Rassegna libraria Voci dalla Shoah

Capitolo 7 - Gli Altri Campi di Concentramento

Jorge Semprun
Il grande viaggio
Torino, Einaudi, 1990

Jorge Semprun, nato a Madrid, viene arrestato nel 1943 dalla Gestapo, mentre milita nelle organizzazioni partigiane comuniste. Viene deportato a Buchenwald, dove rimarrà per 22 mesi. Rivestirà, dal 1988 al 1991 la carica di ministro della cultura nel governo spagnolo. Di sè afferma che la deportazione è il solo fattore caratterizzante la sua persona.
Il grande viaggio è la sua prima opera letteraria (gli varrà il premio Formentor nel 1963).
Sembra la descrizione autobiografica delle sei lunghe notti di viaggio in vagone merci dalla prigione di Auxerre al campo di Buchenwald - e lo è in realtà - ma la seconda parte del volume, brevissima, sposta l'attenzione come se a parlare fosse Manuel, giovane partigiano spagnolo unitosi ai francesi nella lotta al nazismo.
Tutto è descritto in flash-back, in un continuo passaggio dal passato al presente.
Così descrive l'avvicinarsi di un soldato di guardia alla prigione, poco prima della partenza del treno:

-Warum sind Sie verhaftet (vorrei farle una domanda)?- domanda il soldato. E' una domanda pertinente, bisogna dire. E' la domanda che, in questo preciso momento, va più in là di qualsiasi altra possibile domanda. Perché sono arrestato? Rispondere a questa domanda significa non soltanto dire chi sono io, ma anche chi sono tutti quelli che in questo momento si fanno arrestare. E' una domanda che ci porterà dal particolare al generale, con molta facilità. Perché sono arrestato, vale a dire, perché siamo arrestati, perché arrestano in generale? Qual è la somiglianza tra tutte queste persone dissimili che si fanno arrestare? Qual è l'essenza storica comune a tutti questi esseri dissimili, il più delle volte non essenziali, che si fanno arrestare? Ma è una domanda che va ancora più in là. Chiedendomi il perché del mio arresto, finirà per porsi l'altro aspetto del problema. Perché io sono arrestato, perché mi hanno arrestato, perché ci sono quelli che sono arrestati e quelli che arrestano. Chiedendomi: perché è arrestato? chiede pure, e contemporaneamente: perché sono qui a custodirla? Perché ho l'ordine di sparare addosso, se tenta di fuggire? Chi sono io, insomma? Ecco quel che chiede, questo soldato tedesco. E' una domanda che va lontano, in altri termini.
Ma a tutte queste cose, naturalmente, non gli rispondo. Sarebbe una fesseria come la morte.


Il nazismo ha posto tutti nell'obbligo di scegliere una parte. Non è possibile restare neutrali

Ci tenevo solo a dire che alla domanda del soldato tedesco di Auxerre: warum sind Sie verhaftet? è possibile una sola risposta. Sono in prigione perché sono un uomo libero, perché mi sono trovato nella necessità di esercitare la mia libertà, perché non ho rifiutato questa necessità. Così egualmente, alla domanda da me fatta alla sentinella tedesca, in quel giorno di ottobre: warum sind Sie hier ( perché lei è qui)? e che tutto sommato è una domanda assai più grave, non c'è che una sola risposta possibile. E' qui perché non è altrove, perché non ha sentito la necessità di essere altrove. Perché non è libero.



Robert Antelme
La specie umana
Torino, Einaudi, 1997

Robert Antelme ha vissuto gli ultimi mesi, i più terribili, del sistema concentrazionario nazista. Francese, nativo della Corsica è stato internato a Buchenwald nel 1944 e, da lì è stato trasportato il 1° ottobre 1944 al Kommando di Gandersheim, uno dei 136 campi satelliti che forniva la forza lavoro per le fabbriche della Heinkel.
Nella Prefazione, scritta nel 1947, così riflette sulla specie umana:

Dire che allora ci si sentiva contestati come uomini, come individui della specie, può sembrare un sentimento retrospettivo, un sentimento di cui solo poi si ebbe chiara coscienza. Eppure, è questo il sentimento che fu più immediatamente e continuamente vissuto, ed è quello, esattamente quello, che gli altri volevano. La negazione della qualità d'uomo provoca una rivendicazione quasi biologica di appartenenza alla specie umana. Serve, in seguito, a far meditare sui limiti di questa specie, sulla distanza dalla “natura” e le relazioni con essa; su una certa solitudine della specie dunque e, infine, soprattutto a farsi una precisa immagine della sua unità indivisibile.



Adam Rutkowski
Le camp d'internament et d'échange pour Juifs de Vittel
in Le mond Juif, Paris, 1981

Il campo di Vittel, in Francia, presso Drancy era l'unico a non essere costituito da baraccamenti, ma occupava alcuni alberghi della omonima stazione termale francese.
Vi furono deportati i prigionieri civili con passaporto di paesi nemici della Germania o neutrali, in vista di uno scambio con cittadini tedeschi civili, detenuti in quei paesi.
Nel ghetto di Varsavia alcuni ebrei riuscirono a procurarsi passaporti illegali di alcuni paesi dell'America latina. Lo studio dimostra come i tedeschi, nonostante fossero al corrente del fatto, finsero di credere all'autenticità di questi documenti per aumentare il numero di persone scambiabili con questi paesi.
Furono internati nella prigione Pawiak del ghetto, anche per rendere più difficile loro la possibilità di rendersi conto delle deportazioni verso Treblinka.
Un primo gruppo di 200 ebrei polacchi arrivò a Vittel il 20 gennaio 1943. Un secondo gruppo di 60, il 22 maggio 1943 (nel convoglio arrivò a Vittel anche Itzhak Katzenelson). Altri furono invece portati a Bergen-Belsen, ma circa 400 in possesso di questi passaporti furono fucilati prima del trasporto.
Katzenelson ricevette la stanza n.107 dell'Hotel Providence, insieme a suo figlio Zwi. La moglie Hannah e gli altri due figli Benzikel e Benjamin non poterono partire.
Tenne un diario di Vittel e incominciò a scrivere sulla liquidazione del Ghetto. Finì l'opera Il canto del popolo ebraico assassinato il 18 gennaio 1944, coincidente con l'inizio della sollevazione del ghetto di Varsavia. Sotterrò i suoi scritti, ma copie di essi uscirono da Vittel, tramite Miriam Novitch che li consegnò alla sig.ra Francoise Rabichon che veniva a fare la lavandaia a Vittel.
I tedeschi interpellarono i paesi sud-americani sul riconoscimento dei passaporti, tramite anche la mediazione della Santa Sede.
Haiti e il Perù risposero che non si potevano riconoscere questi passaporti, perché illegali. Cuba rifiutò allo stesso modo. L'Uruguay si dichiarò disposto a considerare caso per caso, isolatamente. Il Guatemala e il Salvador risposero negativamente. Solo il Paraguay accettò di riconoscere i passaporti.
Il Nicaragua dichiarò che poteva accettare non più di otto famiglie, ma con l'assicurazione che, se non erano agricoltori o industriali, dovevano tornare in patria alla fine della guerra. Anche il Costa Rica si accodò al Nicaragua dichiarando che accettava lo stesso numero di famiglie (8!). Il Cile disse che i suoi rappresentanti a Berna avevano già ricevuto istruzioni per casi come questi.
Alcune organizzazioni ebraiche si mossero per fare pressioni presso gli Stati Uniti e la Gran Bretagna, perché prendessero posizione sulla questione, a favore degli ebrei di Vittel. Il 31 maggio 1944 i passaporti furono ufficialmente riconosciuti, ma la sorte dei deportati di Vittel era già stata decisa. Erano stati spostati a Drancy il 18 aprile 1944 e da lì ad Auschwitz il 29 aprile 1944. Alla selezione 900 furono subito gassati (fra di essi i due Katzenelson), 52 donne e 48 uomini furono immessi nel campo il primo maggio 1944.
Il 15 gennaio 1945 la delegazione degli Stati Uniti a Berna si indirizzò al comitato internazionale della Croce Rossa per trasmettere la lista dei nomi di Vittel ai delegati tedeschi

con la domanda di tentare di sapere dove si trovano queste persone e che facciano dei rapporti sulla loro identità e sul loro stato di salute.



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