Il brano seguente è tratto dal volume di M.Zerwick s.j., Lettera agli Efesini, Città Nuova, Roma, 1971. Restiamo a disposizione per l'immediata rimozione se la sua messa a disposizione on-line sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto.
L'Areopago
21 Siate sottomessi gli uni agli altri nel timore di
Cristo.
E' sorprendente quanto significativo che questa esortazione (nel greco
“sottomettendovi”) concluda grammaticalmente la sezione precedente, che così
si strutturava: “siate ripieni di Spirito Santo... intrattenetevi tra di voi...
cantando... ringraziando...”. Dunque, è come per chiudere sulla stessa linea di
pensiero, che si aggiunge: “sottoponendovi vicendevolmente”. E però
quest'ultima espressione diventa ad un tempo il titolo di ciò che segue. Ebbene,
inavvertitamente si passa dalle funzioni religiose alla vita quotidiana della famiglia. Paolo
non avrebbe potuto esprimere con maggiore efficacia e chiarezza quanto egli, quasi
spontaneamente, presuppone: che cioè la vita cristiana è indivisibile, che non ci
possono essere due campi distinti, chiesa e casa, domenica e giorni feriali, liturgia e vita. I
due campi appartengono l'un l'altro e devono scambievolmente compenetrarsi: dal culto divino
nasce per la vita quotidiana una comprensione sempre nuova della volontà di Dio, e con
essa anche la forza di compierla; e viceversa, la vita vissuta di ogni giorno, gioie e dolori,
successi e insuccessi, speranze e preoccupazioni, è ciò che il cristiano porta
con sé quando si presenta a Dio nella liturgia assieme ai fratelli. Nell'epistola ai
Colossesi c'è un brano parallelo al nostro dal significato analogo, cosicché i
due testi si confermano e si illuminano a vicenda. In tal passo, la menzione della gratitudine
fa parlar l'apostolo dell'incontro della comunità dove quest'atteggiamento cristiano si
esprime in modo particolare: “Istruitevi e ammonitevi gli uni gli altri in ogni sapienza.
Mossi dalla grazia, cantate a Dio nei vostri cuori con salmi, inni, cantici la vostra
riconoscenza”. Nello stesso passo, e con chiarezza ancor maggiore, il pensiero sfocia in
tutta l'ampiezza e la larghezza della vita quotidiana: “E qualsiasi cosa facciate, in
parole e opere, fate tutto nel nome del Signore Gesù, rendendo grazie per mezzo di lui a
Dio Padre” (3,16 ss.). Di nuovo, dunque, la significativa immediatezza con cui l'apostolo
passa dal culto alla vita, e dalla vita al culto. Secondo Paolo, la famiglia cristiana è
basata sulla giusta subordinazione dei suoi membri. Questo – è vero – vale
per ogni altra famiglia che sia ordinata; ma l'aspetto cristiano è che la
subordinazione, richiesta già dalla natura, viene ormai attuata “nel timore di
Cristo”, cioè in santo rispetto davanti a Cristo il Signore. Questo conferisce una
nuova consacrazione a tutta la vita; questo rende facile la subordinazione, che altrimenti
è pesante per l'uomo; questo concilia la subordinazione con la dignità della
persona, e dà fondamento solido al giusto ordine anche là dove le insufficienze
di chi è alla guida metterebbero in pericolo l'ordine stesso.
( 21 Siate sottomessi gli uni agli altri nel
timore di Cristo),
22 le donne ai loro mariti come al Signore, 23 perché è
l'uomo il capo della donna, come anche Cristo è il capo della Chiesa, egli il salvatore
del suo corpo. 24 Dunque, come la Chiesa è soggetta a Cristo,
così devono esserlo le mogli ai loro mariti in tutto.
Le donne devono essere sottomesse ai loro uomini come al Signore. Nella
nostra lingua, il “come” ha un valore piuttosto comparativo; un valore causale
l'avrebbe un “in quanto al Signore”. La parola greca, invece, assomma in sé
i due significati ed ha qui soprattutto il valore causale, è l'applicazione
dell'affermazione precedente “nel timore di Cristo”.
“Perché è l'uomo il capo della donna, come anche Cristo è il capo
della Chiesa, egli il salvatore del suo corpo”. Il matrimonio è dunque chiamato a
riprodurre il rapporto di Cristo con la sua Chiesa, e come Cristo è il capo della
Chiesa, tale deve essere l'uomo per la donna. La parola “capo” esprime soprattutto
la posizione di signore e padrone: naturalmente Cristo, come capo della Chiesa, è per
lei molto di più di ciò, è fonte della sua vita, motivo e fine della sua
crescita - ciò che non può certo dirsi dell'uomo nei confronti della donna. Fin
dal principio Paolo vuol togliere ogni duro autoritarismo dalla posizione di comando dell'uomo,
ed escludere ogni possibile inflessibilità o abuso egoistico. Ecco perché
aggiunge la frase, qui piuttosto sorprendente, “Cristo, il salvatore del suo
corpo”: la posizione di comando dell'uomo deve essere tutta indirizzata alla
“salvezza” della moglie, come fa Cristo nei confronti della Chiesa. Così
vede Paolo il rapporto dalla parte dell'uomo; ripete poi lo stesso pensiero visto dalla parte
della donna: “Come la Chiesa è soggetta a Cristo, così devono esserlo le
mogli ai loro mariti in tutto”. Formulando il principio sotto i due aspetti, viene
escluso senz'altro ogni malinteso: all'uomo l'apostolo assegna la parte direttiva e di guida
del matrimonio, alla donna quella subordinata; e ciò vale “in tutto”,
cioè nello svolgersi di tutta la vita. La novità sta nella visione religiosa: le
due parti vengono esortate a vivere nell'ordine detto, partendo dalla fede: dall'esempio di
Cristo, l'uomo deve dedurre che la sua funzione direttiva è un condurre alla salvezza; e
la donna deve esercitare l'obbedienza, la sottomissione, come un servizio, prestato a Cristo
stesso. In tutto ciò possiamo scorgere una verità cristiana di valore perenne: la
vita in comune nel matrimonio viene pensata religiosamente come frutto della fede e della vita
di grazia. Ma l'immagine dei rapporti tra gli sposi che Paolo aveva davanti a sé; era
quella del suo tempo, con la posizione di inferiorità di solito assegnata dal mondo
antico alla donna. Proprio allora, cominciava appena a farsi strada una valutazione diversa
della donna, che almeno nei principi la equiparava all'uomo. Nel pensiero di Gesù le
cose si presentavano chiare: già dal tempo della creazione uomo e donna sono
perfettamente uguali nella loro essenza e nel loro valore; ma il suo insegnamento non era
ancora penetrato nella vita pratica al tempo degli apostoli. Che Paolo stesso, però, si
trovi sulla linea di questo pensiero, lo mostrano le righe seguenti.
25 Voi, uomini, amate le vostre mogli, come anche Cristo ha
amato la Chiesa e per essa ha dato se stesso,26 per santificarla purificandola con
lavacro dell'acqua nella parola 27 per farsela comparire innanzi, la Chiesa,
gloriosa, senza macchia né ruga né alcunché di simile, perché
invece sia santa e irreprensibile.
Come Paolo ha fatto solo una raccomandazione alle donne, “siate sottomesse”,
così pure per gli uomini ha una sola esortazione fondamentale che racchiude in sé
tutto il resto: “amate le vostre mogli”. E di nuovo il modello è Cristo:
“come anche Cristo ha amato la Chiesa e per essa ha dato se stesso”. Ma anche
questo “come” ha probabilmente più di un semplice valore comparativo:
l'agire di Cristo per la sua Chiesa deve essere anche il fondamento, la sorgente, dell'agire
dell'uomo per la moglie: siccome Cristo ha sacrificato se stesso per amore della sua Chiesa - e
il matrimonio è visto come rappresentazione del rapporto di Cristo con la Chiesa - per
questo gli uomini devono amare le loro mogli, e mettere in atto l'amore anche da parte loro con
dedizione pronta al sacrificio. Di solito come fine del sacrificio di Cristo sulla croce si
indica la redenzione dal potere delle tenebre, la liberazione dal giudizio dell'ira di Dio, in
breve, la remissione dei peccati (Gal 1,4). Qui, invece, viene accentuato fortemente il lato
positivo di quest'opera redentiva, la santificazione, e precisamente non tanto la
santificazione del singolo, ma piuttosto la santificazione della Chiesa nel suo insieme: essa
avviene tramite il battesimo di membra sempre nuove, il che è allo stesso tempo
purificazione e santificazione. L'espressione “lavacro dell'acqua nella parola”
è probabilmente ciò che la teologia intende con “sacramento”: una
“materia”, il lavacro dell'acqua, a cui si aggiunge, come “forma” che
le dà significato, la parola, cioè la “formula battesimale”.
“Nella parola” è un'espressione linguistica semitica che ha il valore di
“insieme con”, “accompagnata da”.
La santificazione trova poi una descrizione figurata: sulla croce Cristo ha offerto se stesso
per la Chiesa, “per presentarla gloriosa innanzi a sé”. La parola
“presentare” può essere compresa e tradotta quasi come espressione tecnica
per il “condurre” a nozze la sposa; in questo senso Paolo la riferisce anche a se
stesso dove si attribuisce la qualità di “accompagnatore alle nozze”, in
quanto a Cristo conduce come una casta vergine “la Chiesa di Corinto” (2 Cor
11,12). Che un tal “presentare” presupponga un plasmare, un formare, un far bello e
perfetto, risulta chiaro per esempio dal modo in cui Paolo nella lettera ai Colossesi parla del
suo lavoro apostolico: esso è un “rendere ogni uomo perfetto in Cristo”
(1,28). Nel nostro passo, però, viene messo in evidenza che è Cristo ad
accompagnare la propria sposa, è “lui stesso” a condurre sposa “a se
stesso” la Chiesa, tutta gloriosa: è lui che si prepara la sposa, e fa sì
che essa sia “senza macchia, né ruga, né alcunché di simile, che sia
invece santa e irreprensibile”.
Ma in che senso la Chiesa è effettivamente così gloriosa e pura, così
immacolata e fresca di giovinezza? Si pensa forse allo stato ultimo, alla Chiesa della fine dei
tempi, tutta pura per le nozze eterne con l'Agnello? Niente affatto; nella misura in cui
è il capolavoro del suo sposo, la Chiesa è già ora gloriosa e immacolata;
e ciò che un giorno si renderà manifesto è proprio questa bellezza, che,
pur essendo ora nascosta, già le appartiene. E ancora: Paolo pensa alla Chiesa come essa
emerge permanentemente dal battesimo, nuova, splendida e pura. L'apostolo non vuol parlare ora
di come essa si realizza a causa della debolezza degli uomini, perché quel che gli sta a
cuore è l'intenzione della donazione di sé e dell'amore a Cristo.
28 Così anche i mariti devono amare le loro mogli come
il loro proprio corpo. Chi ama la sua donna ama se stesso. Nessuno odiò mai la propria
carne; anzi ciascuno la nutre e ne prende cura come Cristo fa per la Chiesa, 30
poiché noi siamo membra del suo corpo.
“Così anche i mariti devono amare le loro mogli come il loro proprio
corpo”. Il pensiero non è proprio nuovo: dell'agire esemplare di Cristo, si
ripropone solo un aspetto di cui si è già parlato brevemente poco fa, lì
dove si afferma che Cristo è il “salvatore del suo corpo”. Lì appunto
si staglia già con chiarezza il pensiero dell'amore che il capo ha per il proprio corpo;
e questo vale ora anche per i mariti: “chi ama sua moglie, ama se stesso”. Un tal
pensiero offre a Paolo un motivo potentemente persuasivo per l'amore del marito verso sua
moglie: un motivo che, per quanto concisamente indicato, invita tuttavia a meditarlo e ad
applicarlo fin nei minimi particolari. “Nessuno odiò mai la propria carne; anzi la
nutre e ne prende cura come Cristo fa per la Chiesa”. Non è certo necessario
prendere il verbo “odiare” nel duro significato che ha la parola nella nostra
lingua: nella lingua semitica, infatti, già “odia” chi ama qualcuno meno di
un altro. Naturalmente, tanto più “odia” chi non ama per niente, chi
trascura qualcun altro che dovrebbe amare o lo tratta con freddezza e indifferenza; solo questo
caso estremo è espresso dal nostro “odiare”: una vera e propria avversione
che giunge a desiderare per l'altro il male. Dunque, non ci vorrebbe altro, davvero, se non che
ogni marito si prendesse cura della moglie così come ciascuno ha cura del “proprio
corpo”, cioè del proprio benessere fisico, della propria salute, ed evita con
premura ogni dolore, medica con attenzione ogni ferita, toglie di mezzo ogni disagio. E di
nuovo è Cristo il modello di questo custodire e curare il “proprio corpo”
(che nel caso di Gesù è la Chiesa). Per la terza volta risuona insistente:
“come anche Cristo”, con la motivazione “poiché anche Cristo...”
A che cosa pensi Paolo con questo “nutrire e prendersi cura”, si può trovare
nel versetto 4,16. “L'intero corpo viene tenuto unito da lui...”: in ogni atto di
carità che unisce e che aiuta è lui all'opera, intento soltanto a far sì
che in ogni cosa questo corpo cresca e maturi nella carità. Dal momento che si parla
anche di “nutrire”, non è possibile che resti troppo lontano il pensiero di
Cristo che nutre il “proprio corpo” con se stesso, con la sua carne e il suo sangue
eucaristico - questa espressione visibile e tangibile di quell'unica linfa vitale che scorre in
tutti noi, “poiché siamo membra del suo corpo”.
31 “Per questo l'uomo lascerà il padre e la madre e si unirà
alla sua donna, e i due saranno una sola carne”.32 Questo mistero
è grande; ma io lo dico riferendomi a Cristo e alla Chiesa. Comunque anche ognuno di voi
ami sua moglie come se stesso e la moglie rispetti il marito.
Senza una formula introduttiva, come Paolo fa invece di solito quando
riferisce un testo della Sacra Scrittura, si cita immediatamente il passo del Genesi:
“Per questo l'uomo lascerà il padre e la madre...” (Gen 2,24). Dinanzi a
questo passo, si è soliti pensare prima di tutto al matrimonio naturale. Non così
Paolo; egli vede qui espresso un profondo mistero (“questo mistero è
grande”) e spiega perché lo trova grande: “Dico però (che è
grande) considerando Cristo e la Chiesa”. Il che equivale a dire: io intendo questa
parola di Dio come riferentesi a Cristo e alla Chiesa. A dire il vero la frase si riferisce
direttamente alla prima coppia umana; Adamo è però per Paolo tipo del Cristo, il
secondo Adamo, e ciò che vale per il primo Adamo deve trovare nel secondo la sua
elevazione e il suo compimento. Così dunque, secondo Paolo, il passo del Genesi intende
veramente Cristo e il suo matrimonio con la Chiesa, il che è perciò davvero un
“grande mistero”.
Il nostro testo parla con certezza anche del matrimonio umano, ma di ciò in quanto
è interiormente dipendente dal matrimonio fondamentale di Cristo con la sua Chiesa, e,
come reale partecipazione, essenzialmente riferito ad esso. Certo, se deve esser di questo
veramente partecipazione, allora il matrimonio umano è più di una semplice copia,
allora nel matrimonio che avviene fra membra di Cristo deve verificarsi qualcosa dell'unione di
Cristo con la sua Chiesa, un'unione dispensatrice di vita. Così il matrimonio viene
introdotto, non solo per similitudine, ma per partecipazione in ciò che Paolo chiama il
grande mistero fondamentale: Cristo, lo sposo, che forma un sol corpo con la Chiesa, sua sposa.
E' qui ciò che ci fa capire il matrimonio come mezzo di grazia, e quindi come
sacramento.
Da questo profondo sguardo nel mistero del matrimonio cristiano - poiché in fin dei
conti è solo ad esso che si guarda - Paolo ritorna e conclude la sua iniziale e
principale raccomandazione per gli sposi. Dopo tutto ciò che ha preceduto, ci si
aspetterebbe l'esortazione finale introdotta da un “perciò” o un
“dunque” per essere presentata come risultato o conclusione. L'apostolo, invece,
introduce la frase finale con un inatteso “comunque”. Si ha così, in certo
modo, un distacco da ciò che precede, quasi Paolo voglia dire: che ora abbiate capito o
no, la cosa principale è che voi facciate ciò che è giusto. “In ogni
caso, anche ognuno di voi deve amare sua moglie come se stesso; e la moglie deve rispettare il
marito”.
Per arricchire ulteriormente la riflessione sul senso del testo di Ef 5, 21-33,
trascriviamo le parole di p. Raniero Cantalamessa in Amare la chiesa. Meditazioni sulla Lettera
agli Efesini, Milano, Ancora, 2003, pp. 92-97:
Leggendo con occhi moderni le parole di Paolo, una difficoltà balza subito agli occhi. Paolo raccomanda al marito di “amare” la propria moglie (e questo ci sta bene), ma poi raccomanda alla moglie di essere “sottomessa” al marito e questo, in una società fortemente (e giustamente) consapevole della parità dei sessi, sembra inaccettabile. Infatti è vero. Su questo punto san Paolo è, in parte almeno, condizionato dalla mentalità del suo tempo. Tuttavia la soluzione non sta nell'eliminare dai rapporta tra marito e moglie la parola “sottomissione”, ma semmai nel renderla reciproca, come reciproco deve essere anche l'amore. In altre parole, non solo il marito deve amare la moglie, ma anche la moglie il marito; non solo la moglie deve essere sottomessa al marito, ma anche il marito alla moglie. Amore reciproco e sottomissione reciproca. Ma, a guardare bene, è proprio l'esortazione con cui comincia il nostro testo: “Siate sottomessi gli uni agli altri nel timore di Cristo”. La sottomissione non è allora che un aspetto e un'esigenza dell'amore. Per chi ama, sottomettersi all'oggetto del proprio amore non umilia, ma rende anzi felici. Sottomettersi significa, in questo caso, tener conto della volontà del coniuge, del suo parere e della sua sensibilità; dialogare, non decidere da solo; saper a volte rinunciare al proprio punto di vista. Insomma, ricordarsi che si è diventati “coniugi”, cioè, alla lettera, persone che sono sotto “lo stesso giogo” liberamente accolto. San Giovanni Crisostomo sa trarre delle conseguenze molto belle dal confronto tra il matrimonio umano e quello tra Cristo e la Chiesa. Rivolgendosi ai mariti dice:
”Vuoi che la tua sposa ti ubbidisca come la Chiesa a Cristo? Abbi cura anche tu di lei, come Cristo della Chiesa... Come il Cristo non con minacce né con sevizie né incutendo timore né in alcun modo simile, bensì con la sua grande sollecitudine portò ai suoi piedi colei che gli volgeva le spalle..., così comportati anche tu verso tua moglie... Uno, con il timore, potrebbe legare a sé un domestico, ma la consorte della propria vita, la madre dei propri figli, colei in cui si ha tutta la propria felicità, non la si deve legare a sé con il timore e le minacce, bensì con l'amore e l'intimo affetto. Che matrimonio sarebbe infatti quello in cui la moglie tremasse davanti al marito? E di che piacere potrebbe godere il marito coabitando con la sua sposa come con una schiava e non con una donna libera?” [1]
Per comprendere la bellezza e la dignità del rapporto di coppia,
dobbiamo risalire alla Bibbia. E' scritto: “Dio creò l'uomo a sua immagine, a
immagine di Dio lo creò; maschio e femmina li creò” (Gn 1,27). Viene
stabilito, come si vede, un rapporto stretto tra l'essere creati “a immagine di
Dio” e il fatto di essere “maschio e femmina”. Ma che rapporto ci può
essere tra le due cose? In che senso l'essere maschio e femmina - la coppia umana –
è un'immagine di Dio? Dio non è né maschio né femmina!
La somiglianza consiste in questo. Dio è unico e solo, ma non è solitario.
L'amore esige comunione, scambio interpersonale; richiede che ci siano un “io” e un
“tu”. Per questo il Dio cristiano è uno e trino. In lui coesistono
unità e distinzione: unità di natura, di volere, di intenti, e distinzione di
caratteristiche e di persone. Proprio in questo la coppia umana è immagine di Dio. La
famiglia umana è un riflesso della Trinità. Marito e moglie sono infatti una
carne sola, un cuore solo, un'anima sola, pur nella diversità di sesso e di
personalità. Nella coppia si riconciliano tra loro unità e diversità. Gli
sposi stanno di fronte, l'uno all'altro, come un “io” e un “tu” e
stanno di fronte a tutto il resto del mondo, cominciando dai propri figli, come un
“noi”, quasi si trattasse di una sola persona, non più però singolare
ma plurale. “Noi”, cioè “tua madre ed io”, “tuo padre ed
io”. Alla dignità e bellezza che viene al matrimonio dalla creazione, si aggiunge
quella che gli viene dalla redenzione, dall'essere cioè segno dell'unione tra Cristo e
la Chiesa...
Ecco una descrizione della felicità coniugale fatta dal grande scrittore
Dostoevskij:
“Se una volta c'è stato l'amore, se per amore ci si è sposati, perché dovrebbe passare l'amore? E' forse impossibile alimentarlo? Il primo amore coniugale passa, è vero, ma poi viene un amore ancora migliore. Allora ci si unisce nell'animo, tutti gli affari si decidono in comune; non si hanno segreti l'uno per l'altro. E quando vengono i figli, ogni momento, anche il più difficile, sembra una felicità... Come potrebbero allora il padre e la madre non unirsi ancora più strettamente? Dicono che avere bambini sia gravoso. Chi lo dice? E' una felicità celeste. Sai un piccino tutto roseo, che ti succhia il petto; e quale sarà il marito che prenderà in odio la moglie, a vederla così col proprio bambino?”. [2]
Per altri articoli e studi sulle lettere di S.Paolo presenti su questo sito, vedi la pagina Sacra Scrittura (Antico e Nuovo Testamento) nella sezione Percorsi tematici
[Nota 1] Giovanni Crisostomo, Sulla Lettera agli Efesini, 20 (PG 62,137).
[Nota 2] F.Dostoevskij, Memorie del sottosuolo, Milano 1988, p. 99 ss.