Un recente studio della prof.ssa Bruna Costacurta ci invita a fare il punto
sull'interpretazione del libro di Giobbe. Il suo articolo “E il signore cambio' le
sorti di Giobbe”. Il problema interpretativo dell'epilogo del libro di Giobbe
[1] inizia riassumendo lo sviluppo letterario
e tematico dei versetti in poesia del libro di Giobbe.
Il libro di Giobbe consta, infatti, di una parte centrale, la più lunga, i versetti
3,1-42,6, composta in versi e di una parte, che la critica attribuisce ad una mano differente,
in prosa comprendente il prologo, i vv. 1,1-2,13 e la conclusione, i vv. 42,7-17.
Il lavoro della Costacurta vuole appunto cercare l'unità delle due parti, fedele alla lettura cattolica che non può limitarsi a riconoscere i diversi stadi redazionali del testo, ma, accogliendo l'intero testo come Parola di Dio, vuole spingersi a comprendere qual'è il motivo del testo nella sua interezza, senza accoglierne una parte e rigettarne un'altra, come meno significativa. Così viene delineato nell'articolo lo sviluppo del testo e le due prime conclusione, quelle espresse dalla stessa voce di Dio, nei versi centrali in poesia.
Il libro di Giobbe, con la sua forza drammatica e la sua notevole
efficacia letteraria, affronta il problema del dolore e della morte superandone le facili
soluzioni di tipo “retributivo”. La giustizia di Giobbe non consente infatti di
interpretare la sua sofferenza come conseguenza del suo agire perverso, e come necessaria
punizione e manifestazione del suo peccato. Sarebbe questa la spiegazione tradizionale, ben
attestata nel pensiero profetico e in quello sapienziale, che tentava di decifrare il mistero
del dolore umano come una conseguenza diretta del male commesso dall'uomo. Tale visione non
rimaneva comunque chiusa in un semplicistico rapporto strettamente consequenziale tra azione e
risultato, ma si apriva alla speranza della conversione e della salvezza nella comprensione del
dolore come un modo con cui Dio, all'interno dello schema giuridico del rib,metteva il
peccatore dì fronte alle conseguenze del proprio agire perché, prendendo
coscienza della propria colpa, egli potesse lasciarsi perdonare e risanare [2] .
Ma Giobbe è uomo retto e fedele, e la sua infelicità e le disgrazie che si
sono abbattute su di lui non possono dunque essere spiegate come un'accusa che Dio gli
rivolgerebbe attraverso quelle azioni punitive per convincerlo del suo peccato e perdonarlo.
Così, nonostante gli inviti degli amici ad entrare in questa prospettiva, Giobbe
proclama la propria innocenza, ma questo inevitabilmente sposta il problema su Dio, che appare
in tal modo ingiusto nel suo operare, portatore di un'accusa non corrispondente alla
realtà. Così, Giobbe risponde al presunto rib divino nei propri confronti con un
proprio rib nei confronti di Dio. Egli intende con ciò convincere il Signore a desistere
da quella che a lui sembra una condotta ingiustificata, per mostrarsi per ciò che
è: un Dio giusto e buono, a cui Giobbe, nonostante ogni apparenza, continua a credere e
ad appellarsi. Nella sua lotta, il saggio di Uz non rinuncia alla fede e si fa testimone di una
ricerca tenace della verità che non si rassegna e non desiste, pronto a superare ogni
difficoltà [3] . Il culmine del libro si
raggiunge nel dialogo finale tra il Signore e Giobbe e nell'ultima risposta del protagonista,
[4] che riconoscendo la propria piccolezza si
apre al mistero di un Dio non più conosciuto solo per “sentito dire” ma
finalmente sperimentato esistenzialmente, “visto con i propri occhi” (cf 42,2-6).
È il momento terminale di un lungo cammino di autocoscienza che Dio fa percorrere a
Giobbe attraverso la contemplazione della sua opera creatrice. Facendo domande, perché
Giobbe possa trovare da sé e in sé le risposte che cercava, Dio conduce il suo
accusatore attraverso i misteri belli del creato, alla scoperta del mondo. Un mondo che
appartiene all'uomo, che è il suo ambito vitale, e del quale però egli non sa
quasi nulla e che percepisce come incontrollabile. Portato fuori di sé, confrontato con
i segreti del cosmo, Giobbe si confronta con se stesso e si riconcilia con la propria
verità di creatura. Voleva capire Dio, ora Dio gli pone nuovi insolubili problemi
perché capisca che l'uomo non può capire. Giobbe si confronta in tal modo con
l'impossibilità di avere in mano i segreti dell'esistenza, ed ancor meno dell'umano
vivere, con la sua sofferenza e la sua morte, perché in esso entra in gioco un mistero
ancora più grande di quelli cosmici, ed è il mistero insondabile di una
libertà che può rifiutarsi al bene e operare il male. Così, sotto il fuoco
delle domande di Dio, la pretesa di Giobbe di contendere con Dio si rivela come insensata; e
l'ultima domanda del primo discorso di Dio lo formula chiaramente: “Il censore vuole
ancora fare il rib con l'Onnipotente hǎrôb 'im ðadday yissôr)?
Risponda, chi accusa (môkîah) [5]
Dio” (40,2). Giobbe, con il suo rib, voleva ottenere una risposta da Dio e una
giustificazione di ciò che sembrava un assurdo; invece, ora capisce che ciò che
era assurdo era proprio la sua pretesa. Giobbe non può porsi come censore e maestro
[6] del Creatore, e la sua sofferenza
può smettere di essere accusatoria. Ma quando finalmente questo è stato capito, e
Giobbe entra nel silenzio di chi accetta la lezione e riconosce il mistero (cf 40,3-5), ecco il
secondo discorso di Dio che, con ironia brutale e quasi sarcastica, costringe il suo
interlocutore a giungere al cuore del problema. Ad un Giobbe ammutolito, con la mano sulla
bocca, il Signore propone infatti uno “scambio delle parti” (cf 40,9-14): sia
Giobbe ad agire da Dio, a mettere in opera tutta la sua potenza per vincere l'ingiustizia che
lo scandalizza e per risolvere il problema del male nel mondo; sia Giobbe a schiacciare i
malvagi e rinchiuderli negli inferi, se ne è capace, e allora il Signore, come un umano,
innalzerà la sua lode a questo “Dio” potente che tutto vince secondo i
canoni di un'onnipotenza che non è quella divina ma quella sognata dagli uomini.
La natura posta sotto gli occhi di Giobbe assume qui dimensioni proporzionate al problema,
fantastiche, gigantesche: entrano in scena l'ippopotamo e il coccodrillo (o Leviatan), a
sottolineare l'impotenza umana, creature mitiche che Dio invece controlla e con cui può
persino giocare. Nella fase finale del suo processo di autocoscienza, con lo scambio delle
parti proposto da Dio, Giobbe è così messo davanti all'eterno problema di ogni
umana creatura: accettarsi come uomo, diverso da Dio, e accettare un Dio diverso dagli uomini,
che non distrugge il male in un attimo, che non interviene miracolosamente per annientare la
sofferenza, ma è invece portatore di una potenza che assume i cammini pazienti e
misteriosi, talvolta apparentemente deboli, di una salvezza che mira alla conversione del cuore
[7] . Così Dio educa Giobbe e lo aiuta ad
aprirsi all'accettazione del mistero; il saggio di Uz è ora in grado di
“vedere” Dio (42,5), perché, finalmente uscito da schemi e precomprensioni
fuorvianti, è divenuto capace di accoglierne i criteri e di riconoscerLo nella sua
verità. La risposta che Dio dà a Giobbe non è dunque di tipo
intellettuale, ma esperienziale, tutta giocata sulla nuova realtà di un diverso
rapporto interpersonale con il divino...
La lotta si risolve così in una nuova esperienza del divino, e conseguentemente in
un diverso porsi di Giobbe in rapporto alla realtà. In questa prospettiva, anche la
sofferenza patita, che sembrava rendere impossibile il riconoscimento di Dio come giusto,
assume una nuova connotazione, non più accusatoria; il dolore è mistero
insondabile, e il mistero non si può capire, ma si può accettare. Nel rapporto
interpersonale con Dio, Giobbe arriva a riscoprire la propria verità e ritrova il
proprio posto nel mondo; il creatore buono lungamente cercato, il giudice giusto tenacemente
invocato gli si è infine rivelato e fatto vicino, permettendogli una più profonda
e adeguata visione del reale. Riconciliato con Dio, Giobbe rinuncia alle proprie illusorie
pretese di tutto comprendere, e, nell'esperienza di una creaturalità definitivamente
accettata, può riconciliarsi anche con la propria sofferenza.
Ma il testo non termina qui ed il suo tragitto prosegue oltre (sia che i
versetti seguenti appartengano alla stessa mano dei versi poetici, sia che, come la stragrande
maggioranza della critica afferma, siano di un autore successivo).
Il Signore che ha risposto a Giobbe, risponde ora a Elifaz il Temanita, uno degli
interlocutori di Giobbe che aveva espresso il giudizio che il male accaduto avesse come causa
un presunto peccato commesso, ed ai suoi due amici che similmente si erano espressi (Dio non
sembra rispondere qui, invece, ai discorsi del quarto interlocutore, Eliu, che a volte sembrano
simili a quelli dei primi tre interlocutori, altre volte, invece, come nei vv.36,22-37,24, sono
di tenore assolutamente uguale alle risposte che Dio stesso darà; anche qui la critica
ipotizza una ulteriore mano differente di composizione).
Rispondendo ad Elifaz ed ai suoi due amici Bildad il Suchita e Zofar il Naamatita, il Signore
dichiara, al v.42,7: “La mia ira si è accesa contro di te e contro i tuoi due
amici, perché non avete detto di me cose rette come il mio servo Giobbe”. La
Costacurta, proprio partendo dall'interpretazione di questo verso, afferma:
Ci sembra allora meglio dare al sintagma dibbçr 'el il senso di “parlare riguardo a, a proposito di”. Anche se non sono molti i casi in cui ha questo significato, esso è comunque attestato, [8] ed è questa l'accezione più comunemente assunta dai commentatori per il nostro testo. L'accusa rivolta ad Elifaz e ai suoi due compagni va dunque interpretata nel senso di non aver detto “di Dio” cose rette, di non aver parlato di Lui in modo corretto e secondo verità (nekônâ) [9] . A differenza di Giobbe che, pur con frasi a volte esasperate e parole portate all'estremo, non ha mai cessato di esprimere la propria fede in un Dio buono e giusto e per questo ha parlato rettamente, [10] quello degli amici era stato invece un parlare senza verità, perché rifiutando di confrontarsi seriamente con la situazione di Giobbe e con i nuovi problemi che questa poneva. La menzogna che accusava ingiustamente l'amico sofferente per difendere ad oltranza l'agire divino diventava infatti rappresentazione di un Dio giusto secondo la giustizia degli uomini, sempre pronto a giudicare e punire, e che poteva essere placato solo con la penitenza; in definitiva, un Dio che non era capace di gratuità [11] . E con questo loro Dio “calcolatore”, gli amici si avvicinavano pericolosamente alla visione di Satana che, secondo il prologo, non riesce a credere che l'uomo possa avere fede e amare Dio gratuitamente. Nel prologo, infatti, Satana, che non poteva dire nulla di male su Giobbe, ha posto il problema sulla sincerità del suo giusto operare: la rettitudine di Giobbe era davvero disinteressata (hinnâm: 1,9)? Giobbe agiva bene perché era buono o perché questo gli conveniva, o non aveva motivi per non esserlo? Il sospetto è sulla fede; è facile credere in Dio e benedirlo quando tutto va bene, ma è nella difficoltà che il cuore dell'uomo viene vagliato. Così si pone il problema. Una sfida, quella di Satana, che diventa prova per Giobbe, così da mettere a nudo il suo cuore [12] . Ma il problema non tocca solo Giobbe; in realtà, anche Dio è messo in questione. Perché la religiosità interessata fa di Dio qualcuno da rispettare per averne dei premi, qualcuno da amare non per se stesso ma per la felicità che dà. La sfida di Satana ha messo in gioco l'idea stessa di Dio [13] . Ora, nei discorsi degli amici, la forte ottica retributiva rischiava proprio di sopprimere ogni dimensione di gratuità nel rapporto con il divino; e si eliminava il mistero, [14] per non mettere in crisi una costruzione teologica e una visione della realtà che la situazione di Giobbe rendeva problematiche, apparentemente inaccettabili, e comunque da rivedere. E tutto questo avveniva senza sincero interesse per la persona dell'amico sofferente, senza un cordiale atteggiamento di solidarietà, senza vero ascolto. Il loro parlare di Dio non poteva essere secondo verità perché non teneva conto della realtà di Giobbe e della sua protesta di innocenza. Ma Dio, nell'epilogo di Giobbe, si manifesta nella verità anche agli amici e li perdona [15] . Si rivela così come il Dio buono che Giobbe aveva cercato e per cui aveva lottato fino alla fine, incapace di rassegnarsi ad una visione diversa del divino. Il saggio di Uz viene definito da Dio, in 42,7-8, per ben quattro volte “mio servo”, come era stato indicato anche nel prologo (cf. 1,8; 2,3), e come di fatto si era mostrato anche mentre questionava con Dio lungo tutto il libro, perché era una provocazione allo scontro per poter trovare il vero Dio. E Giobbe, l'accusato dagli amici, diventa il loro intercessore; e per quel giusto, ora riconosciuto tale anche da coloro che si rivolgono a lui per l'intercessione, il Signore perdona ai tre peccatori [16] . Dio esaudisce il suo servo; perdonare gli amici è mostrare favore, fare grazia a lui. Ma perché questo avvenga, anche Giobbe deve aver perdonato. Il Dio buono cercato dal saggio sofferente ora si rivela in tutta la sua forza: non solo perdona gli amici, ma fa entrare in questa dinamica di bene anche Giobbe, che si riconcilia in tal modo con i tre compagni, e in essi, simbolicamente, anche con la vita che lo aveva privato di tutto e in tutto provato. Ora, la restaurazione è possibile; e non è la risposta meramente retributiva al comportamento giusto del protagonista della storia, ma la manifestazione esteriore della conversione del cuore: Giobbe finalmente ha visto Dio (cf 42,6), ed è qui che si opera il cambiamento delle sorti.
Se, fin qui, il testo in poesia ed il testo in prosa sembrano non contraddirsi, anzi sostenersi a vicenda, da molti autori è stato affermato che il prosieguo del testo in prosa sia incoerente con il resto del libro di Giobbe. E' proprio questo problema l'oggetto ultimo affrontato dall'importante articolo della Costacurta. La questione che pone esplicitamente viene da lei così sintetizzata:
I due diversi modi di vivere il dolore che coesistono nella Scrittura, nel libro di Giobbe appaiono dunque fortemente contrapposti: da un lato abbiamo l'atteggiamento paziente della parte in prosa con l'edificante prologo a cui risponde il lieto fine dell'epilogo, e dall'altro lato c'è invece la lotta della parte in poesia, con le accuse durissime, le parole esasperate, la visione disperata di un'esistenza insensata. Sorge allora la questione sul rapporto fra le due parti del libro. Sono completamente estranee una all'altra, unite artificialmente, o possono essere lette insieme e aprire nuove prospettive proprio da quella loro articolazione? Indipendentemente dalla genesi dell'opera, e al di là del loro processo redazionale, il libro nel suo stato attuale si contraddice al suo interno, contrapponendo due visioni inconciliabili?
Una risposta affermativa sembrerebbe l'unica possibile ad una prima lettura.
“Sì le due parti del libro con le rispettive visioni del male e della vita sono
veramente inconciliabili e quella in poesia, quella della lotta, del conflitto fra l'uomo e
Dio, è l'unica che merita attenzione e rispetto!” viene spesso da più parti
affermato. Infatti i versetti finali, descrivendo la nuova vita di Giobbe, sembrerebbero
tornare a descrivere la giusta retribuzione divina, a motivo dell'ingiusta sofferenza
sopportata da Giobbe, che proprio la parte centrale della requisitoria di Giobbe aveva
scardinato. E sono proprio questi versetti finali che vengono allora criticati e sottovalutati
in molte letture di Giobbe.
Seguendo, invece, ancora la lettura della Costacurta leggiamo prima la descrizione del nuovo
stato dell'uomo di Uz, dopo il “cambiamento delle sorti” operato da Dio nei
versetti in prosa:
La preghiera di Giobbe per gli amici, conseguenza e manifestazione
dell'esperienza del divino a cui è potuto accedere, rappresenta il punto culminante del
cammino di Giobbe nella sua ricerca del Signore: ora il sofferente uomo di Uz ha trovato la
pace e la benedizione che il dolore sembrava avergli strappato. Non c'è più
lotta, perché ha incontrato Dio; non c'è più amarezza e rancore,
perché ha perdonato. Giobbe è nella pienezza della benedizione [17] . Questo ora si vede, esplicitato in quella
“restaurazione delle sorti” che restituisce a Giobbe il doppio di tutto ciò
che aveva perduto.
La formulašwb 'etšebit /šebût del v. 10 ha il
significato di cambiare in meglio la situazione, riportarla allo stato di prima migliorandola,
restaurando la precedente fortuna. [18] I beni
di Giobbe gli vengono restituiti raddoppiati: viene indicato, rispetto al prologo, un numero
doppio per gli animali e per i figli maschi, mentre delle figlie si evidenzia la bellezza, ne
vengono indicati i nomi evocativi di fascino e si dice che anch'esse ricevono l'eredità
[19] . A Giobbe vengono poi portati doni,
[20] e la sua vita torna ad essere
piena, colma di anni e di fecondità; vive ancora centoquaranta anni, [21] può godere della gioia di vedere lo snodarsi
delle generazioni dei figli dei figli e può infine giungere ad una morte serena, sazio
di giorni. Non la morte colma di violenza che sopravviene anzitempo, non la morte percepita
come ingiusta perché appare insensata e immotivata, ma invece la pienezza della vita che
giunge a compimento, in contrasto con l'angoscia del morire che attraversa il resto del libro.
E' la benedizione restituita, nella piena armonia di tutte le dimensioni che costituiscono
l'uomo. Le riprese verbali del prologo sono numerose, ad indicare un esplicito rapporto con la
narrazione dell'inizio. [22] Ma Satana
sparisce, ormai sconfitto dalla fedeltà di Giobbe e dal manifestarsi della benevolenza
divina. Anche la moglie di Giobbe sembra essere assente dalla scena, perché non viene
nominata, ma è invece presente con la sua nuova maternità, segno di benedizione;
con la nascita dei nuovi figli, anche la moglie partecipa della benedizione del marito. E' la
stessa carne di Giobbe, come nel prologo, ed è carne risanata, che si è
nuovamente aperta alla vita.
Man mano che la lettura del testo si fa più profonda ecco, allora, l'importanza dei versetti finali del testo di Giobbe, nella sua redazione definitiva. E' qui il punto culminante dell'articolo della Costacurta che così conclude:
Ma quello dell'epilogo di Giobbe è davvero un lieto fine, una
pavida ricaduta nei vecchi, rassicuranti schemi propugnati dagli amici? Forse la contraddizione
è solo apparente (come la soluzione che la vecchia teoria sembrava offrire); forse, il
lieto fine è solo apparentemente tale. Perché la restaurazione materiale della
situazione di Giobbe, lo abbiamo visto sopra, non era necessaria; la benedizione era già
stata raggiunta da un Giobbe che può affermare di vedere Dio e che perdona gli amici
intercedendo per loro. Il raddoppiamento dei beni, i nuovi figli, i doni, la lunghezza degli
anni, tutto questo ratifica una realtà di bene a cui Giobbe è già
pervenuto, e il suo verificarsi è totalmente gratuito. Non è un premio, ma
l'espressione visibile di ciò che già era avvenuto.
Del resto, il problema della sofferenza di Giobbe, in realtà, anche nell'epilogo,
pur con la sua visione consolatoria, resta irrisolto; perché a Giobbe viene tutto
restituito, ma chi gli restituirà i suoi morti e chi potrà restituirgli,
restaurati, i giorni del suo soffrire? Se la storia narrata nella parte in prosa può
apparire confortante, il testo in poesia toglie l'illusione. Il fatto che Dio restauri le sorti
del suo giusto servo è un modo con cui la sofferenza passata viene riconosciuta, ma non
risolta; la compensazione simbolica significata dal raddoppiamento di ciò che viene
restituito dice la gravità della perdita e ne riconosce l'inaccettabilità, ma non
arriva a giustificare il dolore, che rimane mistero inspiegabile. Il lieto fine non è
lieto, perché resta il vuoto incolmabile dei morti, e resta il tempo della sofferenza
come luogo di memoria, che non può mai essere sostituito.
Ma c'è invece, in quella parte finale, una certa esplicitazione, in termini
classici, dell'esperienza della presenza di Dio. È un altro modo di dire la stessa fede
nel mistero di una vita che è possibile ritrovare nella morte, di una benedizione che
può essere accolta in un'apparente situazione di maledizione. Un altro modo per dire
l'esperienza della presenza di Dio all'interno della prova. La teoria tradizionale viene
così recuperata, ma rielaborata e compresa nel suo giusto senso, Che è quello di
mostrare la forza vitale delle scelte etiche dell'uomo, la realtà intrinseca del bene e
del male e dunque la capacità ineluttabile del male di produrre altro male e del bene di
generare altro bene. Questa verità semplice è alla base della teoria retributiva;
e nel libro di Giobbe, con il suo difficile rapporto tra l'epilogo e la parte centrale, essa
viene messa in questione per essere liberata da una eccessiva e falsa semplificazione; per
essere dunque non negata ma “problematizzata”, e reinserita nella
complessità della realtà umana.
Nell'epilogo, il senso profondo della vecchia teoria si fa visibile, e l'onestà di
Giobbe mostra i suoi frutti, producendo il bene: è il rapporto nuovo con Dio a cui il
Signore lo ha condotto con le sue domande mentre gli mostrava la creazione, è la
riconciliazione in cui il giusto di Uz è benedetto quando alla benedizione ha ormai
rinunciato (cf 42,5-6: Giobbe, dopo aver tanto questionato, ora non chiede più niente,
non pretende risarcimenti, ma può finalmente “vedere” Dio e trovare in
questo la sua consolazione) [23] . Ebbene,
questo adesso nell'epilogo si fa manifesto: i beni restituiti sono la visualizzazione del vero
dono già ricevuto. Quanto al male, portatore di dolore e di maledizione, esso può
essere sconfitto: nell'epilogo il parlare degli amici viene condannato, ma loro sono perdonati.
Con il suo perdono, Dio segnala il peccato, e insieme lo supera. Il male è vinto, e
anche Satana è sconfitto e sparisce dalla scena. Giobbe appare così di nuovo
riconciliato con se stesso e con la realtà; perché l'esperienza di Dio ha
cambiato tutto. I beni, che non gli erano stati tolti per motivi di retribuzione, neppure gli
vengono restituiti per quei motivi. [24] La
loro perdita è persino in qualche modo servita a incontrare Dio. E adesso, la
restaurazione, espressa nei termini classici della prosperità e del benessere, ha come
unico motivo il fatto che Dio si è rivelato. Quando si fa esperienza di Dio, la
realtà cambia e la benedizione si fa straripante, anche nella morte. Perché la
benedizione non è riavere il doppio di quanto si era perduto, ma poter dire “ora
ho visto”. La vera benedizione a cui Giobbe accede e che l'epilogo manifesta è
ultimamente la visione di Dio.
E' quella visione di Dio a cui, secondo la fede, sono
“destinati” anche coloro che, nel racconto, sono morti prima di Giobbe, quella
visione di Dio che è l'identità del Paradiso.
Ci permettiamo, infine, di accennare all'indicazione, chiara nel prologo di Giobbe, ma che
l'atteggiamento moderno tende ingiustamente a censurare, di un Nemico dell'uomo, che si
presenta al cospetto di Dio perché l'uomo sia condannato. Anche questa affermazione non
può essere sottaciuta per una lettura integrale del messaggio dell'intero libro e per
una comprensione del mistero del male, nella storia degli uomini, e del mistero della giustizia
e della salvezza divina nel “ristabilimento delle sorti”.
Per altri articoli e studi sulla Bibbia presenti su questo sito, vedi la pagina Sacra Scrittura (Antico e Nuovo Testamento) nella sezione Percorsi tematici
[Nota 1] L'articolo è apparso in Palabra, prodigio, poesia, In memoriam P.Luis Alonso Schoekel, S.J ., ed. VICENTE COLLADO BERTOMEU, Editrice Pontificio Istituto Biblico, Roma, 2003, p.253-266. Le note al testo di questo articolo sono direttamente riprese dall'articolo originale, di cui consigliamo la lettura integrale.
[Nota 2] La controversia giuridica (rib) era un procedimento bilaterale che si svolgeva tra la parte lesa e il colpevole e che prevedeva che chi aveva subito un torto si rivolgesse direttamente al colpevole accusandolo del suo peccato. Ma si trattava di un'accusa tesa alla riconciliazione. Al contrario del giudizio (miðpât), dove l'accusa provocava necessariamente una condanna, nel rib l'intento dell'accusatore era di convincere il malfattore della sua colpa così che, riconoscendola, se ne potesse liberare e fosse di nuovo possibile una relazione di amicizia con la parte lesa. Nel rib, l'accusa è perciò espressione e conseguenza di un perdono già accordato; è ovvio però che, per poter essere efficace, questo doveva essere accolto dal colpevole. Perché ciò avvenisse, la parte lesa metteva allora in opera ogni accorgimento che potesse aiutare la presa di coscienza del malfattore; non solo la parola di accusa, dunque, ma anche gli interventi punitivi erano modi in cui ti poteva manifestare e attuare l'accusa che doveva portare alla riconciliazione. Sul procedimento giuridico del rib, si vedano L.ALONSO SCHÖKEL, Treinta Salmos: Poesia y oraciòn, Estudios de Antiguo Testamento 2 , Madrid 1981, 199-207 e soprattutto l'esaustiva opera di P.BOVATI, Ristabilire la giustizia. Procedure, vocabolario, orientamenti, AnBib 110, Roma 1986, in particolare 21-148.
[Nota 3] È importante sottolineare che l'accusa di Giobbe nei confronti di Dio è quella del rib, fatta perché l'altro cambi e si possa tornare ad essere in comunione. Perciò, mentre ritorce l'accusa, Giobbe si appella alla giustizia divina e cerca il confronto, confessando la propria fiducia in un'altra verità di Dio, diversa da quella che appare. Giobbe non si rassegna all'idea di un Dio cattivo. la sua accusa è testimonianza di fede. Siamo all'interno di un rib: Giobbe sta offrendo la riconciliazione, è portatore di un desiderio di chiarificazione, vuole che Dio torni ad essere e a mostrarsi giusto e buono.
[Nota 4] Cf. J.LEVEQUE, “L'épilogue du Livre de Job. Essai d'interpretation », in: Toute la sagesse du monde . Hommage à Maurice Gilbert , s.j., ed. F.Mies, Bruxelles 1999, 37.
[Nota 5] Il verbo ykh è uno dei principali sinonimi di ryb, e indica il procedere sapienziale e giuridico che ricerca la giustizia attraverso l'accusa e la correzione (cf P.BOVATI, Ristabilire la giustizia, 34-38).
[Nota 6] La radice ysr da cui viene il sostantivo hapax 'yissôr” ha il senso di educare, ammonire, impartire una lezione, istruendo ma anche correggendo e punendo.
[Nota 7] Commenta Alonso Schökel (a proposito di 41,1-3): “Dios remacha la lección ofrecida a Job: aunque el hombre no logre dominar las fuerzas del mal, Dios las controla. A Job no lo puede 'salvar su diestra', Dios sí lo puede y quiere salvar” (L.ALONSO SCHÖKEL – J.L.SICRE DIAZ, Job. Comentario teológico y literario, Madrid 1983, 591).
[Nota 8] Fra le diverse occorrenze, sembra particolarmente significativa quella di 2Cr 23,19: “Essi parlarono del Dio di Gerusalemme come di uno degli dei degli altri popoli della terra, opera di mani d'uomo” (waydabberû el ‘ĕlōhê yerûšālāim keal ‘ĕlōhê ...); si veda anche 2Sam 7,19, il cui passo parallelo di 1Cr 17,17 utilizza la preposizione 'al. Per l'uso di 'el nel senso di “about, concerning” anche con altri verbi, cf. D.J.A.CLINES (ed.), The Dictionary of Classical Hebrew, I, 268b-269.
[Nota 9] Il participio nekônâ , qui usato avverbialmente (cf D.J.A.CLINES, ibid., IV, 373b), ha il senso di cosa retta e stabile, ben fondata, sicura. Si vuole dunque qui indicare la correttezza e la certezza del parlare, e la sua conformità alla realtà. Si veda al proposito N.C.HABEL, The Book of Job, 583-584; J. LÉVÊQUE. “ L'épilogue du Livre de Job ”, 42.
[Nota 10] L'audacia del parlare di Giobbe e il suo apparente sconfinare oltre i limiti dell'accettabile (si pensi, ad esempio, alle accuse di crudeltà che egli rivolge a Dio in 7,12-14; 10,5-8; 13,23-27; 16,7-14; 19,6-12; o alla beffarda ironia con cui stravolge il senso del Salmo 8 in 7,17-19) hanno portato alcuni autori a non considerare verosimile l'approvazione di Dio espressa nell'epilogo nei confronti del parlare di Giobbe e a tentare di risolvere il problema affermando che ciò a cui il Signore si riferisce è solo quanto Giobbe ha detto nel prologo o nelle sue risposte finali dopo i due discorsi di Dio. Ma una gran parte dei commentatori legge giustamente la frase di Dio nell'epilogo in collegamento con la totalità del libro. Su tutta la questione cf. L.ALONSO SCHÖKEL – J.L.SICRE DIAZ, Job, 602-603; S.E. PORTER, “ The Message of the Book of Job: Job 41:7b as Key to Interpretation? ” , EvQ 63 (1991) 291-304; J. LÉVÊQUE, “ L'èpilogue du Livre de Job ”, 43-44; M.OEMING, “ Ihr habt nicht recht von mir geredet ”, soprattutto 103-112.
[Nota 11] In realtà, l'ammissione della colpa è parte integrante del rib e non c'è riconciliazione possibile senza la conversione. Ma gli amici, oltre a non tener conto della realtà di Giobbe che si proclamava innocente, nei loro discorsi sembravano aver anche capovolto la relazione che intercorre tra perdono e confessione del peccato, intendendo quest'ultima non come una conseguenza, ma come ciò che provocava il perdono divino, che perdeva così la sua dimensione salvifica di gratuità. E' invece con la richiesta di grazia e, nell'epilogo, con il sacrificio che la esprime che il perdono diventa operante per gli amici che riconoscono di averne bisogno. Elifaz e i suoi due compagni accettano la correzione divina e fanno ammenda chiedendo l'intercessione di Giobbe, ma davanti ad una accusa che è mediazione di un perdono già accordato.
[Nota 12] Cf Dt 8,2: “Ricordati dì tutto il cammino che il Signore tuo Dio ti ha fatto percorrere in questi quarant'anni nel deserto, per umiliarti e metterti alla prova, per sapere quello che avevi nel cuore e se tu avresti osservato o no i suoi comandi”. Nel libro di Giobbe, la provocazione è posta da Satana, ma la vita stessa è una sfida che sottopone continuamente a verifica la fede, e la fede è una continua prova per l'uomo.
[Nota 13] Ma allora, solo se l'uomo resta fedele nel dolore, Dio viene riconosciuto come unico bene; questo non è detto esplicitamente nel testo, ma si potrebbe aprire come prospettiva. La sofferenza dunque ha un senso?
[Nota 14] È questo uno dei problemi centrali del libro: si cerca una definizione per Dio, ma definirlo è chiuderlo nella mortalità, dandogli un inizio e una fine.
[Nota 15] Commenta A.WEISER, Das Buch Hiob , 268: “darin zeigt sich nun das wahre Wesen Gottes, dass er auch den Freunden gegenüber seinen Zorn überwindet durch die Liebe”.
[Nota 16] Diversi commentatori sottolineano la dimensione ironica del rovesciamento dei ruoli che si attua con la trasformazione dell'accusato in intercessore per i suoi accusatori: cf al proposito L.ALONSO SCHÖKEL – J.L.SICRE DIAZ, Job, 603; N.C.HABEL, The Book of Job, 584; J. LÉVÊQUE, “L'èpilogue du Livre de Job”, 48-49
[Nota 17] Commenta A.WEISER (Dos Buch Hiob, 269): “Der Dichter aber betont ausdrücklich, dass die Wendung des Schicksals des Hiob zusammenfällt mit der Tatsache, dass sich Hiob in der Fürbitte 'für den Nächsten' zum Werkzeug der göttlichen Gnade hat machen lassen”.
[Nota 18] L'espressione, spesso oggetto, come nel nostro caso, di un Qere-Ketib, può presentare qualche difficoltà di interpretazione ed essere interpretata come “far tornare i prigionieri” e/o come “cambiare la sorte”. Usata in particolare in riferimento al ritorno dall'esilio (cf ad esempio Ger 29,14; 30,3-18; 33,7-11; Ez 39,25; Am 9,14; Gl 4,1), ha nel caso di Giobbe, unica occorrenza in cui si fa riferimento a un individuo, il chiaro senso di “restaurare la sorte, operare un mutamento”. Tra i numerosi studi riguardanti l'espressione e i problemi ad essa collegati, ricordiamo E.PREUSCHEN, “ Die Bedeutung vonšwbšebût im Alten Testamente. Eine alte Controverse ”, ZAW 15 (1895) 1-74; E.L.DIETRICH, šwbšebwt . Die endzeitliche Wiederherstellung bei den Propheten,. BZAW 40, Giessen 1925; E.BAUMANN, šwbšebwt. Eine exegetische Untersuchung ”, ZAW 47 (1929) 17-44; R. BORGER, “Zu šwbšebw/yt”, ZAW 66 (1954) 315-316; W.L. HOLLADAY, The Rootšûbh in the Old Testament with particular reference to its usages in covenantal contexts, Leiden 1958, 110-115; J.M.BRACKE, šwbše bût: A Reappraisal ”, ZAW 97 (1985) 233-244; I. WILLI-PLEIN, šwbšebwt — eine Wiedererwägung ”, ZAH 4 (1991) 55-71; J.-M. BABUT , Les expressions idiomatiques de l'hébreu biblique. Signifìcation et Traduction. Un essai d'analyse componentielle, Cahier de la Revue Biblique 33, Paris 1995, 190-235; si vedano inoltre, con ulteriore bibliografia, gli articoli di J.A. SOGGIN šûb zuruckkehren ”, THAT, II, 886-888 e M.BEN YASHAR- M.ZIPOR, “šebûtb/šebît ”, TWAT, VII , 958-965.
[Nota 19] È questo il segno di una ricchezza immensa, ma anche e soprattutto di una speciale attenzione verso le figlie da parte di Giobbe e di armonia all'interno della famiglia. Di solito, infatti, le figlie non ereditavano le sostanze paterne, se non in assenza di figli maschi (cfr. Num 27,1-11; 36,1-13). Si veda al proposito A.WEISER, Dos Buch Hiob, 270; S.TERRIEN, Job, 273: M.H. POPE, Job, 353; R.GORDIS, The Book of Job, 498-499; N.C.HABEL, The Book of Job, 585; J.E.HARTLEY, The Book of Job. 542-543; H.STRAUSS, Hiob, 401-402.
[Nota 20] Secondo alcuni autori, la visita dei parenti per consolare Giobbe è qui fuori posto e apparterrebbe al prologo, dove sarebbe stata originariamente situata dopo 2,10. Ma la sua posizione nell'epilogo non crea problemi interpretativi: la venuta di conoscenti e parenti serve a sottolineare la restaurazione di Giobbe che ritrova in pienezza la dimensione relazionale; la comunità gli si stringe di nuovo intorno, dopo la solitudine della malattia, per esprimere solidarietà, confortarlo per le disgrazie subite e gioire con lui, anche attraverso il segno dei doni, per la felicità ritrovata. Sulla questione, cf J.E.HARTLEY, The Book of Job, 541.
[Nota 21] Il numero ha valore simbolico: cf. N.C.HABEL, The Book of Job 585-586; J.E.HARTLEY, The Book of Job, 543.
[Nota 22] Cf. ad esempio le espressioni 'abdi 'iyyôb (1,8; 2,3: 42,7.8), 'lh (Hi) 'ola (1,5; 42,8), kol 'ãšer le (1,11.12; 2,4; 42,10), ecc.: si veda al proposito J.LÉVÊQUE, “L'épilogue du Livre de Job”, 39.
[Nota 23] A tale proposito ci sembra di particolare interesse la traduzione di 42,6 proposta da Borgonovo: “Perciò detesto polvere e cenere, ma ne sono consolato”, Il versetto è di difficile interpretazione e presenta un condensato di problemi lessicali e sintattici (si veda G.BORGONOVO, La notte e il suo sole. Luce e tenebre nel Libro di Giobbe. Analisi simbolica, AnBib 135, Roma 1995, 83-84), ma così interpretato chiude coerentemente l'ultima risposta di Giobbe a Dio nella linea di una totale apertura al mistero: il saggio di Uz non accetta supinamente la propria situazione di sofferenza e continua a rifiutarla, perché non c'è per essa vera giustificazione, ma in essa trova la sua consolazione e può accettarne anche l'incomprensibilità perché può viverla “vedendo” Dio, facendo esperienza della sua presenza e sentendosi oggetto del suo amore.
[Nota 24] Cf. A.WEISER, Das Buch Hiob , 267. Tra gli autori che sottolineano la dimensione libera e gratuita della restaurazione delle sorti di Giobbe da parte di Dio, cf in particolare N.C.HABEL, The Book of Job , 584-585; J.E.HARTLEY, The Book of Job , 540; J.LÉVÊQUE, “ L'épilogue du Livre de Job ”, 53.