percorso in pochi minuti. Gli autocarri si fermarono davanti alle camere a gas. L'eliminazione fu immediata.

Wachsberger racconta che stava per salire anche lui sul camion ma Mengele glielo impedì perché aveva ancora bisogno di un interprete. Più tardi Wachsberger chiese al “dottore” (Mengele amava spesso chiacchierare con lui e si mostrava curioso dell'Italia e soprattutto di Mussolini) perché avevano lasciato salire sui camion anche uomini e donne validi. “Chi non è in grado di fare a piedi dieci chilometri - fu la risposta - non è adatto a fare il lavoro che si deve fare in questo campo”. Ma i più erano saliti sui camion per altre ragioni. Sergio Pace, ad esempio, era stato messo nella fila di quelli destinati al lavoro. Volle salire sull'autocarro per stare assieme al padre e alla madre. Non lo tradì né la “pigrizia” né la stanchezza, ma un sentimento che non era stato mai così forte come in quel momento. E come lui fecero molti altri.

Ci si può chiedere perché i tedeschi comunque in questo modo rinunciavano ad una parte di uomini validi. La ragione vera è che in quei giorni imperversava ad Auschwitz una epidemia di tifo. La immissione di un numero eccessivo di prigionieri aumentava le probabilità che il contagio si estendesse. Questo spiega perché nel convoglio del 23 ottobre la percentuale di coloro che finirono subito nelle camere a gas fu dell'82% (839 su 1022), la più alta in assoluto di tutti i successivi trasporti di deportati dall'Italia.

Delle cinquanta donne destinate al lavoro una sola sopravvisse: Settimia Spizzichino. Allora aveva 22 anni ed era stata presa con la madre e due sorelle in via della Reginella. Solo il padre si era salvato dalla retata. Sulla sorte delle 49 compagne che non sono più tornate la Spizzichino pensa che “... la neve, i lavori pesanti, la cattiva alimentazione, tutto ha contribuito alla decimazione”. Settimia si è salvata perché era stata avviata ad un “blocco di esperimenti” e “… fu aiutata da una infermiera di buon cuore...”. Quando venne liberata aveva 24 anni e pesava 30 chili. E' persuasa che quello che l'ha aiutata a resistere è stato soprattutto il pensiero che doveva tornare per raccontare...



Liliana Picciotto Fargion
Il libro della memoria. Gli ebrei deportati dall'Italia (1943-1945)
Mursia, Milano, 1991

L'elenco che segue, compilato in ordine alfabetico, è il risultato di un lavoro decennale. Esso comprende solo i deportati accertati, deceduti o reduci; non sono nominati quanti, pur arrestati, riuscirono a scampare alla deportazione per rilascio, per sopravvenuta liberazione o per fuga (423 casi), e neppure i casi sui quali non si è potuto raggiungere sufficiente certezza (412).
Negli elenchi che seguono, il totale degli ebrei deportati dal territorio italiano “metropolitano” risulta di 6746; il numero totale degli ebrei deportati dal Dodecaneso, riportati alla fine dell'elenco italiano, risulta di 1820; il numero di coloro che perirono non direttamente per la deportazione, ma, comunque, in conseguenza della persecuzione antiebraica risulta di 303.
Degli 8869 perseguitati 7860 sono deceduti durante la persecuzione.
Solo una posizione preconcetta può contestare la tragica dimensione e la realtà di queste cifre. Avvalorarle con i nomi di ciascuno è uno degli scopi di questo libro, un monumento alla memoria di tutte le vittime. Nonostante gli sforzi e le ore impiegate ad analizzare documenti, si può calcolare che mancano a questo elenco dalle 900 alle 1100 persone delle quali si è ormai persa la speranza di ritrovare i nomi. Quest'opera vuole essere un omaggio anche a loro, rimasti anche in questo libro insepolti: senza volto, senza nome, ma non senza voce.
Chiunque, nel tempo, sarà in grado di aggiungere, correggere, integrare i dati qui proposti verrà considerato benemerito.

Così scrive l'autrice, nell'introdurre il suo lavoro.



Louis Goldman
Amici per la vita
SP 44 Editrice, Firenze, 1993

Nel mezzo di quel tenebroso periodo della storia dell'uomo che fu l'olocausto ci furono esempi di sacrifici sublimi da parte di alcune persone per salvare da morte certa gli oppressi.
Questa storia è un tributo verso un gruppo di sacerdoti cattolici italiani i quali dal 1943 al 1945 rischiarono le loro vite per salvare me ed altri ebrei dai nazisti.
Se sono stato trattenuto dallo scrivere del loro coraggio, della loro dedizione e della profonda amicizia che si è instaurata tra noi è stato solo perché qualunque accenno alle loro azioni li metteva invariabilmente a disagio.
Ma i testimoni scompaiono e con loro la irrecuperabile documentazione di ciò che è avvenuto.
Ora i miei figli sapranno. E ricorderanno per sempre.


Con queste parole Louis Goldman, fotografo ebreo americano di origini polacche, introduce l'odissea della propria famiglia, costretta a fuggire dalla Francia occupata, coinvolta nel caos italiano seguito all'armistizio dell'8 Settembre 1943 e intrappolata fra Firenze e Treviso nella zona occupata dall'esercito tedesco fino alla liberazione nel 1945.
Fu solo grazie all'intervento e alle capacità di un gruppo di giovani preti cattolici se lui e i suoi familiari riuscirono a sfuggire alle persecuzioni dei nazisti.
Tutti tranne uno: il padre, arrestato il 6 Novembre 1943 durante la razzia degli ebrei di Firenze, venne deportato ad Auschwitz. Di lui non si ebbe più alcuna notizia.
Quei sacerdoti sono oggi ricordati da tutto il popolo ebraico con una pianta di ulivo lungo il Viale dei Giusti nel Museo dell'Olocausto di Gerusalemme.



Centro Furio Jesi (a cura del)
La menzogna della razza
Grafis Edizioni, Bologna, 1994

La menzogna della razza è il catalogo di una mostra che analizza il materiale razzista approntato dall'Italia fascista. Dai fumetti ai romanzi coloniali, dagli studi pseudo-scientifici all'invenzione di falsi testi ad uso antisemita è tutto un apparato che si muove. Il razzismo fascista fu certamente diverso da quello hitleriano, ma fu lo stesso presente ed ebbe conseguenze nefaste. Nel testo le leggi razziali del 1938 vengono analizzate nei loro effetti concreti.

La ricerca vuole illustrare e documentare la complessa macchina burocratico-amministrativa mobilitata al fine di attuare quei provvedimenti persecutori contro i singoli e i loro beni che caratterizzarono la prassi razzista del regime.

Vengono descritti anche i campi di internamento messi in opera dal fascismo.

Ferramonti di Tarsia è il principale campo di internamento per gli ebrei italiani e stranieri, l'unico appositamente costruito a tal fine, mentre per gli altri campi furono requisiti e sistemati edifici già esistenti. E' situato nella Valle media del fiume Crati, a circa 40 km da Cosenza ed a 6 dal paese di Tarsia, in una zona insalubre, paludosa, non ancora completamente bonificata, malarica; l'isolamento e la mancanza di collegamenti stradali con centri importanti rendono comunque il luogo adatto per il soggiorno coatto. I lavori di costruzione del campo vengono affidati alla ditta Parrini di Roma.

Al momento dell'occupazione nazista vengono costruiti i campi di transito, per raccogliere gli ebrei prima della deportazione in Germania ed in Polonia.

Nel periodo che va dal settembre del 1943 al febbraio 1944 viene attivato il campo di transito di Borgo San Dalmazzo, cittadina situata a 8 km da Cuneo. Vengono adibiti a tale uso i locali di una ex-caserma degli alpini, capace di contenere un elevato numero di reclusi e ubicata poco lontana dalla stazione ferroviaria. I tetri stanzoni di questa costruzione “accoglieranno”, in un primo tempo, 349 ebrei stranieri rastrellati dai tedeschi nelle valli cuneensi, e successivamente alcune decine di ebrei italiani, arrestati in seguito alla emanazione dell'ordine di polizia n.5.

Nel centro Italia il campo di transito più famoso, quello di Carpi-Fossoli, dove transitò anche Primo Levi.

Fossoli è il più importante campo di concentramento italiano, appositamente allestito per internare gli ebrei italiani e stranieri arrestati in seguito all'ordine di polizia n.5, diramato nel dicembre 1943; diventerà il centro di raccolta e smistamento più grande, l'ultima tappa verso la morte: da qui infatti partiranno la maggioranza dei convogli diretti ai campi di sterminio nazisti. Il campo, che prende il nome dalla cittadina dalla quale dista circa 1 km, probabilmente viene scelto dalle autorità in quanto struttura già collaudata per la raccolta di prigionieri e per la collocazione geografica che facilita la partenza dei convogli - la stazione di Carpi, dal quale dista 5 km, si trova lungo la linea ferroviaria per il Brennero.

Una tipologia diversa è quella del lager di Bolzano:

Bolzano rientra nella categoria dei campi definiti Polizei und Durchgangslager: centro di raccolta e smistamento verso i grandi Lager della Germania, della Polonia, dell'Austria.
“Esso, per la sua struttura e funzione, per la composizione degli internati, per i metodi di trattamento dei prigionieri, per le quotidiane angherie da parte del personale di sorveglianza, per la rigida disciplina di lavoro, per i decessi dovuti alla fame, ai maltrattamenti e alle malattie, fu una delle tipiche istituzioni previste dal regime nazista per la “soluzione finale del problema ebraico”, per l'estirpazione di tutti gli oppositori ed i nemici dello stato nonché per lo sfruttamento della forza-lavoro di milioni di prigionieri di guerra e deportati a favore della industria bellica nazista”. (Steurer L., 1987).
Le conoscenze su questo campo sono incomplete e spesso imprecise a causa della distruzione dei documenti compiuta dalle SS prima dell'abbandono del campo; difficile quindi indicare una data precisa per la sua istituzione, probabilmente si può fissare tra la fine di luglio e i primi di agosto del 1944, nel periodo in cui viene abbandonato Fossoli e i suoi internati condotti appunto a Gries, all'epoca un sobborgo di Bolzano.
Secondo testimonianze di ex deportati, il campo viene installato in una vecchia caserma per automezzi militari.
La struttura è costituita da due grandi capannoni da cui si ricavano, innalzando dei tramezzi, dei grandi vani - i cosiddetti blocchi - che vengono contraddistinti con lettere alfabetiche, dalla A alla M; davanti ai blocchi la piazza dell'appello. Sono poi allestite altre costruzioni che ospitano la cucina, la lavanderia, l'infermeria, le officine, e una tettoia per i servizi igienici; successivamente viene costruito il cosiddetto blocco celle destinato agli internati che vengono puniti o sottoposti agli interrogatori. Il blocco A viene assegnato agli internati che lavorano come meccanici, falegnami, elettricisti, ecc.; il blocco F è occupato dalle donne e dai bambini; nel blocco E sono reclusi gli internati ritenuti più pericolosi; gli altri uomini nei restanti blocchi.

Infine un campo in Italia più degli altri sarà luogo non solo di detenzione e transito verso la morte, ma luogo di morte stessa.

Nell'ottobre-novembre 1943 viene allestito dai nazisti un campo di concentramento in un vecchio stabilimento per la lavorazione del riso nel rione di San Sabba, alla periferia di Trieste. Il campo avrà la denominazione di Polizei-Haftlager, campo di detenzione per i partigiani, ma sarà attivato anche come centro di raccolta e smistamento per i prigionieri ebrei. La Risiera di San Sabba è l'unico campo di concentramento in Italia ad essere provvisto di forno crematorio... Dal gennaio 1944 a San Sabba transiteranno ebrei italiani e jugoslavi, una parte dei quali verrà uccisa direttamente nel campo mentre la maggioranza verrà deportata in Germania. Non è possibile stabilire con certezza il numero complessivo di ebrei reclusi in Risiera; spesso di loro rimangono soltanto un nome e una data incise sui muri delle celle.
Poiché i nazisti hanno cercato di cancellare ogni traccia del loro passaggio, ritrovare il nome di ognuno, ricostruire la tragica vicenda significa dare loro voce, restituirli alla memoria.
Negli anni Cinquanta il dott.Diego De Henriquez ha eseguito copie di queste iscrizioni murali, prima che fossero cancellate dagli angloamericani che, ripulendo gli ambienti, ridipinsero San Sabba diventata, nel dopoguerra, sede di campo profughi.



Danilo Sacchi
Fossoli: transito per l'olocausto. Quella casa davanti al campo di concentramento
Roma, 1997

L'autore racconta la storia del campo di Fossoli, vicino Modena, campo in cui transitò, fra gli altri, Primo Levi, prima di essere condotto ad Auschwitz, da una prospettiva particolare:

Questa è la storia, ma soprattutto una storia del Campo di concentramento di Fossoli, vista e vissuta da una famiglia di contadini che si è trovata d'improvviso davanti all'impensabile avvenimento: avvenimento che cambiò e segnò il vivere antichissimo di ciascuno, grandi e piccoli.
Vista e vissuta particolarmente attraverso i ricordi di chi allora era bambino e respirava la guerra dalla casa colonica dove era nato.

Danilo Sacchi descrive così il primo treno visto al casello di Fossoli, trasformato in stazione ferroviaria esclusivamente per i deportati ebrei:

Ne avevo già vista tanta di gente ammucchiata, condotta a piedi come mandrie di bestie, ma stavolta l'impressione era diversa, colpiva di più.
Notammo in un finestrino che ci stava di fronte un interno movimento, seguito dall'affacciarsi della faccia smunta di un ragazzo che sembrava fissarci. Allungò il braccetto sottile tra i reticolati verso di noi, e noi di colpo guardammo il gelato non ancora finito. Ciro, con un gesto di cui non lo credevo capace, si avviò tranquillo tendendo la mano con il gelato. Ma l'uomo che stava dietro fece svelto un passo e l'agguantò per il bavero della maglietta ritirandolo dov'era: cosa ti salta in mente, ragazzo! vuoi dare un dispiacere alla tua famiglia!
In quel momento cominciò il movimento, il gesticolare, il gridare che precedono la partenza di un treno. E come in ogni treno che parte, per quanto è lungo, era tutto uno sventolare di braccia, di mani, di fazzoletti, di sciarpe, un saluto a chi resta: perché anche questo era un treno che partiva. Però quelle mani non dicevano “arrivederci“, ma chiedevano pane e acqua, in una pretesa senza speranza, perché così era stato in una fermata precedente e sarebbe stato in quella prossima e in quella più in là ancora, finchè l'abitudine alla delusione e lo scemare della forza avrebbero impedito a quelle braccia e a quelle mani di sporgersi oltre il filo spinato del finestrino.
Il treno stentava a prendere velocità, poi finalmente ci riuscì scomparendo in quel punto che m'insegnavano essere il nord. Il casellante fu il primo a rompere il silenzio stregato in cui aveva lasciato quel treno.
Maledetti loro e i treni: proprio qua li dovevano far fermare! guardate come mi hanno combinato i gigli! - Ognuno si voltò ad osservare i gigli seminati davanti al casotto e che la fuliggine della locomotiva nella sosta aveva annerito e rovinato. Un contadino rispose: Perché non li pianti dall'altra parte, che sono fuori mano e ripararti dalla siepe di busso?
Tutti quanti fissavano quel punto come se fosse la cosa più importante. Il casellante fissò la bandiera rossa arrotolata che teneva in mano, sospirò e se ne andò senza salutare nessuno.



Giacomo Debenedetti
16 ottobre 1943
Sellerio Editore, Palermo,1993

Siamo a Roma, nell'ex Ghetto, quartiere popolato di artigiani, di piccoli commercianti ebrei. Sono passati da poco i giorni dell'armistizio. Il maggiore Kappler manda a chiamare i capi della Comunità Israelitica. Gli ebrei di Roma, egli dice, sono doppiamente colpevoli: come italiani, e quindi traditori; come ebrei, e quindi nemici della Germania da secoli. Il governo del Reich impone dunque una taglia. Essi devono raccogliere e versare, tempo un giorno e mezzo, cinquanta chili d'oro. Con affanno, con fatica, gli ebrei si danno a radunare l'oro. La città l'ha saputo, e alcuni “ariani” vengono a offrire oro, magari poco, quello che possono. “Quasi umilmente domandavano se potevano anche loro... se sarebbe stato gradito... Purtroppo non lasciarono i nomi, che si vorrebbero poter ricordare per i momenti di sfiducia nei propri simili. Torna a mente, e par bella, una parola ripetuta anche da George Eliot, il latte dell'umana bontà ”. Consegnati infine al maggiore Kappler i cinquanta chili d'oro, gli ebrei di Roma si sentirono tranquilli. Nell'ex ghetto la quiete ritorna, e ciascuno riprende la sua esistenza d'ogni giorno, il lavoro d'ogni giorno e i commerci, e le pratiche religiose. Hanno avuto la parola di Kappler, e se ne fidano: in cambio dell'oro, la sicurezza. “Contrariamente all'opinione diffusa - scrive Giacomo Debenedetti - gli ebrei non sono diffidenti. Per meglio dire: sono diffidenti al modo che sono astuti, nelle cose piccole, ma creduli e disastrosamente ingenui in quelle grandi”.
La vita nell'ex ghetto è dunque ritornata com'era, e “di primo mattino, non appena un barlume di giorno, viscido e grigio come le loro case, comincia a far leva sui cornicioni... già li trovi tutti per via, questi ebrei, e berciano, e si chiamano a gran voce per nome...”. Tutti, fossimo in quell'epoca vicini a Roma, o in Roma, o lontani, abbiamo in seguito cercato di raffigurarci le strade di quel quartiere, evocandole nella nostra memoria, o disegnandole nella nostra immaginazione. Tutti, quando camminiamo oggi in quel quartiere, ripensiamo a quel 16 ottobre, quando l'odio e la sventura scesero su quelle strade, su quella gente sprovveduta, affaccendata, ignara.
La sera del venerdì 15 ottobre, sopraggiunse, nell'ex Ghetto, una donna. Veniva da Trastevere, faceva, in Trastevere, i servizi a ore. “Una donna vestita di nero, scarmigliata, sciatta, fradicia di pioggia. Non può esprimersi, l'agitazione le ingorga le parole, le fa una bava sulla bocca”. Ha parlato con la moglie d'un carabiniere, la quale le ha detto che è stato visto, in mano a un tedesco, un elenco di nomi di capi-famiglia ebrei, destinati alla deportazione, con le loro famiglie. Ma nessuno le presta ascolto. La ritengono un'esaltata, una mentecatta. “Risalirono alle loro case, si rimisero a sedere intorno alla tavola, a cenare, commentando quella storia senza sugo”.
Può sembrare strano, alla luce dei fatti, tanto candore. Eppure chi ha vissuto quei giorni, e chi ha vissuto allora la paura della persecuzione, ricorda bene come al terrore dei nazisti si mescolasse un roseo ottimismo, e l'idea che forse, in definitiva, la realtà fosse più mite, più ragionevole dell'immaginazione. Lo stato d'animo che regnava negli ebrei allora, in Italia e forse anche altrove, era mutevole e discontinuo, e il panico lottava con qualcosa che voleva rassomigliare al buon senso. Così, seduti a cena, quegli ebrei dell'ex Ghetto respinsero ogni progetto di fuga, pronunciarono le loro preghiere, celebrarono l'arrivo del sabato.
Nella notte, per le vie del quartiere si udirono spari. Non soltanto spari ma urla sinistre, schiamazzi, “voci colleriche, sarcastiche, incomprensibili”. I bambini piangono, nelle case tutti sono in piedi, spiano, appostati ai vetri, sui vicoli immersi nel buio, i soldati.
“Che si può dire ai bambini per azzittarli, quando non si sa che dire a se stessi? Stai buono, ora vanno a Monte Savello, vanno a Piazza Cairoli, ora finisce, vedrai”. Poi all'alba, a un tratto, le strade tornano deserte, sopravviene un profondo silenzio. Ciascuno torna a dormire perché “a ripensarci, non è capitato niente ”. “I letti abbandonati avevano forse custodito un po' di tepore”.
Ma al mattino, ecco di nuovo i soldati. Niente spari, questa volta, niente urla. E' iniziato il rastrellamento. “Prendono tutti, ma proprio tutti, peggio di quanto si potesse immaginare”. Malati, vecchi paralizzati, lattanti, puerpere. Passano nelle vie le famiglie incolonnate. “I ragazzi cercano negli occhi dei genitori una rassicurazione, un conforto che questi non possono più dare...”.
“Taluno bacia le proprie creature: un bacio fra quelle vie, quelle case, quei luoghi che li hanno veduti nascere, sorridere per la prima volta alla vita”. E “già sui visi e negli atteggiamenti di questi ebrei, più forte ancora che la sofferenza, si è impressa la rassegnazione”. Al candore dell'incoscienza, sopravviene fulminea la memoria ancestrale di antiche deportazioni, che soffersero antenati remoti, dei quali essi mai hanno sentito parlare.
Qualcuno, chissà come, riesce a salvarsi. A una donna, i due tedeschi di sentinella davanti al suo portone fanno cenno di fuggire. Sono, si dirà più tardi, due austriaci. La donna, forte della sua fortuna, chiama una parente, dalla strada: “Scappa, che prendono tutti!”. La parente: “Un momento, vesto pupetto e vengo”. “Purtroppo vestire pupetto le fu fatale: fu presa con pupetto e con tutti i suoi”. Un'altra donna, che si crede ormai in salvo, a Ponte Garibaldi, vede passare un camion carico di parenti e conoscenti suoi rastrellati, getta un grido, e viene presa con i bambini. Un “ariano” riesce a salvare una delle bambine, dicendo che è sua. Ma la bambina piange e chiama la madre, e i tedeschi la mettono allora sul camion, anche lei scompare.
All'alba del lunedì, gli ebrei sono fatti salire in treno, a Roma-Tiburtino. Impossibile avvicinarsi al convoglio. Si dice che a Fara Sabina, o a Orte, da un treno che costeggiava il “treno piombato” una ragazza scorse, alla grata, il viso d'una bambina che conosceva, e la chiamò. Un altro viso apparve allora alla grata, e accennò di tacere. “Questo invito al silenzio, a non tentare più di rimetterli nel consorzio umano, è l'ultima parola, l'ultimo segno di vita che ci sia giunto da loro”.

Dalla Nota di Natalia Ginsburg, che accompagna il testo di Debenedetti, scritto nel novembre 1944.
L'autore così conclude il suo scritto:

Né il Vaticano, né la Croce Rossa, né la Svizzera, né altri Stati neutrali sono riusciti ad avere notizie dei deportati...



Liliana Picciotto Fargion
L'occupazione tedesca e gli ebrei di Roma
Carucci Editore, Roma, 1979

Il volume studia non solo la prima deportazione degli ebrei di Roma, quella del 16 ottobre 1943, ma anche quelle che seguirono. Questo è il rapporto telegrafico che Kappler inviò ad Eichman, la sera della grande razzia:

Iniziata e conclusa oggi azione ebrei modo migliore conforme piano elaborato d'ufficio. Usate forze polizia sicurezza e ordine disponibili al completo. Impossibile partecipazione polizia italiana in considerazione sua completa inaffidabilità al riguardo. Possibili perciò soltanto singoli arresti entro 26 distretti operativi in rapida successione di tempo. Sbarramenti stradali non effettuabili in considerazione prerogative città aperta ed insufficienza numerica 365 poliziotti tedeschi. Ciononostante durante azione eseguita dalle 5,30 alle 14 arrestate 1259 persone entro abitazioni ebraiche e portate campo di raccolta in Scuola Militare locale. Dopo rilascio misti, stranieri incluso un cittadino vaticano, famiglie matrimoni misti incluso coniuge ebreo, servitori ariani e subaffittuari, residuano 1.007 ebrei arrestati. Trasporto lunedì 18/10 ore 9.00. Accompagnamento di 30 uomini polizia dell'ordine. Comportamento popolazione italiana inequivocabile resistenza passiva ma in alcuni singoli casi aiuto attivo. In un caso per esempio poliziotti accolti sull'uscio da fascista in camicia nera e distintivo chiaramente appena subentrato come abitante appartamento ebraico. Osservati tentativi passaggio ebrei in abitazioni vicine all'arrivo polizia tedesca e certamente riusciti in numerosi casi. Durante azione rimasta assente parte antisemitica popolazione italiana e presente invece gran massa che in alcuni casi cercava sottrarre ebrei a poliziotti. In nessun caso fatto uso armi da fuoco.

Non ha bisogno di commenti la valutazione dell'atteggiamento degli italiani (polizia e civili) dinanzi alla razzia.
Gli arresti degli ebrei continuarono nei mesi successivi.

Da Roma... dopo quella del 18 ottobre non fu più organizzata direttamente alcuna deportazione. Il teatro di operazioni si era ormai spostato al Nord. I convogli furono organizzati da Milano. Tutti gli arrestati dell'Italia Centrale vennero avviati a Verona, dove furono caricati su carri agganciati ai treni provenienti da Milano. A Roma la maggioranza degli arrestati venne momentaneamente trattenuta nel carcere di Regina Coeli...
Oltre ai metodi per effettuare più arresti possibili, occorreva trovare un modo per organizzare in maniera ordinata la deportazione. Fu quindi scelto, - come già in altri paesi occidentali (in Belgio Malines, in Olanda Westerbork, in Francia Drancy e altri) - un campo di transito dove ammassare, classificare, dividere per categorie, scegliere per la deportazione tutti gli ebrei arrestati in Italia. La scelta cadde sul campo italiano per prigionieri di guerra inglesi di Fossoli presso Carpi.
Alla fine del 1943 Fossoli divenne dunque Polizeiliches Durchgangslager (campo poliziesco di transito) per ebrei e prigionieri politici destinati alla deportazione. L'amministrazione italiana, già sollecitata dal succinto ordine di polizia del 30 novembre, predispose tutto. Il 2 dicembre 1943 il Prefetto di Modena ordinò al podestà del comune di Carpi di allestire il campo in tale senso. A Fossoli gli ebrei romani, a partire dal gennaio 1944, giunsero a scaglioni. Da febbraio a maggio fu un incessante arrivo di famiglie disorientate, senza nessuna idea di ciò che stava loro accadendo...
In febbraio, come già visto dal grafico degli arresti, assistiamo a un pesante giro di vite. Il questore dette ordine di “... procedere con urgenza all'arresto degli ebrei puri italiani e stranieri rintracciati nelle singole giurisdizioni...”. Chiese anche “... l'elenco numerico e nominativo completo delle generalità degli arrestati, lo stato civile e l'indicazione del mestiere esercitato...”. Completò poi il fonogramma avvertendo che “... debbono essere fermati tutti i componenti le famiglie”.
Alla stanza 13 dell'Ufficio Politico della questura di Roma si svolgevano febbrili ricerche di ebrei “allontanatisi dalle loro abitazioni”, si teneva il conto degli arrestati, si svolgeva una complicata burocrazia di pratiche su casi dubbi. In marzo, Roma assistette all'assassinio per rappresaglia di 335 persone tra cui vennero scelti anche 77 ebrei rinchiusi nel III braccio di Regina Coeli in attesa di essere trasferiti al campo di Fossoli: l'eccidio delle Fosse Ardeatine.

Gli ebrei romani furono deportati ad Auschwitz dal campo di Carpi-Fossoli con i convogli del 5/4/44, del 16/5/44, del 26/6/44, e del 2/8/44. La Picciotto Fargion da l'elenco di tutti i deportati ed i nomi di quelli avviati direttamente alle camere a gas e dei pochi sopravvissuti.
Viene anche pubblicata nel libro la testimonianza di Arminio Wachsberger che fu deportato con il convoglio del 18 ottobre 1943 e fu risparmiato come traduttore dalle SS, perché conosceva il tedesco. Gli ebrei ancora non davano credito alle voci sullo sterminio:

E' da Radio Londra che abbiamo conosciuto l'esistenza dei campi di concentramento e dei provvedimenti contro gli ebrei ma, a dire il vero, non ci credevamo molto: pensavamo che tutte queste storie fossero argomenti della propaganda alleata contro i tedeschi.

Wachsberger dovette cominciare a fare l'interprete fra le SS e gli altri ebrei romani già all'interno del Palazzo Salviati, prima del trasferimento alla stazione Tiburtina:

Prima di partire il capo delle SS mi chiese di nuovo di tradurre ciò che stava per dire. Salii dunque su un tavolo e comunicai ai miei fratelli di sventura le menzogne del capo delle SS, credendo io stesso di dire la verità.
“3State per partire per un campo di lavoro in Germania. Gli uomini lavoreranno e le donne si occuperanno dei bambini e dei lavori di casa, ma ciò che avete portato con voi - denaro e gioielli - potrà servire a migliorare le vostre condizioni. Comincerete col consegnare tutto il denaro e i gioielli all'amministrazione, che gestirà i vostri averi. A ogni ebreo che trattiene del denaro o un gioiello, dite che, appena scoperto l'inganno sarà passato per le armi. Dunque, mettete nella mano destra i gioielli e nella sinistra il denaro: passerete in fila e mi consegnerete tutto”. Vicino al capo fu messa una cassa per i gioielli e i soldi, ma quando egli vedeva un bel gioiello, se lo metteva tranquillamente in tasca. Riuscii comunque a nascondere due anelli, mettendoli nel risvolto dei pantaloni.



Arrigo Paladini
Via Tasso. Museo storico della liberazione di Roma.
Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato, Roma, 1986

A Roma, in via Tasso, a fianco di piazza S.Giovanni in Laterano, il carcere e le celle di tortura della Gestapo. Da qui fu prelevata gran parte dei 335 uomini fucilati alle Fosse Ardeatine. Tra i trucidati 73 erano ebrei.



Giovanni Melodia
Non dimenticare Dachau
Mursia, Milano, 1993

Giovanni Melodia fu arrestato dai fascisti, nel 1939, per attività antifascista. Non fu liberato nel periodo badogliano e venne deportato a Dachau nell'ottobre 1943.
E' uno dei testimoni degli eventi di quel campo. Quando pensava che non avrebbe mai potuto vedere niente di peggio di ciò che già aveva visto, assistette all'arrivo a Dachau dei superstiti della marcia di evacuazione dei detenuti di Flossenburg, durante la ritirata nazista. Così descrive quel giorno:

Dopo tutto quello che abbiamo visto e vissuto, specialmente in questi ultimi giorni, non pensavamo che potesse succedere di restare sgomenti, ammutoliti, senza più voce né lacrime.
“Vengono da Buchenwald” ha azzardato qualcuno. “No, da Flossenburg, da Kempten” ha detto un altro. Ma a noi i nomi non interessano. Guardiamo atterriti perché mai ci è accaduto di vederli così da vicino, in pieno giorno, gli uomini non più uomini, spettri spaventosi che, disperatamente, incredibilmente, cercano ancora di camminare e si trascinano, le braccia degli uni sulle spalle, sulle braccia degli altri, nel tentativo folle, assurdo, di mantenere l'allineamento, retaggio di un indomabile terrore.
Ma le bocche aperte, le narici affilate, le occhiaie profonde e nerastre in quei visi che non sono più che teschi coperti di pelle sporca e giallastra, gli sguardi fissi, senza espressione, come negli agonizzanti.
Guardiamo sgomenti la lunga processione di scheletri che camminano su gambe di sole ossa con sopra un velo appena di pelle e che seminano di morti anche quest'ultimo tratto di strada, lunga per loro chissà quante centinaia di chilometri.
Guardo, e ad un tratto dentro di me un balzo, per qualcosa, in uno di quelli, che due suoi compagni trascinano, trascinati a loro volta, e che neppure più gli zoccoli ha ai piedi, un balzo dentro perché c'è qualcosa in questo, un profilo forse, che mi è noto, o forse no, soltanto una somiglianza, ma intanto loro, e altri e altri, sono passati, è verso il fondo della Lagerstrasse che li avviano, io sto frugando tra le ultime file, dove c'è qualcuno che ha un fardello, come una gerla, sulle spalle, il corpo inerte di un amico, un compagno, o di uno sconosciuto, guardo ancora e ancora, non trovo niente, non riconosco nessuno, ho soltanto quel viso, ossa soltanto, che cerco di ricostruire - com'era? com'era? - e d'improvviso, come un grido, un nome, soltanto il nome, di un tipografo triestino che era con me e con Pellegrini a Civitavecchia...

Dopo la liberazione del Lager, il 29 aprile 1945, si trattenne spontaneamente per organizzare il rimpatrio di tutti gli italiani. Venne a sapere che uno dei deportati che ne sosteneva un altro, nella lunga marcia di evacuazione era Ercole Maranzana, che è ora Presidente della sezione romana dell'ANED, (Associazione Nazionale Ex-Deportati).

Come apprenderò più tardi, uno dei fantasmi che avevano trascinato o si erano caricarti sulle spalle un altro fantasma, era il veneto Ercole Maranzana che, per molti chilometri, aveva sostenuto e quasi trasportato di peso il suo conterraneo Francesco Bortoluzzi, lui pure ex partigiano. Notevole è il fatto che Maranzana non me ne aveva mai parlato. Se l'ho saputo è perché me lo ha detto il Bortoluzzi, che ha voluto metterlo anche per iscritto, affinché non possa accadere che il meraviglioso comportamento a cui deve la vita, resti ignorato.



Enrico Deaglio
La banalità del bene. Storia di Giorgio Perlasca.
Feltrinelli, Milano, 1993

Il libro di Deaglio racconta il salvataggio di circa 5000 ebrei ungheresi, compiuto da un italiano: Giorgio Perlasca.

La persecuzione degli ebrei ungheresi è ancora oggi pochissimo conosciuta. Eppure avvenne sotto gli occhi del mondo. Lo sterminio organizzato durò otto mesi, dal marzo del 1944 al gennaio del 1945, quando già Hitler aveva perso la guerra, nel corso dell'avanzata contemporanea dell'Armata Rossa da est e degli anglo-americani da ovest.
Fu uno sterminio annunciato, previsto e seguito in tutte le sue fasi dalle diplomazie e spesso anche, giorno dopo giorno, dalla stampa internazionale. Fu anche l'unico olocausto a rimanere interrotto a causa della precipitosa ritirata dell'esercito nazista; questo fece sì che Budapest rimanesse l'unica città dell'Europa centrale a non vedere i suoi ebrei completamente sterminati. Se decine di migliaia sopravvissero, lo si dovette al salvataggio compiuto da un piccolo gruppo di diplomatici di paesi neutrali, rimasto nella capitale nelle settimane finali dell'assedio.
Di tutta questa storia, il mondo ha sempre saputo pochissimo, tranne un nome, quello di Raul Wallenberg, il diplomatico svedese inviato del re di Svezia, con il compito di portare in salvo, con ampi mezzi finanziari, il più grande numero possibile di ebrei ungheresi. Ma più ancora che per la sua opera, il nome di Wallenberg divenne noto soprattutto perché egli sparì nei giorni dell'entrata a Budapest dell'esercito sovietico e sulla sua sorte continua ancora oggi, dopo mezzo secolo, un'incertezza che Mosca non ha completamente eliminato. Da due anni però si conosce un altro Wallenberg nello sconosciuto commerciante italiano Giorgio Perlasca.
I due non avrebbero potuto essere più diversi e più uguali: ricco e protetto il primo, con uno status speciale che gli permetteva di trattare con le SS e di offrire denari al posto di vite umane. Uomo solo e in fuga il secondo, che pagava di tasca propria il cibo alla borsa nera per mantenere in vita i suoi protetti. Si incontrarono diverse volte, in quei mesi.
“Alla stazione merci, per esempio,” ricorda Perlasca, “dove andavamo per cercare di strappare qualcuno dai treni. Era bravo, Wallenberg, ci dava l'anima. Lo incontrai anche nella legazione di Spagna negli ultimi giorni di assedio. Il 18 gennaio, quando erano già entrati i russi, ebbi la notizia certa che Wallenberg era in una casa della via Kiraly. Vi andai, ma mi dissero che era uscito. Credo che sia morto quel giorno, per una bomba o una pallottola vagante.”

In questo contesto si svolge l'incredibile storia di Giorgio Perlasca, fascista, reduce dalla guerra di Spagna. Nella Budapest del 1944, il console di Spagna fugge. Nella città regna il caos, non ci sono più collegamenti telefonici con la Spagna. Perlasca rischia il tutto per tutto e, approfittando del disordine e della sua conoscenza della lingua spagnola, veste i panni da nuovo Console di Spagna, comincia ad usare la macchina di rappresentanza e gli uffici dell'ambasciata.
Nelle proprietà extra-territoriali spagnole riesce a stipare fino a 5000 ebrei, molti altri ne aiuta insieme ai diplomatici delle altre nazioni.
Continua a difendere gli ebrei raccontando continue menzogne, protetto dalla sua reputazione di console. La bugia finale, la più clamorosa e decisiva la deve sostenere dinanzi ad Erno Vajna, nuovo ministro degli interni dell'Ungheria nazista. E' Perlasca stesso a raccontarla nel suo diario:

6 gennaio, sabato

... è incredibile come un uomo che appare distinto e gioviale possa essere in realtà un'anima così cattiva. Abbiamo parlato per due ore, tutto è così faticoso perché Vayna parla un tedesco peggiore del mio. Gli ho detto che era giunto il momento di arrendersi, che la resistenza non ha più senso e causa solo morti e distruzione della città. Gli ho detto che una immediata capitolazione obbligherebbe il vincitore a una maggiore comprensione e si potrebbe mettere fine all'azione delle bande di saccheggiatori. Ho cercato, a lungo, di fargli capire che la guerra è ormai perduta, che quello che sta avvenendo è insensato e vergognoso. Gli ho detto che il mondo non lo dimenticherà facilmente. Mi sono appellato al suo patriottismo e gli ho ribadito che insieme agli altri diplomatici sarei stato pronto a fare di tutto per facilitare il processo di resa.
Vayna mi ha risposto che non si parla di resa. La città secondo lui deve essere difesa fino all'ultimo uomo. Mi dice che una colonna tedesca proveniente da Esztergom sta per arrivare a Buda.
Allora ho cambiato argomento. Secondo Vayna gli ebrei sono pericolosi fuori dal ghetto perché potrebbero sabotare la resistenza. Gli ho spiegato che questo è impossibile perché sono tutti disarmati. Nel ghetto non ci sono più posti, mancano acqua, gas, cibo e medicine, ci sono migliaia di morti insepolti. Se si mette a tirare vento caldo ci sarà pericolo di epidemie. Gli ho anche detto che il comando tedesco ha dichiarato di non volersi intromettere e che pertanto la responsabilità di quello che sarebbe successo sarà soltanto sua.
Gli ho detto che l'incendio del ghetto con settantamila persone dentro sarebbe una malvagità che il mondo non potrà perdonare. “Lei conosce la malvagità degli ebrei” è stata la sua risposta. Gli ho detto che non volevo continuare su questo argomento e che la malvagità, secondo me, viene da tutt'altra parte.
Dopo due ore di colloquio Vayna aveva solo concesso che gli ebrei protetti dalla nostra ambasciata venissero sistemati fuori dal ghetto, ma nelle immediate vicinanze di questo. Gli ho detto che tutto ciò era insufficiente. Mi sono fatto coraggio e gli ho detto quanto segue:
“Signor Vayna, nella mia ultima lettera le ho scritto chiaramente che il governo spagnolo dovrà ricorrere alla ritorsione se i nostri protetti dovessero essere vittime del suo crudele trattamento. Se il governo spagnolo, entro il 10 gennaio, non riceverà una mia missiva rassicurante, avrà inizio la ritorsione. Sappia che in Spagna vivono tremila cittadini ungheresi e che il governo ha deciso di internarli e confiscare i loro beni qualora i suoi protetti qui a Budapest venissero molestati. La stessa cosa è pronta anche per gli ungheresi che vogliono recarsi in Paraguay e per i quali qui a Budapest sono stati rilasciati centocinquanta passaporti provvisori”. (Tutto questo era un bluff colossale. Credo che non ci fossero più di trecento ungheresi in Spagna).
Vayna mi rispose che non parlavo con un tono degno di un diplomatico. Gli ho detto che era la situazione che lo richiedeva. Allora lui mi ha chiesto che garanzia poteva avere che i cittadini ungheresi in Spagna non sarebbero stati disturbati. Gli ho risposto: “Signor Vayna, il popolo latino non ha mai perseguitato gli stranieri senza motivo. Se lei è d'accordo con le mie richieste, che sono legittime e umanitarie, non vedo perché mai i governi di Spagna e Paraguay dovrebbero infastidire i suoi compatrioti”.
La belva feroce si è calmata. Ho avuto l'impressione che cominciasse a capire quali sarebbero potute essere le conseguenze dei suoi atti.

Al suo ritorno in Italia, Perlasca viene presto dimenticato. Quando comincia a raccontare nessuno gli crede. Perciò smette di parlare dei fatti di allora.

E' strano che tutto questo mi succeda proprio adesso... E' strano perché io, quando tornai, la storia provai a raccontarla, ma sembrava che nessuno mi credesse. Probabilmente non interessava, o forse sembrava troppo enorme. Pensi che nemmeno mia moglie mi credeva.

Diviene famoso 40 anni dopo, perché alcuni ebrei ormai trapiantati in Israele, cominciano a cercarlo, per poterlo incontrare di nuovo. Viene invitato con tutti gli onori per l'intitolazione di uno degli alberi nel Viale dei giusti al suo nome, nel Memoriale di Yad Washem a Gerusalemme.
A Deaglio che gli domanda: “Perché lo ha fatto?”, risponde, con l'umiltà che caratterizza la sua persona:

“Lei, che cosa avrebbe fatto al mio posto?”
Una di quelle domande pesanti in cui viene richiesta la complicità dell'interlocutore. Un quesito breve che supplica comprensione, fa balenare la fragilità e la debolezza umana, non solo di chi parla, ma soprattutto di chi ascolta. “Avevo paura, sono scappato...Lei che cosa avrebbe fatto al mio posto?” “Nessuno mi vedeva, l'ho fatto...Lei che cosa avrebbe fatto al mio posto?”
Ma il vecchio signore che me la poneva, non cercava comprensioni o scusanti. Al contrario, stava cercando di dirmi che tutti, nella maniera più naturale, avrebbero dovuto comportarsi come si era comportato lui...
Dunque signor Perlasca: perché lo fece?
“Perché non potevo sopportare la vista di persone marchiate come degli animali. Perché non potevo sopportare di veder uccidere dei bambini. Credo che sia stato questo, non credo di esser stato un eroe. Alla fin dei conti io ho avuto un'occasione e l'ho usata. Da noi c'è un proverbio che dice: l'occasione fa l'uomo ladro. Ebbene di me ha fatto un'altra cosa. Improvvisamente mi sono ritrovato ad essere un diplomatico, con tante persone che dipendevano da me. Che cosa avrei dovuto, fare secondo lei? Piuttosto penso che essere un falso diplomatico mi abbia aiutato, perché ho potuto fare delle cose che un diplomatico vero non farebbe. Eh... I diplomatici sono persone strane. Non è che siano proprio liberi di fare quello che vogliono. C'è l'etichetta, ci sono le formalità, le gerarchie, qualcuno a cui rispondere, la propria carriera. tante cose, tanti vincoli che io non avevo.”



Luciano Gherardi
Le querce di Monte Sole. Vita e morte delle comunità martiri fra Setta e Reno. 1898-1944
Il Mulino, Bologna, 1986

Tanti luoghi italiani sono stati testimoni dei crimini nazisti. Dal campo di Carpi-Fossoli, vicino Modena, alla risiera di S. Sabba a Trieste, al campo di Trento-Gries.
Questo testo racconta lo sterminio delle comunità montane di Monte Sole, vicino Bologna, avvenuto senza neanche il motivo della rappresaglia.
Fra le tante storie, il volume racconta anche quella del parroco di Casaglia.

Elide Ruggeri racconta:

I partigiani convinsero gli uomini, giovani e vecchi, a riparare in alto nella macchia. Poi consigliarono noi donne di riunirci in chiesa, sotto la protezione del parroco. Eravamo circa un centinaio. Si unì a noi incoraggiandoci e sollevandoci un poco don Ubaldo. Era un prete coraggioso e buono.
Quando alle 9 circa arrivarono le SS sfondando la porta, capimmo che poteva accadere il peggio. Lo capimmo anche dalla disperazione del parroco. Ci fecero uscire e formarono una lunga colonna; fummo avviati con le armi puntate ai fianchi verso il cimitero a duecento metri di distanza. Era recintato e la porta di ferro chiusa. La sfondarono coi calci dei fucili e ci fecero entrare tutti nel recinto e noi ci addossammo in mucchio contro la cappella. Poi piazzarono una mitragliatrice all'ingresso e cominciarono a sparare, mirando in basso per colpire i bambini, mentre dall'esterno cominciarono a lanciare su di noi decine di bombe a mano. Durò per tre quarti d'ora circa, e smisero solo quando finì l'ultimo lamento.
Ferita restai tra i cadaveri... Con me uscirono vive altre quattro donne. Anche il prete morì. Fu fucilato sull'altare della sua chiesa e dopo averlo ucciso i nazisti spararono sulle immagini sacre e incendiarono la chiesa e le case intorno con lanciafiamme. Tre giorni dopo i tedeschi ordinarono ai civili di seppellire i cadaveri. Fecero una grande buca e li schiacciarono perché si erano irrigiditi.

Lucia Sabbioni aggiunge qualcosa che ci sembra degno di rilievo:

La mattina del 29 settembre, abbandonammo la casa e ci rifugiammo nella chiesa di Casaglia che era già piena di sfollati e di contadini. Il parroco don Ubaldo Marchioni stava officiando la Messa, quando poco dopo entrarono i tedeschi dicendoci di uscire sul sagrato...

Sembra doversi escludere che don Ubaldo in circostanze simili potesse celebrare la Messa; tuttavia l'indicazione della Sabbioni, allora quattordicenne, lascia presumere legittimamente che non si limitasse, come dice la Benni, a “consumare” le ostie, ma in cotta e stola celebrasse per l'ultima volta il rito della Comunione eucaristica, che nelle circostanze assunse il valore di un viatico collettivo prima della strage.... E morì rivestito delle insegne sacerdotali.



Paride Piasenti
Il lungo inverno dei Lager
ANEI, Roma, 1983

Pochissimi conoscono la tragedia dei 600.000 militari italiani che, dopo l'8 settembre 1943, vengono deportati ed internati dai tedeschi. Così ne parla Vittorio Emanuele Giuntella, che fu uno di loro, ne Il nazismo e i Lager:

Gli Italiani costituiscono un grosso problema, che gli stessi tedeschi esitano ad affrontare con chiarezza. Non vengono riconosciuti come prigionieri di guerra, secondo le convenzioni internazionali sottoscritte dall'Italia, anche se in un primo momento viene ad essi concesso di inviare al Comitato internazionale della Croce Rossa a Ginevra la cartolina di cattura. Viene adottata, invece, la denominazione di internati militari italiani, e non si permette che il CICR li assista. Nella graduatoria dei militari in mano ai tedeschi finirono, perciò, al penultimo posto, perché all'ultimo vi erano i prigionieri russi. Dei russi e degli italiani i tedeschi possono fare quello che vogliono, senza nessun controllo e senza nessun limite di potere. Gli italiani sono alloggiati nei campi, dove prima di loro sono passati i russi, e che sono stati dichiarati inabitabili dal CICR.

Ad essi viene fatta la proposta di essere liberati per militare nelle forze della RSI o in quelle del Terzo Reich:

... dal canto suo Mussolini preme perché dalla massa degli internati si possano trarre almeno 20.000 volontari per le forze armate della Repubblica sociale. Ne va di mezzo, egli avverte, il prestigio del nuovo stato fascista, per il quale un mancato rientro almeno di una parte degli internati costituirebbe la prova di un massiccio rifiuto di consenso, tale da influenzare negativamente, oltre che le centinaia di migliaia di parenti nel paese, genitori, mogli, figli, tutta l'opinione pubblica. Se si scorre il carteggio Hitler-Mussolini, utilizzato dal Deakin nel suo volume sulla Repubblica di Salò, si avverte quanto il problema degli italiani internati in Germania e il loro rifiuto di continuare la guerra del fascismo sia stato capito da Mussolini nel suo giusto significato, quello di un plebiscito negativo nei confronti del fascismo.
Le autorità naziste, del resto, hanno già avuto dagli italiani risposte negative al momento della cattura. A tutti è stata offerta la scelta tra la deportazione in Germania e il passaggio immediato come volontari nelle file della Wehrmacht, ma all'unanimità gli italiani hanno rifiutato e le eccezioni sono infinitesime. La più consistente sembra essere stata quella delle formazioni di Camicie nere inquadrate dopo la caduta del fascismo nell'esercito, pur restando unite come corpo. Non vi è testimonianza del loro invio nei campi di internamento, nei quali solo qualche isolato, appartenente alle milizie speciali (forestale, ferroviaria, stradale) risulta presente.

Il rifiuto di riprendere a combattere è perciò generale. Si rivela come un atto di resistenza importante al nazi-fascismo degli ultimi due anni di guerra, rifiuto pagato spesso con la propria vita.

Un ulteriore tentativo venne compiuto nei campi di internamento, chiedendo agli italiani un'adesione alle formazioni volontarie SS, ma anche questo invito non ottenne risultati tangibili.
Come si svolgesse questa propaganda (alla quale, in verità, i comandanti tedeschi dei campi prestarono una collaborazione formale) ci è narrato da una relazione inviata a Mussolini da un ufficiale, che, dopo aver rifiutato l'adesione in un primo momento, finì per cedere. Il documento, conservato nell'archivio di Mussolini, con l'annotazione che il duce ne aveva preso conoscenza, è abbastanza noto, ma vale la pena di riprodurlo perché narra con obiettività gli argomenti della propaganda fascista e l'atmosfera nella quale erano presentati:

Dopo averci letta una lettera dell'ambasciatore in Germania, Anfuso, a noi diretta, in cui si parlava della rinascita e della rivendicazione dell'onore all'Italia quali obiettivi del nostro governo, il generale ci disse alcune parole: aderendo si aveva il trattamento del soldato e ufficiale tedesco che mangia bene ed è ben pagato. Anche le nostre famiglie sarebbero state trattate meglio. Coloro che non avessero voluto aderire sarebbero stati oramai abbandonati al loro destino e avrebbero pensato la fame e l'inverno polacco a servirli. Questo discorso, fatto a gente che, affamata, scarsamente coperta, stava da più di un'ora all'aperto a parecchi gradi sotto zero, ebbe un effetto deleterio. Ci prese una tristezza e uno scoraggiamento infinito; ci si chiedeva di essere dei mercenari, perché non della Patria ci si parlava, ma del soldo e del vitto. Non della fratellanza che sola in tanta sciagura avrebbe dovuto risollevare dal fango l'Italia, ma un italiano minacciava altri italiani di essere abbandonati al loro destino. La fame e l'inverno polacco avrebbero pensato ad eliminare dei fratelli. Anche chi come il sottoscritto era pronto ad aderire e non desiderava altro che ritornare uomo e soldato, sentì un moto di ribellione in se stesso. Aderirono su circa 2.000 ufficiali 160 circa, di cui la maggior parte malati gravi, invalidi e vecchi. I giovani dicevano apertamente agli amici che aveva vinto la fame.

Queste le conclusioni di Giuntella:

Non si hanno dati estremamente sicuri, ma il ministero della difesa ha più volte affermato che le adesioni superarono di poco l'uno per cento. I tedeschi non riuscivano a capire perché gli italiani rispondessero in massa negativamente. Nel diario di un soldato, salvato a stento e con grave rischio, è descritto uno di questi episodi di rifiuto:

Il tedesco, con voce stridula, grida, e l'interprete traduce: - Chi non è fascista alzi la mano. Eravamo in duemila, consapevoli che stavamo per decretarci un destino di sofferenza, forse di morte, ma tutti, non uno escluso, abbiamo alzato la mano; era una selva di braccia e in quell'istante ci siamo sentiti noi. L'ufficiale domanda ancora: Da dove vengono? - Da tutti i fronti, è stata la risposta.

Quest'ultima testimonianza è di D.Lusetti, Lager IX B. Diario di prigionia.
Il volume curato da Paride Piasenti, per conto dell'Associazione Nazionale Ex-Internati, approfondisce con moltissime testimonianze la storia dei militari italiani nei Lager.



Giovannino Guareschi
Diario clandestino 1943-1945
Rizzoli, Milano, 1990
e
La favola di Natale
Rizzoli, Milano, 1971

Giovannino Guareschi, il noto autore di Peppone e don Camillo, fu internato dai tedeschi in campo di concentramento subito dopo l'8 settembre, come avvenne per altri 600.000 militari italiani. Queste le tappe della sua prigionia, secondo la biografia ricostruita dal sito a lui dedicato www.giovanninoguareschi.com.

9 settembre 1943: viene fatto prigioniero dai tedeschi nella caserma di Alessandria. Il 13 parte dalla stazione di Alessandria e arriva a quella di Bremerwörde (D) il 18. Di lì, lo stesso giorno, a piedi, va nell'OFLAG XB di Sandbostel. Riparte a piedi il 23 per la stazione di Bremerwörde (D) da dove riparte subito e arriva il 27 alla stazione di Czestokowa (Pol.) e da lì alla NORDKASERNE STALAG 367. Il 12 ottobre viene condotto al Santuario di Czestokowa. Dalla NORDKASERNE STALAG 367 l'8 novembre viene condotto alla stazione di Czestokowa da dove parte e arriva il 10 a Beniaminowo (OFLAG 73 - STALAG 333). Riparte per la Germania il 30 marzo 1944 e arriva alla stazione di Bremerwörde (D) il 1° aprile. Da lì, a piedi, viene condotto all'OFLAG X B di Sandbostel (D) il 2. Dall'OFLAG X B di Sandbostel (D) a piedi alla stazione di Bremerwörde (D) il 29 gennaio 1945 e riparte il 30 per l'OFLAG 83 di Wietzendorf (D) dove arriva il 31 Viene liberato il 16 aprile e parte dall'OFLAG 83 di Wietzendorf per la cittadina di Bergen il 22. Dalla cittadina di Bergen (D) rientra nell'OFLAG 83 di Wietzendorf (D) il 1° maggio. Dall'OFLAG 83 di Wietzendorf (D) viene rimpatriato il 29 agosto e arriva a Parma il 4 settembre 1945.

Il registro che caratterizza i suoi scritti degli anni di prigionia è solo apparentemente quello dell'ironia. Così scrive nella prefazione al Diario clandestino:

Anche in prigionia conservai la mia testardaggine di emiliano della Bassa: e così strinsi i denti e dissi: "Non muoio neanche se mi ammazzano!".
E non morii.
Probabilmente non morii, perché non mi ammazzarono: il fatto è che non morii.

La tonalità di fondo è, piuttosto, quella di un grande senso di umanità che vuole sollevarsi al di sopra di ciò che appare irreparabile, per testimoniare una speranza più grande dell'uomo. Nel brano intitolato Signora Germania, tratto dalla conversazione "Baracca 18", scritta nel Lager di Beniaminovo, nel 1944, così scrive:

Signora Germania, tu mi hai messo tra i reticolati, e fai la guardia perché io non esca. E' inutile signora Germania: io non esco, ma entra chi vuole. Entrano i miei affetti, entrano i miei ricordi. E questo è niente ancora, signora Germania: perché entra anche il buon Dio e mi insegna tutte le cose proibite dai tuoi regolamenti.
Signora Germania, tu frughi nel mio sacco e rovisti fra i trucioli del mio pagliericcio. E' inutile signora Germania: tu non puoi trovare niente, e invece lì sono nascosti documenti d'importanza essenziale. La pianta della mia casa, mille immagini del mio passato, il progetto del mio avvenire. E questo è ancora niente, signora Germania. Perché c'è anche una grande carta topografica al 25.000 nella quale è segnato, con estrema precisione il punto in cui potrò ritrovare la fede nella giustizia divina.
Signora Germania, tu ti inquieti con me, ma è inutile. Perché il giorno in cui, presa dall'ira farai baccano con qualcuna delle tue mille macchine e mi distenderai sulla terra, vedrai che dal mio corpo immobile si alzerà un altro me stesso, più bello del primo. E non potrai mettergli un piastrino al collo perché volerà via, oltre il reticolato, e chi s'è visto s'è visto.
L'uomo è fatto così, signora Germania: di fuori è una faccenda molto facile da comandare, ma dentro ce n'è un altro e lo comanda soltanto il Padre Eterno. E questa è la fregatura per te signora Germania.

Guareschi, che portava il numero 6865, bruciò,una volta liberato, il Diario che aveva scritto meticolosamente, giorno per giorno. Volle, invece, conservare e pubblicare gli scritti che apparvero poi sotto il nome di Diario clandestino. Così presenta lui stesso il senso di questo testo:

E' l'unico materiale autorizzato,in quanto io non solo l'ho pensato e l'ho scritto dentro il Lager: ma l'ho pure letto dentro il Lager. L'ho letto pubblicamente una, due, venti volte, e tutti lo hanno approvato.... E' la voce del numero 6865 che parla. E' la stessa voce di allora. Sono gli stessi baffi di allora.
Non ho aggiunto niente: ho bruciato il famoso diario perché non avevo il diritto di dire sul nostro Lager cose che non fossero state approvate dai miei compagni di Lager... Da quelli vivi e da quelli morti. Perché bisogna anche tener conto dei Morti, nella vera democrazia.

Proprio a coloro che non tornarono è dedicato il Diario clandestino. E' tutta una umanità che ha lottato insieme per la vita nei campi di concentramento ed essa dovrà, per Guareschi, incontrarsi di nuovo in Dio.

Ai miei compagni che non tornarono
Egli pensa che, questa notte, nel Lager nessuno guarderà il cielo del nuovo anno: pensa ai compagni che non sono tornati, ma che un giorno ritroverà.
Sulle strade ferrate corre silenzioso un treno fantasma. E' un treno che ha girato per tutte le strade ferrate di Germania, di Polonia, di Russia, di Jugoslavia e ha fatto sosta in tutti i campi di concentramento, ed è un convoglio che non finisce mai perché è il treno che porta le anime dei morti in prigionia. Ora corre per le strade ferrate d'Italia si ferma soltanto quando c'è da caricare l'anima di un ex-deportato. E quando fra cinquanta o sessant'anni, avrà caricato le anime di tutti i reduci, prenderà l'aereo binario che porta dove Dio vuole, e nessuno in terra lo vedrà più.
Egli sa che un giorno il treno fantasma si fermerà alla stazione del suo paese, e anche lui salirà e ritroverà così i compagni perduti.
E, nell'attesa, si consola di ogni anno che passa.



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