Rassegna libraria Voci dalla Shoah

Postfazione

Il protagonista de L'arpa birmana, un film girato nel 1956 dal regista giapponese Ichikawa, è un soldato del Sol Levante. Mentre la sua squadriglia è in ritirata, viene raggiunta dalla notizia della sconfitta del Giappone e della fine delle ostilità. Pur nel dolore della sconfitta, tutti sono immediatamente conquistati dalla bramosia del ritorno a casa, dal pensiero della famiglia, dalla paura di ciò che troveranno, dalla fretta di dimenticare le atrocità subite e compiute. Lui scompare. Lentamente i compagni comprendono la verità. La sua decisione è quella di diventare monaco buddista, con il voto di dedicare la vita a seppellire tutti i morti lasciati sul campo, ancora insepolti.

Ne La vita e nient'altro di Bertrand Tavernier un ufficiale francese, al termine della prima guerra mondiale, percorre i campi di battaglia, ossessionato nella ricerca dell'esattezza del numero dei morti. Non gli bastano cifre approssimative, accuratamente diminuite dagli incaricati governativi. Sa che cercheranno di mascherare l'entità della catastrofe. Eppure non è animato da un movente politico. Quel numero deve essere preciso perché altrimenti si negherebbe un omaggio a chi ha perso la vita e alle persone che non potranno incontrare più i caduti della guerra. E' in nome della dignità della vita umana che neppure un nome deve essere perduto.

Anche il presente lavoro, consapevole della differenza fra una guerra, pur deprecabile, e lo sterminio di civili ha la medesima intenzione. Non vuole di certo essere una ulteriore fotografia delle atrocità naziste, non vuole ancora dare voce a chi ha militato nelle SS. E' interessato solo a dare voce a chi ha cercato di farsi ascoltare, prima di morire.

Dei carnefici vuole solo svelare la falsità delle dichiarazioni rilasciate a giochi fatti. E' un luogo comune, insegnato purtroppo anche ai bambini, l'indefettibilità delle SS, la loro cieca obbedienza alla patria e ai suoi capi, all'ordine ricevuto e alla parola data.

Ben altra realtà emerge da un'analisi storica. Rudolf Hoess, il comandante di Auschwitz, il cieco esecutore di ordini, l'SS richiamata per lo sterminio degli ebrei ungheresi, perché unico capace di un compito così impegnativo, era uso sottrarre beni destinati al Reich, già sottratti agli ebrei gasati, per arricchimento personale o per le comodità della famiglia che abitava con lui in villa ad Auschwitz. Il suo allontanamento dal campo fu dovuto a questo e, più ancora, alla sua relazione adultera con una delle prigioniere del Lager, Eleonore Hodys, da lui stesso destinata alla camera a gas, quando il suo innamoramento fu scoperto. E' la meschina corruzione, presente al vertice delle SS, come in tutti i livelli dell'ingranaggio.

Compagna della corruzione è l'incapacità di azione di chi ha scelto la via della vigliaccheria. Di Franz Stangl, il comandante di Treblinka, al processo in cui fu condannato all'ergastolo, non fu possibile trovare alcun capo d'accusa relativo a violenze personali e gratuite da lui compiute. Era sempre stato inappuntabile con le circa 750.000 persone (secondo una stima non delle più larghe) che aveva condotto a morire con l'ossido di carbonio. Come si può sentirsi colpevoli della morte di un numero così grande di persone e rimanere ancora in vita? - aveva risposto alla giornalista Gitta Sereny, che aveva ottenuto il permesso di intervistarlo per scrivere la sua storia.

Le settanta ore di colloquio fra i due si concluderanno con la morte per infarto di Stangl, dopo l'ammissione che una eventuale richiesta di abbandono della presenza a Treblinka, avrebbe significato, forse, solo l'invio in prima linea di una SS destinata fin lì alle retrovie per il comando di uno dei quattro campi della morte.

Si può rimanere vivi, dopo aver visto l'abisso della propria responsabilità?

Questo solo ci sembra importante rilevare a proposito dei carnefici, delle SS e degli altri. Sapevano ben scegliere a quali ordini obbedire e a quali no, quando approfittare della loro situazione che li poneva in uno stato di arbitrio assoluto e quando non derogare dal desiderio dei loro superiori; conoscevano bene il percorso che – non in un istante, ma attraverso vigliaccherie via via crescenti, da colpe veniali a colpe sempre più gravi – conduce un uomo ad uccidere migliaia di altri uomini.

Un altro elemento ci sembra di incommensurabile importanza. Primo Levi, ne La tregua, ed Elie Wiesel in Credere o non credere, parlano del senso di colpa che accompagna l'esistenza di chi è sopravvissuto alla deportazione.

C'è una selezione. Perché tu viva, un altro deve morire al tuo posto. Il numero è stabilito, non uno di meno. Se tu stai bene fisicamente, in gas va il tuo amico che ha la febbre o il raffreddore. Come sentirsi liberi dal pensare che il pane che tu mangi, che tu organizzi è il pane che potrebbe far vivere ancora un altro al tuo posto? Il deportato, paradossalmente, è anche l'unico a sentirsi colpevole di chi è morto. Chi ha ucciso dice di non sentire il senso della colpa: ha solo obbedito – si difende. Chi ha intravisto dalla sua casa almeno la partenza degli ebrei e non ha fatto domande, non sente il peso della colpa, perché - pensa con convinzione - non era a conoscenza dell'entità della tragedia. Chi ha subito porta allora, da solo, anche tutto il peso della responsabilità.

E' il racconto di chi, abituato ad aiutare chi è più anziano e debole, scopre pian piano, ad Auschwitz, che bisogna mandare, durante una selezione in gas i vecchi, perché tanto morirebbero comunque in qualche giorno. Bisogna scegliere i più giovani, i più sani, per avere qualche speranza che arrivino vivi alla fine della guerra. E il padre costretto a scegliere, nel campo di Lunberg, quale dei due figli salvare dalla selezione? Non scegliere, forse, vuol dire mandarli a morire tutti e due, ma scegliere cosa vuol dire? Chi si è dovuto assumere tale responsabilità non può dimenticare quei giorni. Come possono dimenticarli ed essere da noi incoraggiati a fare ciò, quelli che a ciò hanno costretto?

Non si può allora accettare che le SS di stanza a Roma come in latri luoghi dichiarino la loro non colpevolezza.

Il rabbino capo di Roma, rav prof. Elio Toaff, ha proposto che si condannino e, semmai, si lascino poi libere. Ha lasciato intendere che è una via per sottrarsi al dilemma in cui troppo spesso si sente costretto da chi si dichiara cristiano: se non perdoni, sei ancora figlio della vendetta, non conosci il perdono del Nuovo Testamento, se perdoni devi accettare l'amnesia che ti viene proposta, la menzogna a cui ancora il buon senso comune crede.

La deportazione nel ghetto ottiene anche il risultato di allontanare chi ha bisogno, dal consesso degli umani. Cominci a vederlo affamato, malato, quasi un barbone… E sono tanti! Sono simili ai senza fissa dimora che incontri oggi per strada. Sono irrecuperabili, non c'è niente da fare - dice la tua ragione. Di questa estraneità il nazismo si è servito per rendere più indolore, agli occhi dei più, l'assenza di chi prendeva la via che portava sempre più a Est.

Impressionante è la partecipazione dei civili al programma di sterminio. Basterebbe il ruolo della magistratura tedesca. Schminck-Gustavus ha pubblicato le carte di alcuni processi conclusisi con la condanna a morte, in periodi in cui il Reich sembrava ancora il vincitore della guerra. Come può un magistrato applicare retroattivamente una legge che prescrive la pena di morte, per un reato compiuto da un ragazzo di sedici anni, reato compiuto quando la legge non era ancora stata promulgata? Applicarla e continuare a fare il magistrato a guerra finita? E' la storia di Walerian Wrobel, una storia che le riassume tutte, un adolescente costretto ai lavori forzati, che da fuoco ad un fienile di una casa tedesca, sperando di essere così rimandato, per punizione, in Polonia.

Per tutti noi vale la domanda seria, che non ammette risposte immediate: come ci saremmo comportati e come di fatto ci comportiamo dinanzi ai drammi di popolazioni intere? Il meccanismo dell'identificazione razziale e lo spostamento in terre lontane aiuta chi vuol dire che lui non c'entra, che il problema è troppo grande e troppo lontano. In fondo è proprio così. Eppure Giorgio Perlasca, che si è finto console spagnolo per salvare gli ebrei ungheresi dalla deportazione, alla domanda: “Perché lo ha fatto?” ha risposto: “Lei cosa avrebbe fatto al mio posto?”. Con queste parole noi identifichiamo ciò che è più disumano in noi – sa, sono anch'io un uomo, non potevo comportarmi senza peccare. Per Perlasca è invece evidente che qualsiasi “uomo” avrebbe lasciato il suo interesse per cercare di aiutare in una situazione simile. E' evidente questo? E' evidente dinanzi ai drammi dei paesi del Sud del mondo?

Spesso i deportati, incontrando qualcuno, affermano di non riuscire a soffocare un quesito interno, che non sarà espresso e che non troverà risposta: “Come si sarebbe comportato costui in un Lager?”

Non serve prudenza dinanzi all'abisso del male, ma il coraggio dell'azione immediata, rischiosa. Anche questo sembra dire la Shoah. La calma, l'attendismo, la diplomazia, la profonda buona fede resteranno valori per i secoli, ma hanno consistenza dinanzi a milioni di omicidi?

E' evidente che la deportazione e lo sterminio sono stati totali e facili dove la popolazione non ha sentito simpatia per gli ebrei e non ha cercato di nasconderli. L'Italia non è certo all'ultimo posto in un elenco degli indifferenti. Eppure l'attesa, il verranno tempi migliori, sembra esser stato l'atteggiamento dominante. Non era una priorità, fra gli obiettivi della guerra, l'incolumità degli ebrei - ripetono i generali inglesi, americani, russi. La fine dello sterminio sarebbe venuta con la fine della guerra. Per chi è stata una priorità la soluzione finale oltre che per il Terzo Reich?

Ricordare i nomi di chi ha compreso che fosse una priorità personale il lasciarsi coinvolgere per aiutare in questa immensa tragedia è anche scopo di questo lavoro. Se mai venne un aiuto di un intero Stato, di un intero popolo – ad eccezione della Danimarca e in parte della Bulgaria – tanto che ancora nel 1944 nessuno investiva idee e soldi per avvisare gli ebrei ungheresi, appena passati sotto il nazismo che se non fossero fuggiti sarebbero stati sterminati ed essi ignari cominciavano a partire, ultimi fra i gruppi ebrei sterminati, verso i campi, ciò non toglie valore all'aiuto personale che tanti singoli, uomini di Chiesa e non, seppero dare.

Le voci che questo lavoro vuole ascoltare sono troppo serie per essere ignorate. Benedetta sia la memoria di Janusz Korczack che passa, nel ghetto di Varsavia, le notti insonni per scrivere trentaquattro taccuini di appunti sui suoi duecento orfani, educatore che, come il gufo, veglia, mentre tutti dormono, per preparare un domani di educazione ai suoi bambini, mentre già inizia la deportazione a Treblinka e che con le sue assistenti sale sui treni dopo aver fatto lavare i bambini, perché abbiano pace anche nell'istante della morte.

Benedetta sia la memoria di Malmed, che nel ghetto di Bialystok, prima di essere impiccato per avere ucciso un soldato tedesco, chiese perdono per non essersi ricordato che anche quell'assassino aveva moglie e figli. Devo a Giovanni Lonardo l'aver compreso che la non reazione violenta degli ebrei ha come sua causa determinante la tradizione religiosa. Come può un credente credere che sia vera una malvagità così grande e come può, quando anche la scopre reale, uccidere per sopravvivere? E' l'immagine di Dio impressa che ti rende martire.

Benedetta sia la memoria dei rivoltosi del crematorio IV di Auschwitz, completamente sterminati dopo aver reso inutilizzabile la camera a gas e il forno crematorio, e benedetta sia quella dei rivoltosi di Treblinka, trucidati perché almeno qualcuno di loro (quattordici riusciranno a scappare) possa arrivare alla fine della guerra per raccontare di quel campo.

Conservi Dio a lungo ancora Simon Wiesenthal che, con le sue carte e attraverso la burocrazia di tutto il mondo, in continuo ossequio alla legge, insegue ancora i criminali, non per vendetta, ma per giustizia. Wiesenthal conosce la fatica del perdono, che non è cosa che si possa facilmente pretendere. Se non ti è possibile, se non hai la forza di perdonare chi ti chiede il perdono – ci insegna - puoi però dirgli: “Lei deve pregare il suo Dio di perdonarla ed egli perdonerà” – non è forse vero che anche le parole che Gesù sulla croce pronuncia sono una preghiera: “Padre perdona loro”?

Il nazismo è riuscito a dividere gli uomini in tre categorie: carnefici, vittime, spettatori (titolo di uno studio di Raul Hilberg, il più grande studioso dell'Olocausto). Troppo pochi sono stati i giusti, perché meritino di essere un quarto gruppo.

Molto si è scritto intorno ad una espressione divenuta ormai proverbiale: “Fare teologia dopo Auschwitz”. Nella pochezza del nostro tentativo ci permettiamo di segnalare come non riusciamo a comprendere in queste riflessioni di grandi autorità della teologia contemporanea l'assenza di un aspetto caratteristico della teologia cattolica, l'esistenza del diavolo. La sua opera ci appare evidente, la lotta che si compie non è una guerra fra soli uomini. Questo nulla toglie alla reale libertà e responsabilità che i protagonisti storici della Shoah hanno. Di esse è però certamente un altro che si serve.

Infine riaffermiamo che con questo lavoro vogliamo che le vittime, almeno, abbiano la parola ultima, in attesa di quella Parola ultima che sola compirà l'attesa.

Andrea Lonardo



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