”Non fu il Concordato fascista a prescrivere il crocifisso a scuola ma, nel 1860, lo Stato risorgimentale, pur se in lotta con la Chiesa”: così accompagna il titolo dell'articolo il quotidiano Avvenire. Ripresentiamo on-line un interessante articolo di Giuseppe Dalla Torre sulla questione.
L'Areopago
C'erano simboli religiosi nell'aula della famosa maestrina dalla penna rossa
di deamicisiana memoria? Probabilmente sì; o almeno avrebbero dovuto esserci, stando
alla normativa allora in vigore.
Pochi sanno, infatti, che il regolamento per l'istruzione elementare del 15 settembre 1860, n.
4336, attuativo di quella famosa legge Casati del 1859 che costituì per un sessantennio
la struttura fondamentale del nostro sistema scolastico, prevedeva l'affissione nelle aule
scolastiche del crocifisso. La disposizione era destinata a passare sostanzialmente senza
soluzioni di continuità nella normativa regolamentare successiva. In particolare, prima
di essere ripresa dai provvedimenti dell'età del fascismo (tutti comunque precedenti al
Concordato del 1929), essa venne nuovamente ribadita dal regolamento generale dell'istruzione
elementare del 6 febbraio 1908, n. 150.
Dunque l'esposizione del crocifisso nelle scuole non è frutto della
«riconfessionalizzazione» dello Stato che, secondo un giudizio comune
ancorché discutibile, sarebbe stata operata dai Patti lateranensi del 1929 o, più
in generale, dal fascismo. Né tale esposizione deve farsi risalire agli ultimi governi
liberali quando, per usare un'espressione di Gabriele De Rosa, viene meno l'ideale laicista ed
è ormai entrato in crisi lo Stato liberale. Le disposizioni in materia hanno invece
origine nell'età risorgimentale ed attraversano tutto il periodo del più duro e
dilacerante conflitto fra Stato e Chiesa, quando separatismo e una laicità inclinante al
laicismo segnano la politica e la legislazione italiana in materia ecclesiastica.
Qualcuno dirà che dette norme erano pure diretta conseguenza del principio della
religione cattolica come religione dello Stato, consacrato nell'art. 1 dello Statuto albertino
del 1848. Ma è noto che tale disposizione era stata sostanzialmente abrogata già
all'indomani della pubblicazione dello Statuto. Sicché - come poteva scrivere alla fine
dell'Ottocento un autorevole giurista, Carlo Calisse - l'art. 1 dello Statuto doveva intendesi
solo «nel senso che essa (la religione cattolica: ndr ) è quella che la
maggioranza dei cittadini segue, e che del suo culto si serve l'autorità civile quando
occorra d'accompagnare alcuno dei suoi atti con cerimonie religiose. Di modo che, a così
poco ridotto, in nulla il detto articolo contraddice al sistema della separazione fra la Chiesa
e lo Stato».
Da parte sua agli inizi del '900 un altro grande giurista, Arturo Carlo Jemolo, in uno studio
sulla natura e la portata dell'art. 1 dello Statuto, concludeva addirittura dicendo che non si
trattava di una norma giuridica ma di una mera dichiarazione, senza alcun effetto giuridico
pratico.
Le origini storiche di una disposizione che oggi, talora, viene messa in discussione, ci
dicono almeno due cose.
La prima è che, come simbolo religioso, il crocifisso è un simbolo passivo, in
quanto tale non idoneo né diretto a costringere o ad impedire l'individuo in materia
religiosa e di coscienza, né a contravvenire al principio della laicità dello
Stato. Il fatto che lo Stato italiano laico e separatista prevedesse come facoltativi i corsi
di religione nelle scuole, ma prescrivesse al contempo l'esposizione del crocifisso, ne
è una evidente riprova.
La seconda riguarda il crocifisso come simbolo culturale. Non c'è dubbio, infatti, che
esso esprima una storia, una tradizione, una cultura; in breve: l'identità degli
italiani. Ed anche qui il fatto che lo Stato ne prescrivesse l'esposizione, pure nei periodi in
cui la scuola divenne il terreno della più rovente conflittualità tra Stato e
Chiesa, tra liberali e movimento cattolico, costituisce un fatto illuminante. Esso prova,
infatti, che si tratta (anche) di simbolo culturale; di un simbolo che ha plasmato
l'identità italiana e, con altri simboli, ha alimentato gli italiani dei necessari
sentimenti di comune appartenenza.
Ed è per questo che anche l'Ottocento liberale, e talora anticlericale, ne ha ritenuto
non incompatibile, ma necessaria, la conservazione.